mercoledì 24 agosto 2022

Note in margine a "Si dissolva l'opaco" di Roberto Masi, Ensemble, 2022

di Fulvio Sguerso (fulviosguerso@libero.it)

Una chiave interpretativa di questa prima silloge di testi poetici in versi e in prosa di Roberto Masi – appartenente, annota Daniela Matronola nel suo puntuale commento, a quel genere di composizione poetica tardoantica definito “prosimetro”, come ad esempio il De consolatione Philosophiae di Severino Boezio, presa a modello da Dante per la sua Vita nova e per il suo Convivio; nei tempi moderni la ritroviamo, in parte, nell’opera di Arthur Rimbaud Une saison en enfer e, nel Novecento, nei Canti orfici di Dino Campana  la fornisce l’autore stesso, a me pare, all’inizio del suo saggio breve Cosmo – Agonia dell’Essere. Trascendenza come relazione tra Enti, in cui delinea la sua visione onto-cosmologica ed esistenziale del Limite spaziotemporale di un universo che, o è sempre stato e sempre sarà; oppure, come una volta è nato uscendo dal nulla, un’altra volta può (deve?) tornare al nulla,esattamente come la vita di ciascuno di noi, ed è questo il motivo dell’angoscia che ci coglie quando pensiamo alla morte; visione delineata, ovviamente, entro il Limite connaturato al nostro umano linguaggio. Ma ascoltiamo l’autore: “Mi trovo al tavolino di un bar di Firenze con un amico scrittore, l’entomologo Tommaso Lisa, e mentre osserviamo scendere dal cielo una fine pioggerella primaverile, per ragioni che ci sovrastano veniamo raggiunti da un prolasso di malinconia: dubbi, stanchezza, timori. Nell’ultimo periodo ho meditato spesso sulla mole d’informazioni che mettono a dura prova la nostra r-esistenza; dovremmo ritrovare la comunione con la natura che ci circonda: i suoni della terra, gli odori,  i movimenti della vita fatti ostaggio dai marchingegni dell’ Homo Faber. Tuttavia, Tommaso mi ha fatto riflettere sulla necessità che tutto debba fluire attraverso di noi, e non soltanto il gorgogliare di limpide acque, o il volo incerto d’un coleottero scampato alla rete del naturalista, ma anche il rumore del traffico cittadino, il suono di una sirena, il tintinnare del cucchiaino nella tazzina davanti a me, sul cui fondale residua un grumo di zucchero rappreso. Liquida armonia tra le cose dunque, allacciate da una fitta rete indimostrabile, per ritrovarci come uomini tra gli oggetti, come natura e stratagemma che non si sovrastano l’un l’altro ma si rintracciano per riconoscersi parte di un disordine armonioso. L’uomo è forse un ossimoro quando non si cataloga?”. 
Tutta l’opera poetica di Roberto Masi si configura dunque come un serrato combattimento spirituale contro l’Opaco, cioè contro tutto quello che impedisce alla vita di raggiungere la sua pienezza o perfezione, quella che aristotelicamente potremmo definire la sua “entelechia”, cioè la completa realizzazione di ogni sua potenzialità. Si tratta dunque di un combattimento interiore contro quello che Montale ha chiamato “Il male di vivere”, quel male che ci fa dimenticare l’ armonia dell’universo di cui facciamo parte anche se può succedere che non ce ne rendiamo conto. Questo non toglie che siamo continuamente attraversati dai suoni, dalle voci, dalla musica naturale della pioggia e del vento ma anche dai rumori che dobbiamo al progresso come quello dei motori a scoppio del traffico che fa da colonna sonora alla nostra quotidianità. E anche, e, direi, soprattutto, dalle immagini, che dal mondo esterno, si riflettono nel nostro spazio o specchio interiore e rimangono impresse nella  memoria. Tra queste immagini, alcune posseggono un significato autobiografico, affettivo ed estetico particolare che caratterizza il nostro modo di essere nel mondo e, per un poeta o un artista, la sua “poetica” e il suo stile o  modus operandi. In ogni caso, un’opera d’arte letteraria o figurativa o di qualsiasi altro genere (penso alla musica) non è mai “astratta”, cioè senza radici nel contesto culturale, sociale, ambientale e storico  in cui è stata concepita e in cui è stata realizzata. Nei versi e nelle prose poetiche di Roberto Masi spira un’aria di toscanità, anzi, di fiorentinità che rivela il suo radicamento in quella terra così impregnata di storia, di cultura, di civiltà e di arte che, percorrendola, ci pare di muoverci in un museo a cielo aperto; è l’aria nativa che spira anche nell’opera pittorica di un artista autentico, tra gli altri, come il fiorentinissimo Ottone Rosai. 
