di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it; IV di 4)
3. Relazionalità tramite diversità
Quello precedentemente descritto è lo scenario storico-filosofico su cui si colloca l’odierno dibattito[1] fra Libertarians e Communitarians, dibattito che contiene un duplice pericolo nel quale ci si imbatte quando si affronta il tema della differenza culturale e identitaria: trascurare la differenza o mitizzarla.
Si può addirittura dire che oggi ci troviamo al cospetto di due vettori che spingono in direzioni contrarie e, apparentemente, inconciliabili ma che, paradossalmente, fungono l’uno da propellente per l’altro, poiché l’incremento di ciascuno di questi due processi sollecita, come risposta, la crescita dell’altro: la forza centripeta dell’omologazione universale e quella centrifuga della differenziazione. In altri termini, un processo omologante di de-territorializzazione versus un fenomeno diversificante di ri-territorializzazione, di ritorno alla comunità, alla piccola patria peculiare nelle sue differenze dalle altre. Anche l’abbattimento dei confini fisici e politici (emblematicamente rappresentato dall’apertura prima e dalla caduta poi del muro di Berlino, rispettivamente nel 1989 e nel 1990) viene assorbito in questa disputa, o come dimostrazione dei processi “deterritorializzanti”, o come stimolo dei fenomeni “riterritorializzanti”[2]. È fondamentale notare come tali dinamiche vengano spesso descritte con la formula dell’aut aut (dello scontro di civiltà a lá Huntington), anziché dell’et et, che ne coglie invece adeguatamente la natura[3]. Questo avviene quando la prospettiva di fondo è quella della (ri)costruzione di un’identità intesa come “monade monolitica”. Questa infatti si è sempre costituita tramite dinamiche di appartenenza, sociale, politica, economica, religiosa, etnica, territoriale, ecc, ma oggi tutte le categorie sotto la cui bandiera ci si affiliava sono erose dalla complessiva crisi dei tempi che abbatte i vecchi punti di riferimento, senza costituirne di nuovi. Non è affatto detto che questo sia un problema, poiché per tal via si è posti di fronte alla possibilità di rielaborare (mai definitivamente) i propri riferimenti e dunque assumere consapevolmente la propria identità; tuttavia, stante la difficoltà di questa operazione, che non è certo agevolata dalle varie istituzioni, ciò a cui si assiste è o la rinuncia al tentativo di definizione di un’identità o il radicalizzarsi di quest’ultima sotto una delle suddette bandiere, rifugiandovisi; quest’ultima operazione sfocia in una logica multiculturale che
finisce per cristallizzarsi in un sistema di differenze «blindate» che, a onta della conclamata «politica della differenza» (politics of difference), si atteggiano come identità in sedicesimo: monadi o autoconsistenze insulari interessate esclusivamente a tracciare confini netti di non-ingerenza. Come infrangere questa rigida clausola di non-ingerenza, che in apparenza estende ma in realtà stravolge l’idea di differenziazione rovesciandola in frammentazione e proliferazione meccanica della logica identitaria?[4].
Probabilmente la risposta alla suddetta domanda può giungere solo con un radicale mutamento di prospettiva nell’affrontare le questioni inerenti al pluralismo culturale, ed al relativo sedicente pluralismo etico[5], ovvero, liberandoci
dall’errata convinzione che le relazioni tra esseri umani differenti, con tutte le loro diverse diversità, possano in qualche modo essere espresse sotto forma di rapporti tra civiltà, invece che di rapporti tra persone[6].
