sabato 13 giugno 2020

Pasolini in Ungheria. Una rassegna

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

(Si pubblica di seguito la prima parte (la seconda verrà pubblicata come prossima pubblicazione del presente sito, "CriticaMente") del saggio di Federico Sollazzo, Pasolini in Ungheria. Una rassegna, apparso sul n. 8, del 2014, della rivista "Studi pasoliniani".
A causa delle restrizioni alla diffusione in open access imposte dall'editore, il presente scritto è qui offerto in un formato diverso rispetto alla pubblicazione in rivista e tuttavia conforme alla stessa pubblicazione in rivista. Chi desiderasse avere informazioni sul numero di pagina di un determinato passo del presente scritto nella versione edita in rivista, può contattare l'autore all'indirizzo: p.sollazzo@inwind.it)

Federico Sollazzo [*] 
Il presente articolo presenta un quadro della ricezione di Pasolini in Ungheria; benché vengano considerati lavori a partire dagli anni Sessanta, l’articolo è focalizzato sulla ricezione a partire dagli anni Duemila. Si cercherà di evidenziare sia quelli che appaiono come meriti che quelli che appaiono come punti critici di tale ricezione, e di offrire una prospettiva sia dei lavori accademici che della penetrazione di Pasolini presso un pubblico più ampio.
This article presents an overview of the reception of Pasolini in Hungary; although are considered works since the Sixties, the article is focused on the reception since the early millennium. It will try to underline both those appear as positive elements and those emerge as problematic points of the reception, and to provide a framework both of academic works and of the reception of Pasolini by a broader audience.

La ricezione di Pasolini in Ungheria presenta delle caratteristiche peculiari che la rendono alquanto problematica ma, proprio in virtù di questo, con ampi margini di intervento e perfettibilità, supportati da un crescente interesse, anche e forse soprattutto extra accademico, che andrebbe pertanto indirizzato con il dovuto rigore filologico e concettuale.
            Il primo elemento da considerare, databile agli anni Sessanta e Settanta, consiste in un inizio difficile e centellinato della penetrazione, limitata a poche traduzioni sparse su alcune antologie e riviste. Situazione, questa, certamente fortemente influenzata dalla censura, più o meno esplicita, operata verso di lui dal regime di allora. Ciò fece di lui una sorta di autore semi-clandestino, noto perlopiù ad una ristretta cerchia di “adepti”.  
            Successivamente, soprattutto a partire dagli anni Novanta, la produzione di Pasolini ha iniziato a trovare più margini di ricezione, una certa ricezione, caratterizzata da almeno tre fattori determinanti. In primo luogo, il Nostro è stato presentato al pubblico ungherese prevalentemente, se non quasi esclusivamente, come regista e teorico del film (che si prodigava anche in prose e poesie, benché la sua attività fondamentale fosse quella cinematografica); nelle riviste in cui ci si occupava di lui, quali «Filmkultúra», «Filmvilág», «Nagyvilág», «Színház», era infatti trattato sempre come cineasta. Inoltre, se il vecchio regime ne aveva ostacolato la divulgazione, al crollo di quello, nell’euforia sempre poco lucida tipica di tutti i grandi cambiamenti sociali, le sue idee politiche gli valsero l’etichetta di “sporco comunista”. Infine, soprattutto nell’ultimo quindicennio circa, la diffusione commerciale delle sue opere, sempre ruotante prevalentemente attorno alla produzione filmica, su un circuito relativamente ampio (recentemente diversi suoi film sono stati riproposti anche in versione DVD), senza però una preliminare conoscenza organica della complessità del suo pensiero e del resto della sua produzione (romanzi, poesie, drammi teatrali, saggi, articoli pubblicistici, ecc.), ha determinato una conoscenza più che dimidiata e quindi distorta di Pasolini, imperdonabilmente semplificata, epurata dai suoi elementi di maggiore complessità concettuale ed esaltante gli elementi “perturbanti”, ai fini della commercializzazione della sua produzione; insomma, il critico dell’omologazione capitalistico-consumistica è stato fagocitato da tale dinamica, in un Paese bramoso di entrare anch’esso (una sorta di “mamma Roma”?) nell’omologato e omologante mondo occidentale.
            Tuttavia, a fronte di queste problematiche, stante una conoscenza relativamente di nicchia di Pasolini, esistono ancora i margini, prima che un processo di iconizzazione pubblica ne precluda una comprensione critica, per quell’operazione, di cui dicevo in apertura, di rigoroso indirizzamento filologico e concettuale degli studi pasoliniani.    
       
