mercoledì 28 settembre 2022

Anagramma di guerra

di Fulvio Baldoino (baldoinofulvio@gmail.com)

"Guerra è sempre", – rispose memorabilmente Mordo Nahum". 
Una sentenza che è la smentita di un'illusione. Mordo Nahum, il greco de La tregua, il romanzo-memoria di Primo Levi che ha il ruolo di io narrante nel viaggio che lo riporta a casa da Auschwitz, la cala come una sciabolata dall'alto della sua cinica e sincera filosofia della sopravvivenza, di constatare le cose e gli eventi ed adattarsi al mondo guardandolo per quello che è, che è sempre stato.
Si finge di non saperlo, per potersi dare una giustificazione, perché diversamente si dovrebbe accettare la scomparsa dell'uomo e della storia. Cosa che, a quanto pare, sembra un prezzo troppo alto da pagare alla verità. 
Vogliamo discutere se sia meglio ciò che quel re assiro con orgoglio fece agli abitanti di una città ribelle: "Davanti alla porta della città innalzai un ponticello di terra, scorticai tutti i capi dei ribelli e disposi le loro pelli lì sopra; alcuni li seppellii vivi, altri, impalai. Molti prigionieri li bruciai, molti li presi vivi: ad alcuni tagliai le mani e le dita, ad altri il naso e le orecchie, ad altri cavai gli occhi. Feci un mucchio dei vivi e un mucchio dei morti; legai le loro teste ai pali, tutto intorno alla città. Bruciai con il fuoco i loro figli e le loro figlie. Distrussi e devastai la città, la bruciai con il fuoco, la annientai completamente", oppure ciò che capita alle vittime di bombe al fosforo bianco, quelle architettate in modo tale che chi si ritrova ad essere una torcia umana, se si immerge nell'acqua a cercare salvezza, provoca la trasformazione delle fiamme in acido perforante che passa il corpo da parte a parte, liquefacendo le ossa? 
Ma questa, si dirà, è la guerra tra popoli: di tanti, ma non di tutti; frequente, ma non eterna.
Il fatto è che dire "guerra è sempre", è dire anche ciò che inevitabilmente saranno le sue conseguenze: l'odio, l'ossessione, la vendetta, il lutto, la pazzia, la solitudine, l'emarginazione, la rabbia, l'ingiustizia, la fame, l'umiliazione, l'incubo che persiste dopo la notte...
Il greco aveva ben chiaro che la guerra non è soltanto quella dei crolli, ma altrettanto e forse più quella delle macerie. 
Guerra è pure quella di sopravvivenza che gli uomini da sempre combattono tra di loro per cibo e acqua, e quella di accumulo per denaro e beni di lusso; come anche quella che gli uomini combattono alleati appassionatamente contro la natura, che, da sola, basterebbe a farci capire, se volessimo intendere, come crederci in pace perché il cannone non spiana le case, ci faccia dimenticare della ruspa che spiana le foreste.
Eppure, se anche affondando nell'utopia fino al ginocchio, volessimo credere che tutto potrebbe essere positivamente risolto da un rinsavimento provvido ed improvviso dell'uomo, il greco avrebbe ancora ragioni in abbondanza nel suo insistere: "Guerra è sempre". 
Anzi, bisognerebbe rendere ancora più pesante la sua sentenza, perché ipotizzando una pacificazione sia tra uomo e uomo che tra uomo e natura, non potremmo pacificare la natura contro se stessa per il rifiuto che ci prende quando il leone raggiunge la zebra, o quando muore di inedia per non averla raggiunta. Una tenaglia da cui non si sfugge. 
Se si accetta l'esistere si accetta contestualmente la violenza, che ne è parte costitutiva. La si può al più moderare o limitare, ma non eliminare. Il bambino nasce nel sangue, e come biglietto d'ingresso dovrebbe essere piuttosto istruttivo.
Ma c'è, se possibile, ancora uno scalino da scendere nella rinuncia all'ideale di pace come qualcosa di realizzabile. 
A dimostrazione, lo scoramento che prende constatando che, diversamente dall'eterna vicenda della zebra e del leone, la violenza sarebbe evitabile e invece si presenta propiziata e persino santificata, col festeggiare la Pasqua, cioè l'idea di rinascita e salvezza, scannando milioni di agnelli, i più miti e indifesi tra gli animali. Poiché la Pasqua è alle porte, tra poco per loro finirà quella breve triste pace di prigionieri che stanno vivendo negli ovili e negli allevamenti intensivi, e comincerà la mattanza dei tagliagole della domenica di Resurrezione. 
E allora se in tempo di pace, idealmente nel massimo tempo di pace, quello della colomba col ramoscello d'ulivo nel becco, anche la pace degli uomini più sinceri e di buona volontà, quelli che lottano ("lottano"! Un lapsus disperato?) per raggiungerla, essa è questa, si può sperare che la guerra smetta, ma non che smetta per non, prima o poi, ricominciare. Si può sperare al massimo che sia una tregua.
Questa è la realtà, ma è anche altrettanto reale che non riusciamo ad accettarla, soprattutto quando della violenza dell'esistere si fa volontario interprete l'uomo; quando vediamo chiaramente, per esempio, che le parole immolare e immorale incarnano l'anagramma del soldato in guerra e dell'agnello al macello.
E ora ritorniamo daccapo ingrandendo solo un po' l'inquadratura: [il greco] "Quando c'è la guerra, a due cose bisogna pensare prima di tutto: in primo luogo alle scarpe, in secondo alla roba da mangiare; e non viceversa, come ritiene il volgo: perché chi ha le scarpe può andare in giro a trovar da mangiare, mentre non vale l'inverso. [l'io narrante] – Ma la guerra è finita - obiettai: e la pensavo finita, come molti in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi immaginare oggi. – Guerra è sempre, – rispose memorabilmente Mordo Nahum".

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