Intendere le relazioni umane come rapporti tra persone, anziché tra civiltà o comunità, tra gruppi identitari chiusi che definiscono l’identità dei propri membri tramite la radicalizzazione di un (sedicente) medesimo (elevato a mito di purezza) e l’esclusione di un (sedicente) diverso (arrivando finanche alla sua colpevolizzazione/criminalizzazione) è l’unica via per decifrare le questioni inerenti al riconoscimento ed alla valorizzazione delle differenze identitarie, in un quadro di valori e principi universalmente valido per tutti gli uomini in ogni tempo e sotto ogni clima. Oggi più che mai questa operazione appare urgente, in una globalizzazione che, più che oscillare fra, sovrappone omologazione, scomparsa di differenze significative, e “monadizzazione”, auto-ghettizzazione entro i limiti di una mitica e mitizzata comunità, economica, politica, territoriale, di sangue, di culto, ecc. Assumendo le persone come vertice ottico, risulta evidente come esse siano al contempo diverse ed uguali fra di loro. Le differenze si situano nella identità[7] personale di ciascun essere umano, fatta di contingenze e di scelte, unica e irripetibile. L’uguaglianza risiede nella costituzione antropologica basilare[8], che rappresenta una sorta di potenziale pattern universale, sopra il quale ciascuno dipinge la propria identità come vuole e come può. La questione che si pone è allora quella di dar vita ad un’interazione umana che non sia fondata né in una logica omologante, né in un logica di “ghetti contigui”, di “differenze blindate” senza porte né finestre, di «piccole isole, ciascuna fuori dalla portata intellettuale e normativa dell’altra»[9]. È oggi possibile assolvere a tale compito?
Comunemente, in base ad una tradizione di pensiero che passa, fra gli altri, per Voltaire, John Locke e Karl R. Popper, siamo abituati a ritenere che la tolleranza[10] sia la risposta alla precedente domanda; tuttavia tale concetto, che al suo manifestarsi ha certamente avuto un impatto positivo sulla nostra civiltà, si espone oggi ad un duplice ordine di pericoli. Innanzitutto, la tolleranza viene elargita da chi ha la volontà di tollerare, ma ciò significa che costui potrebbe anche non avere più tale volontà e, dunque, non tollerare più. Inoltre, il concetto di tolleranza tende a scivolare verso quello di sopportazione, dietro il quale si cela una pressoché totale svalutazione delle posizioni altrui. Per evitare queste problematiche è oggi necessario ricorrere ad un altro principio che possa orientare le relazioni umane, sia a livello individuale che collettivo, quello del rispetto: non tollerando, bensì rispettando l’altro è possibile relazionarsi autenticamente, nel confronto, con lui, offrendo qualcosa di nostro all’altro e accogliendo qualcosa dell’altro in noi, “contaminandoci” reciprocamente, mantenendo ciascuno la propria libera autonomia e le propria differenza specifica, derivanti dalla propria irriducibile identità, senza però trincerarsi in essa e dunque modellandosi nel “contatto inquinante” con l’altro; «non si può simultaneamente sciogliersi nel godimento dell’altro, identificarsi con lui, e restare diversi»[11]. Se vogliamo vivere insieme, non nonostante, ma grazie alla diversità,
se vogliamo scongiurare lo sfruttamento meramente commerciale della diversità ed evitare lo scontro fra culture che si verifica quando la diversità alimenta paura e rifiuto, dobbiamo attribuire un valore positivo a […] contaminazioni e a […] incontri, che aiutano ciascuno di noi ad allargare la propria esperienza, rendendo così più creativa la nostra cultura […] (Dunque) il cosmopolitismo, inteso realisticamente, significa […] accettare gli altri come diversi e uguali. In questo modo viene nello stesso tempo svelata la falsità dell’alternativa tra diversità gerarchica e uguaglianza universale. Così, infatti, vengono superate due posizioni, il razzismo e l’universalismo apodittico[12].
Pertanto, l’irriducibilità di un’identità ad un’altra, di una cultura ad un’altra, non solo non vieta il confronto fra le stesse, ma anzi lo rende possibile grazie ad una sorta di “universalismo della differenza”, di “sintesi disgiuntiva”, in cui proprio l’inassimilabilità delle singolarità costituisce il trait d’union fra le stesse[13].