Traduzioni 
Le traduzioni di Pasolini in Ungheria sono purtroppo apparse, nei decenni scorsi, con una certa frammentarietà. Per questo è importante l’opera di sistematizzazione recentemente avviata, che ha la sua prima pietra nella traduzione del 2007 di Empirismo eretico (a cura di Vince Zalán, Osiris) e che è proseguita, ed è tuttora in corso, nella collana “Opere scelte di Pier Paolo Pasolini” curata da István Puskás presso l’editore Kalligram di Budapest-Bratislava. In tale progetto, le traduzioni già pubblicate sono state, nel 2008 Amado mio e Atti impuri (trad. di Ágnes  Preszler), nel 2009 Ragazzi di vita (trad. di Eszter De Martin e István Puskás), nel 2010 un primo volume di sceneggiature contenente Mamma Roma, Il Vangelo secondo Matteo e Medea (trad. di Margit Lukácsi), nel 2011 Una vita violenta (trad. di Eszter De Martin), nel 2013 La religione del mio tempo (trad. di Zoltán Csehy) e sono in preparazione Petrolio e un secondo volume di sceneggiature contenente le tre opere della Trilogia della vita. Per quanto concerne tale progetto editoriale bisogna purtroppo registrare come le traduzioni, ferme restando le innegabili e in parte insuperabili difficoltà in tal senso, lascino un po’ a desiderare, rendendo il linguaggio delle periferie romane come se fosse un linguaggio semplicemente primitivo e non riuscendo così a restituire compiutamente le atmosfere pasoliniane. Tuttavia, questa operazione ha indubbiamente il grande merito, che va ribadito, di fornire una sistematizzazione delle traduzioni, precedentemente sparse in uno scenario frutto di contingenze anziché di programmazione, e di permettere la diffusione di Pasolini presso un più ampio pubblico.
           