Riguardo a Si dissolva l’opaco, se leggiamo, ad esempio, gli undici decasillabi di Requiem: nella sezione “Cretti”  chiaro riferimento alle opere omonime di Alberto Burri con il loro reticolo di venature intersecantesi come la trama dei ricordi e delle sinestesie affiorante nell’intarsio testuale dei versi e delle prose di questo “progetto lirico” (definizione di Gabriele Lastrucci, prefatore del libro) in continuo dialogo, o contrappunto, tra loro  comprendiamo immediatamente in che cosa consiste la fiorentinità di questo originale poeta che pur rimane nel solco di una illustre tradizione letteraria: “Qui, tra i passi accesi del Lungarno / la risonanza insorge (e mi piega). / Sembra un bisogno di sottrazione, / da quel pudore incandescente che / rompe la quiete di Villa Bardini… e / m’incanta una coppia che si trattiene, / mentre il crepuscolo brucia caustico / sopra le pietre di Costa San Giorgio. / E ancora si esiste: nel tormento / che si disperde – oltre la radura / di questo fragile tempo ceduto.”
In questa breve composizione notiamo un concentrato di stilemi ricorrenti in tutta l’opera di Roberto Masi: sinestesie come “i passi accesi”, “pudore incandescente”, “il crepuscolo brucia caustico”,  “fragile tempo ceduto”; enjambement come “quel pudore incandescente che / rompe la quiete di Villa Bardini”, “e / m’incanta una coppia / mentre il crepuscolo brucia caustico / sopra le pietre di Costa San Giorgio”, “E ancora si esiste nel tormento / che si disperde”, “oltre la radura / di questo fragile tempo ceduto”; il colloquio con l’anima dei luoghi e con i luoghi dell’anima: il Lungarno, Villa Bardini, Costa San Giorgio; il tema degli amanti che si attardano nella Villa collinare alla luce morente del giorno; il tormento per la caducità dell’esistenza e del tempo breve e improvviso in cui si apre la “radura” (riferimento forse all’heideggeriana Lichtung che illumina per un istante l’Opaco che avvolge il viandante smarritosi nel bosco “che si muove lento”). 
Nella prosa poetica o d’arte che segue leggiamo al secondo capoverso: “Vivere oltre ogni lamento interiore; esserci a ogni costo, eppure a ogni costo fuggire per non perdersi. Affrettarsi per le vie di San Frediano dopo aver ascoltato una timida liceale leggere un brano di Pratolini, con quel candore che si manifesta nel rossore di guance accaldate, nel tremore di mani sudate, nelle parole che si rompono confondendo il senso della frase col perdono per l’innocenza perduta”. Anche qui mondo esterno e mondo interiore, volontà di vita piena e tentazione della resa al nulla (all’Opaco), si intrecciano e si compenetrano, anche qui un luogo determinato (Borgo San Frediano) e un luogo letterario (un brano di Pratolini letto da “una timida liceale”) convergono nel rivelare la fiorentinità dell’autore e il suo humus culturale e stilistico (così come, altrove, la Piana di Firenze, Santa Maria del Fiore, il Santuario di Montesenario, il vecchio quartiere fiorentino di San Niccolò con le mura del suo “castello muto”). Certo è che i luoghi della giovinezza, riattraversati, evocano ricordi, figure, voci, impressioni, emozioni, sogni e speranze del tempo che fu: “Quattro passi tra le strade del mio paese addormentato, laddove s’è perduta la mia vita nel silenzio: teatro di sogni e speranze, tragedie e fallimenti – e risuonano adesso le parole di amiche sfiorate nel corpo in risonanza: nei pensieri che anticipano il gesto di azioni ispirate da scritti mirabili.