La civiltà mondiale non può essere altro che coalizione, su scala mondiale, di culture ognuna delle quali preservi la propria originalità. (Infatti) se è vero che quello strano complesso di accadimenti che chiamiamo “mondo” è, in quanto eventualità, fatto di differenze, ne consegue allora che le differenze non si identificano mai con l’essere, ma sempre lo differenziano. E soltanto perché lo differenziano producono il fenomeno del divenire, della vita […]. Solo per questa via, solo afferrando questo passaggio, possiamo far esplodere il dispositivo della metafisica, che poi fa tutt’uno con il dispositivo del potere: l’idea dell’Uno come unità delle differenze[14].
Per tal via sarebbe possibile passare dalle storie dell’uomo alla storia dell’uomo, il che non significa negare la molteplicità, ma assumere il dato che i confini identitari (di una storia, di una tradizione, di una comunità, di un uomo) sono tracciabili solo “decisionalmente”[15]. Infatti, l’identità (sia individuale che collettiva) si costituisce tramite l’aggregazione di più elementi, e nel valutare quanti e quali fattori sia necessario aggregare e quale conformazione dargli, è fondamentale il ruolo della scelta. Così, ogni uomo definisce la propria identità prendendo posizione su quegli elementi con i quali riesce ad entrare in contatto, dai quali riesce a farsi “contaminare”, arricchendosi nella consapevolezza critica di questo processo:
nella nostra vita siamo tutti individualmente coinvolti in identità di varia natura, in contesti disparati […]. Una persona può considerarsi italiana, donna, agnostica, medico e così via […]. Ognuna di queste collettività – e la persona in questione appartiene a tutte – le fornisce una particolare identità, di diversa importanza a seconda del contesto, che, quando implica atteggiamenti differenti, entra in competizione con le altre per l’attenzione e la fedeltà della persona. Non è possibile attribuire all’individuo l’appartenenza esclusiva – o prevalente, a seconda dei casi – a un unico gruppo. Ognuna di queste categorie può essere di importanza cruciale in particolari contesti. Nella determinazione del peso relativo di queste identità e nella definizione di un ordine di priorità che, a sua volta, può variare con le circostanze, è fondamentale il ruolo della riflessione[16].
In altri termini, l’identità è una sorta di mosaico rispetto al quale non si può fare altro che
continuare ad incastrare insieme i pezzi […]. Ma incastrarli insieme una volta per tutte, trovare il miglior incastro possibile, quello che mette fine al gioco d’incastro? No, grazie, questo è qualcosa di cui si fa volentieri a meno[17].
Ma, si badi bene, non bisogna cadere nell’errore di credere che fare i conti con l’identità significhi semplicemente (e semplicisticamente) praticare il gioco d’incastro dei tasselli del mosaico identitario, assumendo gli stessi come già dati, come se non avessero una loro specifica genesi, come se l’unica operazione che fossimo chiamati a fare nei confronti dei tasselli identitari fosse quella di (ri)disporli in un certo modo, non potendo però interagire con il loro contenuto. Al contrario, mettendo in questione un tassello identitario, ripercorrendone la genesi, si possono rinvenire i processi che hanno portato, perimetrandolo, alla sua definizione, ed infrangere tali confini. E questa infrazione ci dice che l’identità, qualsiasi identità, risponde a una necessità pratica di qualificazione generando dispositivi di esclusione/inclusione, gabbie, ghetti[18], dai quali ci si può liberare solo, apparentemente paradossalmente, non identificandoci con l’identità:
differenza non come negatività dialettica, e neanche come mero rovescio della logica identitaria. Ma differenza come cifra dell’inidentificabilità dell’essere. L’essere non tollera identificazioni, non ha carta d’identità[19].
E poiché tale dinamica agisce sia a livello individuale che collettivo, siamo oggi chiamati al
superamento di ogni visione essenzialistica delle cosiddette “identità culturali”: a partire dall’acquisizione per cui tutte le culture, compresa la cultura occidentale, sono non solo – com’è ovvio, e come è stato più volte ribadito da Amartya Sen e da altri – intrinsecamente plurali, ma anche attraversate da conflitti di valori […]. Ripensare a un essere-in-comune composto di storie diverse e di inassimilabili differenze: a una civitas come comunità paradossale suscettibile di accogliere le esistenze (ed esperienze) singolari, indipendentemente dalle appartenenze identitarie che di volta in volta si danno: come inevitabile effetto dei meccanismi di identificazione simbolica e delle pratiche collettive di “invenzione della tradizione”[20].