Articoli scientifici
La produzione scientifica ungherese su Pasolini si sviluppa prevalentemente attraverso articoli pubblicati su riviste di cinematografia e letteratura.
            In questo genere di produzione non si può non citare, almeno brevemente, anche la traduzione di alcuni rilevanti contributi di studiosi italiani, quali Giulio Carlo Argan, Achille Bonito Oliva, Edoardo Sanguinetti e Enzo Siciliano.[2]
            Quanto alla vera e propria Critica ungherese, essa si presenta in maniera abbondante ma frammentaria. Di seguito si cercherà di restituire i contributi che appaiono tra i più significativi.
            Con una testimonianza che intreccia la propria biografia con la ricezione di Pasolini, Tamás Perlaki nell’articolo del 2003 A filmművészet legnagyobb mártírja (traducibile come “Il più grande martire dell’arte cinematografica”), ricorda come, quando una mattina del 1975 apprese dalla radio dell’assassinio di Pasolini, il suo sconcerto fosse rivolto tanto all’evento in sé quanto al fatto che il mondo non sembrava essere in doloroso e doveroso lutto. L’articolo, inserendosi in quella prospettiva egemone in Ungheria che restituisce l’intellettuale nato a Bologna prevalentemente come regista, prosegue poi con una serie di osservazioni su quelli che vengono ritenuti i film principali dello stesso. Vengono così passati in rassegna Il Vangelo secondo Matteo, che viene considerato essere il film con l’immagine di Gesù più autentica e credibile che abbia mai attraversato la storia del cinema, risultato reso possibile dall’aver trattato il personaggio da un’ottica non prettamente cristiana, bensì universale, rendendolo così affine alla prospettiva della tragedia greca; Edipo re, ritenuto essere un affresco ironico della complessiva visone del mondo pasoliniana; la Trilogia della vita, a proposito della quale si ricorda come in epoca socialista la proiezione avvenisse sempre a tarda sera, essendo considerata troppo “audace” da una società che, pur lontana da influssi religiosi, non amava affrontare frontalmente le tematiche della sessualità; infine Salò o le 120 giornate di Sodoma, del quale Perlaki sul finire degli anni Settanta presentò un’anteprima a Budapest costituita da sole foto, in un momento in cui il film era ancora vittima della censura.
            Gábor Karátson nel suo articolo dello stesso anno Máté evangéliuma. Arcban elbeszélve (“Il Vangelo secondo Matteo. Raccontato nei volti”) si sofferma sull’importanza dei volti, nel film in oggetto. Ogni faccia è infatti diversa dalle altre, contingente, non ideale, non predeterminata, insomma, non omologata. Proprio attraverso l’espressività di tali facce, che per Karátson non ha eguali nella storia del cinema e si può ritrovare solo nelle tele di maestri come Leonardo, Giotto, Piero della Francesca, Georges Rouault, Pasolini definisce la condizione umana peculiare di un certo tipo di antropologia.
            Per commemorare il trentesimo anniversario della morte, Gergely Bikácsy scrive Pasolini-feltámadás. A holló hamvai (“Resurrezione di Pasolini. Le ceneri del corvo”). In tale articolo vi sono almeno due ordini di considerazioni che trovo di grande importanza. Innanzi tutto, l’autore attribuisce maggiore significatività a quello che definisce come il “lato oscuro” della produzione pasoliniana, anziché alle allegre stilizzazioni della vita (dalle quali infatti il Nostro abiurerà). In opere quali Accattone, Edipo re, Medea e Abiura dalla Trilogia della vita è infatti posto il problema di quel profondo rapporto che lega gioia e morte: il corpo, proprio perché possibile fonte di soddisfazione e libertà, è costantemente sottoposto ad una minaccia di annichilimento, che trova piena attuazione nel momento in cui il Potere (senza volto), in particolare attraverso la manipolazione della sessualità, se ne appropria. Inoltre, viene con chiarezza ricordato come, nonostante la fortuna delle sue opere e nonostante il suo amore per un certo tipo di umanità, Pasolini non abbia mai lavorato per la fruizione di massa delle proprie opere, rimanendo anzi sempre estremamente critico nei confronti della cosiddetta industria culturale. L’articolo si chiude con alcune considerazioni su Porno-Teo-Kolossal, ritenuta essere una sceneggiatura che apre affascinanti parallelismi con Federico Fellini e Luis Buñuel.  
            Particolarmente pregevole risulta essere l’articolo di Viktor Kubiszyn Pasolini csórói. Szép fiúk a sikátorból del 2005 (“Gli accattoni di Pasolini. I bei ragazzi del vicolo”). L’autore infatti riesce a cogliere ed esprimere chiaramente un elemento che a volte, purtroppo, in Ungheria è fonte di grandi fraintendimenti derivanti dal filtrare il discorso pasoliniano attraverso gli occhi della recente storia sociale ungherese (evidentemente estranei all’autore). In Ungheria infatti, come è noto, alla demonizzazione della borghesia operata dal regime, è seguito, alla caduta di quello e per reazione, un moto di rivalutazione del concetto di borghesia e quindi della figura del borghese nella società. Filtrata attraverso questa prospettiva, si stenta a comprendere la natura della critica di Pasolini alla borghesia (arrivando, a volte, finanche a conclusioni a dir poco “fantasiose”[3]), e il suo amore per il sottoproletariato viene ridotto a una questione politica. Ma così non è, appunto, nell’articolo in questione dove vengono sviscerate con chiarezza le ragioni estetico-antropologiche dell’amore (poi tradito) di Pasolini per i sottoproletari e del suo odio per chi ne rappresenta l’opposto e la possibile corruzione: i borghesi. L’autore infatti, a proposito di quelli che vengono definiti “gli accattoni di Pasolini” afferma che “sono cattivi, rubano, truffano, mentono. Ma sono lo stesso belli e brillano di purezza”. L’unico punto critico di tale studio è che, riguardo all’omicidio del Nostro, si conceda troppo all’ipotesi del “suicidio sacrale”.
            In che misura Pasolini sia influenzato e rielabori poi in modo originale le contingenze storiche in cui visse, è ciò che si chiede Janka Barkóczi in un articolo scientifico che più che offrire possibili risposte a tale questione, ha il merito di porla: “Késésben vagytok, drágáim.” Baloldali koncepció Pier Paolo Pasolini művészetében (“«Siete in ritardo, cari.» Concezioni di sinistra nell’arte di Pier Paolo Pasolini”), 2006. Nel testo vengono considerati, come elementi influenti di quel momento in Italia, il boom economico, l’afflusso di capitali stranieri, la specificità dell’eurocomunismo e la tendenza culturale a traslare la critica sociale dalla distribuzione della ricchezza alle caratteristiche culturali del “sistema”. Alla luce di un tale scenario trovano così una loro interpretazione alcune opere del Nostro quali Accattone, Il Pci ai giovani!!, e Salò, rispettivamente lette come l’atto rivoluzionario del rifiuto del lavoro, il disvelamento delle contraddizioni del movimento del ’68 e la seduttività del potere che corrompe tanto chi lo esercita quanto chi vi è sottoposto. Facendo quindi interagire la dimensione storica con la rielaborazione individuale che ne fa Pasolini, il testo può così concludersi affermando come la sua opera rappresenti una sorta di enciclopedia critica di un’intera epoca.
            Nel 2008 Szilárd Biernaczky pubblica un lungo articolo, Pier Paolo Pasolini – a borzalmas teljesség költője (“Pier Paolo Pasolini — il poeta della terribile completezza”) in cui mette in evidenza quello che è il nervo scoperto della ricezione pasoliniana: la sua arte è ricca di apparenti paradossi e contraddizioni e la sua eredità intellettuale è ancora ampiamente incompresa, circondata da confusione, fraintendimenti, giudizi tranchants, unilaterali, non in grado di dar conto della complessiva organicità della sua produzione. L’unica possibilità di superamento di questa problematica risiede nel mettere la sua arte in relazione con la realtà, italiana ed europea, della seconda metà del secolo scorso e con la sua biografia. Portando avanti questa operazione, l’autore dell’articolo ripercorre quasi tutta la produzione pasoliniana (dal periodo romano a quello della sua consacrazione, dalla prosa alla poesia, dagli articoli ai lavori teatrali e ai film) leggendola, di volta in volta, alla luce delle circostanze sociali e personali in cui è posta. Le conclusioni dell’articolo appaiono infine di particolare interesse. In queste si denuncia come, successivamente alla morte di Pasolini, la sua opera e la sua figura siano state oggetto di continui tentativi di appropriazione ideologica. Queste operazioni, intellettualmente disoneste e limitate e strumentali al potere che le compie, distorcono completamente il discorso pasoliniano. La sua infatti è un’opera originale, al di fuori di qualsiasi paradigma ideologico anche quando vi si riferisce o ne usa parzialmente il vocabolario, che presenta le contraddizioni, la complessità e la drammaticità della sua (nostra) epoca, non fornendo modelli di vita ma una catarsi nelle tragedie dell’esistenza contemporanea.
            Molto interessante è il contributo di János Kelemen del 2008 Tisztátalan szerelmek (“Amori impuri”) che si apre sottolineando l’importanza dell’operazione, di cui si è detto, in cui è impegnato l’Editore Kalligram di traduzione di opere selezionate di Pasolini. L’importanza del testo di Kelemen risiede nell’invitare il lettore a non avere su Pasolini un’opinione preorientata dalle tendenze sessuali dello stesso, e dalla vulgata che su di esse si è sviluppata, bensì a cercare nei suoi testi una possibile “spiegazione”, che può risiedere solo nella comprensione generale della biografia e del pensiero dell’autore. Andando alla ricerca di un significato, quello che si troverà sarà una manifestazione di bellezza e amore, in cui consiste, appunto, il senso della vita e dell’opera di Pasolini..    
            Sempre nel 2008 Judit Bárdos, moglie di János Kelemen e anch’essa studiosa della cultura italiana, scrive un articolo di commento all’edizione ungherese di Empirismo eretico: Pier Paolo Pasolini Eretnek empirizmus című könyvéről (“Sul libro Empirismo eretico di Pier Paolo Pasolini”), sottolineando come tale pubblicazione dia al lettore ungherese la possibilità, precedentemente quasi del tutto assente, di conoscere la multiformità espressiva dell’intellettuale italiano, che ha anche in qualche modo segnato la cultura europea, potendolo presentare allo stesso tempo come regista, romanziere, poeta, critico letterario, semiologo e intellettuale engagé. Ma il cuore dell’articolo consiste in un’analisi linguistico-filosofica della forma espressiva di Pasolini, per il quale, ricorda l’autrice, esiste una stretta connessione tra i fatti sociali e il linguaggio. Un approccio marxista, quindi, ma certamente non di un marxismo rozzo o ortodosso, bensì intendendo lo stesso come uno strumento di critica sociale e dunque di perseguimento di una possibile libertà, individuale e collettiva. L’articolo si sofferma poi sull’uso del discorso indiretto libero in Pasolini.     
            Per completezza d’informazione riguardo la Critica pasoliniana, si deve anche menzionare come i volumi monografici siano purtroppo pochi, datati e di difficile reperimento.[4]       