Soffia il vento carico di umidità oceanica; smuove le vecchie conifere e s’incunea nell’arco della torre di guardia mentre cammino nel passato di tutti noi”. Ecco: scrivere, per Roberto Masi, significa camminare non solo nel suo proprio passato ma anche in quello dei giovani della sua generazione, degli amici e delle amiche, dei suoi amori perduti e ritrovati, del se stesso di allora, che non sarebbe quello che è ora se non conservasse in sé quei ricordi felici o tristi, lieti o dolenti; così arriva al tema leopardiano di amore e morte nei versi intitolati All’amico: “Mi chiedi di lei e della morte, amico: / della morte di lei e dell’amore – per lei. / Ma se mi chiedi della morte, amico  / quel dolore si posa sull’amore. // Quella morte un tempo è stata amore, / ma se mi chiedi di sentirlo, amico, / l’amore toglie peso al dolore. // E se ti parlo di lei e dell’amore, / quel dolore smette di smembrare; ma / se mi chiedi della morte e dell’amore, / della stessa cosa io parlo, amico”. E’ lo stesso binomio che troviamo all’inizio del canto XXVII del Leopardi, composto proprio a Firenze tra il 1831 e il 1835: “Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte / ingenerò la sorte. / Cose quaggiù sì belle / altre il mondo non ha, non han le stelle. / Nasce dall’uno il bene, / nasce il piacer maggiore / che per lo mar dell’essere si trova; / l’altra ogni gran dolore, / ogni gran male annulla”. In termini psicoanalitici potremmo dire che non esisterebbe Eros se non ci fosse anche Thanatos: d’altronde non sarebbe concepibile una vita senza morte, come possiamo vedere anche negli altri animali. E il Leopardi è evocato, ma per antitesi (come ha osservato ancora Daniela Matronola), anche negli otto decasillabi che compongono L’ ombra, nella sezione intitolata “Stato di veglia”: “Sul pensiero che annega, l’ombra; / quieta sopraggiunge alla notte. / lieve il suo baluginare smuove, / nell’attesa che il sonno, la disperda. /  E rapace si nutre – e del sangue  / sull’oscillante tralucere del tempo / che in questa oscurità risveglia, / la mia folle umanità corrotta”. L’immensità leopardiana qui diviene “oscurità” e l’eterno l’“oscillante tralucere del tempo”. L’immagine vagamente inquietante dell’ombra che si nutre del nostro sangue mi ha ricordato alcuni versi del  sonetto L’Ennemi di Charles Baudelaire: “O douleur! o douleur! Le Temps  mange la vie, / Et l’obscur Ennemi qui nous ronge le coeur / Du sang que nous perdons croit et se fortifie!”. Come si vede l’orizzonte poetico e filosofico di Roberto Masi volgerebbe al tragico, se non fosse la sua passione per i fenomeni della natura, della terra e del cielo: “Vedo ancora ti vedo lassù, / sopra le fronde dei platani spogli e / tra le stanze ordinate irrompe / un’aria rossa di piume brinate. // E’ un ricordo che soffia l’inverno  / sottratto al tempo dei nostri giorni, / mentre gelido scorre il piovasco / sul ferro dei lampioni che scintilla. // E si fa strada una primavera. / sui coleotteri del cipresseto / che si accalcano  (e si scavalcano), / nel crepuscolo  che taglia il giorno”. 
La fauna di Si dissolva l’Opaco è varia, oltre ai coleotteri, comprende un’ape, le lucciole, un merlo, un martin pescatore, un pettirosso e non poteva mancare il più poetico degli animali: il gatto. Nella prosa che segue i versi dedicati a Il martin pescatore il poeta confessa, terrorizzato di sé, un gesto di cui si è immediatamente pentito ma che gli rimarrà impresso nella memoria come una “morte immacolata”: “Gli arbusti cresciuti sul vecchio muro scendevano fino alla riva infittendo l’ammasso di rovi e là, nascosto al suo interno  c’era il nido. 
Ancora mi stupisco per come le bestie assecondino i propri bisogni privi di qualsiasi vanità: non sembrano subire gli effetti di continue variabili e per quanto volubile, il loro esistere mette in luce la bellezza di una natura non dominata, ma accolta. L’uccellino però non c’era e mi convinsi che l’uovo dovesse essere infecondo.          
La giovinezza si sa, non contempla le attese. Tutto si dilata in una sorta di inaccettabile compromesso in cui la forzatura, spinta da un immediato bisogno d’appagamento, finisce per prevalere sulla ragione: fu così che ebbi l’idea di verificare la mia tesi e ancora caldo del corpo materno, lo scagliai contro una roccia sulla riva del torrente.           
Al suo interno pulsava la vita; un essere indifeso e fragilissimo ignorava che di lì a breve il suo corso terreno sarebbe giunto alla fine. Si muoveva appena: avvolto in un liquido gelatinoso sorgeva alla vita prematuramente, pieno di meraviglia in quella luce estiva che tutto inondava mentre il mio cuore, desideroso di conquistare ciò che a lui sarebbe stato negato, si faceva docile nella coscienza spiazzata.
Alla vista di quel corpo inerme fuggii terrorizzato. Privo di qualsiasi premura mi aggrappai ai rovi per risalire il più in fretta possibile e con la morte immacolata negli occhi, corsi a casa con le mani insanguinate senza sapere a chi appartenesse”. Questa prosa segue i versi che compongono Il martin pescatore, dove il poeta anticipa la confessione sofferta del gesto che ha provocato la sua “morte interiore”: “Da una pulsione malvagia spinto, / il luogo di cure infransi…”; gesto assurdo che sarà, appunto, specificato nella prosa (e che mi ha richiamato, ma in tutt’altro senso,  gli ultimi due atroci versetti del Salmo 137: “Beato chi prenderà i tuoi nati / e li sbatterà contro la roccia”).  