[*] Federico Sollazzo, University of Szeged (Hungary), Doctoral School and Department of Philosophy, H-6722 Petőfi S. sgt. 30-34: http://www2.arts.u-szeged.hu/philo/Image/sollazzo.htm; e-mail: p.sollazzo@inwind.it; CV and List of Publications: www.costruttiva-mente.blogspot.com/p/curriculum-vitae-e-lista-delle.html; personal portal, "CriticaMente": www.costruttiva-mente.blogspot.com. Per la stesura del presente articolo ringrazio Judit Pintér, traduttrice di Pasolini, per l’ampio materiale messomi a disposizione e l’amichevolezza manifestatami, i professori János Kelemen e Endre Szkárosi dell’università ELTE di Budapest per i suggerimenti e le informazioni datemi e mia moglie, Mária Kovács, per la sistematizzazione del vasto materiale da esaminare.
[2] Per i dettagli sulle traduzioni di Pasolini e quelle di studiosi italiani, cfr. la bibliografia del presente articolo.
[3] Più di una volta ho trovato gli studenti inclini a ritenere che delineando il passaggio dalla condizione sottoproletaria a quella borghese Pasolini abbia voluto indicare un percorso di redenzione e miglioramento della condizione umana.
[4] Una breve selezione degli stessi è disponibile nella bibliografia a fine articolo.

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