Ci sono poi alcuni versi e alcune immagini che ritornano in luoghi diversi delle prime cinque sezioni del libro, ad esempio “Sull’oscillante tralucere del tempo” e “il bosco si muove lento”  e  “un’aria rossa di piume brinate” e “il saturniano culto del risveglio” e “battono i passi d’un poveruomo” e “mugghia come un mostro (come un dio)”; che cosa significa questo se non che i componimenti di “Cretti”, “Tre ricordi”, “Venti”, “Sei sogni”, “Stato di veglia” sono collegati tra loro da un’unica trama e che formano come un unico poema contro l’Opaco, l’Ombra, Il Male di vivere, l’Oblio e la Morte? 
Le quattro poesie della sesta e ultima sezione: “Indagine cosmica”, fanno parte per se stesse inscrivendosi nella ricerca, nell’indagine appunto, cosmo-ontologica nella quale Roberto Masi è impegnato e in cui impegna anche l’amico lettore al quale si rivolge. Per tentare di comprenderne il senso trascendentale e ontologico, ricorrerò nuovamente al suo saggio breve Cosmo-Agonia dell’essere là dove cita la proposizione numero tre del Tractatus logico-philosophicus di Wittgwnstein: ‘l’immagine logica dei fatti è il pensiero’, ed estrapolandosi dal contesto del Tractatus, si potrebbe tentare di risolvere l’impasse (di parlare su ciò di cui non si può parlare) in ottica esistenziale, in un modo che non impedisca di pensare l’impossibile, di vedere l’inosservabile, di rendere l’esperienza del pensiero un esistenziale che mantenga all’interno del pensiero stesso la risultante di un evento sensibile-esistentivo. Un dialogo necessario non tanto per trovare conferme quindi, quanto per la confutazione che, il più delle volte, si dimostra l’unica vera spinta propulsiva alla creazione del nuovo (poiesis), sebbene possa sembrare in contrasto con l’intento einsteiniano di un approccio che miri al disvelamento basandosi esclusivamente su quanto ci è dato di osservare. In quest’ottica, l’atto di pensare l’impossibile va inteso come la respinta di tutto ciò che appare scontato, nel pensarne cioè gli estremi come fossero distanti tra loro e in linea retta: se  tracciamo nel linguaggio un Limite a ciò che si può esprimere e quindi un confine tra senso e non senso, a quale lato del Limite apparterrà il nostro ‘confine’, ovvero l’espressione di questo limite? Ma se il limite non fosse affatto un confine, bensì qualcosa di eterno che eternamente si mantiene ingenerato, dinamico in ogni suo punto e capace di  tornare su se stesso come teorizzato da Nietzsche? Oppure, se questo Limite che si nega continuamente, non fosse altro che qualcosa cui l’uomo tende pur nel suo infinito sfuggirgli? Per usare le parole di Gabriele Lastrucci: Noi siamo del dolore, siamo nella terra, nell’impossibilità di raggiungere l’infinito, nelle perdite… ma da questo pozzo guardiamo le stelle”. Ecco dunque che questo Limite, cui “l’Uomo Poetico tende, per quanto irraggiungibile lo proietta di fatto in quell’Aperto dibattito che non si trova oltre il Limite stesso (come saremmo portati a credere per via dei nostri deboli sensi), e neppure sulla linea stessa come per Heidegger, bensì nella relazione che questo suo tendere rappresenta, un po’ come la meccanica subatomica suggerisce da Heisemberg in poi, ovvero di un mondo costituito da una fitta rete di ‘relazioni’ senza le quali gli oggetti (Enti) presi singolarmente, di fatto, non esisterebbero”. 
E’ da questo angolo visuale, o da questa parallasse (per usare uno dei termini poetico-scientifici caratteristici dello stile di Roberto Masi) che vanno lette le quattro poesie della sezione “Indagine cosmica” e, in particolare, i versi di Voragine cosmica: “Se mi avvicino sento la morte, / o la vita che remota custodisci / nel mistero del tuo insondabile / occhio di peste, di pece, di lava. // E la caduta in questa voragine, / oltre l’Orizzonte degli Eventi che / mi trattiene dalla consolazione, e / mi converte alla Singolarità, / laddove il pensiero si oblia, e / la parola si risolve per sempre”.

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