Dunque, l’essere umano, ben lungi dall’essere un soggetto individuale indivisibile, come il termine in-dividuo vorrebbe, può essere considerato un insieme di tasselli differenti, nessuno dei quali determinante per l’identificazione dell’identità, ma ciascuno dei quali contribuente alla formazione della stessa[21]; formazione perennemente in fieri sempre su due livelli: non solo su quello della (ri)disposizione delle tessere, ma anche su quello (ben più fondamentale) della loro (ri)definizione. Ora, benché la scelta di tali priorità sia un ineludibile compito esistenziale, è fondamentale che essa sia consapevole, affinché ciascun essere umano abbia coscienza di non essere l’espressione di un solo dato, ma la somma di diversi fattori che convivono in lui e che egli costantemente organizza con la propria scelta, ma per rendere tale scelta critica, per non essere grotteschi replicanti di disposizioni organizzative che vengono pro/im-poste, è decisivo essere consapevoli di tali processi di strutturazione dell’identità.
Meglio, il termine identità, per quanto di più immediata presa sul lettore, echeggia in sé una chiusura, propongo quindi, in conclusione, di sostituirlo con quello di biografia (intendendo con esso tutto quello di cui sopra) che rimanda invece ad un’apertura. La biografia ha una sua dialettica: contiene sia la necessità dell’esperienza già vissuta, sia la possibilità dell’esperienza da viversi.
[1] Per una ricostruzione delle tesi libertarie cfr.: E. Angner, Hayek and Natural Law, Routledge, Milton Park-New York 2007, N. Bobbio, Liberalismo vecchio e nuovo, in Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1991, T. A. Burczak, Socialism after Hayek, Michigan M.P., Ann Arbor 2006, B. Caldwell, Hayek’s Challenge, Chicago U.P., Chicago 2004, A. Cocozza (a cura di), Utopia e sociologia, Armando, Roma 2004, R. Cubeddu, Politica e certezza, Guida, Napoli 2000, A. Ebenstein, Friedrich von Hayek, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, A. Farrant (a cura di), Hayek, Mill and the Liberal Tradition, Routledge, Milton Park-New York 2011, E. Feser (a cura di), The Cambridge Companion to Hayek, Cambridge U.P., New York 2006, Id., On Nozick, Wadsworth, Belmont 2004, F. A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, il Saggiatore, Milano 1986, Id., The road to serfdom, Routledge, London 2007, N. Matteucci, Il liberalismo, il Mulino, Bologna 2005, R. Nozick, Anarchia, stato e utopia, il Saggiatore, Milano 2008, Id., Invarianze, Fazi, Roma 2003, Id., La vita pensata, Rizzoli, Milano 2004, G. Pellegrino, I. Salvatore (a cura di), Robert Nozick, LUISS U.P., Roma 2007, D. Schmidtz (a cura di), Robert Nozick, Cambridge U.P., Cambridge 2002, F. Sollazzo, L’individualismo nelle teorie liberali, in «L’accento di Socrate», n. 11, 2011 e U. Ternowetz (a cura di), Friedrich A. von Hayek e la Scuola Austriaca di Economia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003. Per un’introduzione al comunitarismo cfr.: AA. VV., «La prospettiva comunitaria», n. 2/3, 1999/200 , R. Abbey (a cura di), Charles Taylor, Cambridge U.P., Cambridge 2004, R. Carsillo, Il problema morale in MacIntyre, Levante, Bari 2000, I. Colozzi, Varianti di comunitarismo, FrancoAngeli, Milano 2002, N. Genghini, Identità comunità trascendenza: la prospettiva filosofica di Charles Taylor, Studium, Roma 2005, S. Mendus, After MacIntyre, Polity, Cambridge 1994, A. MacIntyre, Dopo la virtù, Feltrinelli, Milano 1993, M.C. Murphy, Alasdair MacIntyre, Cambridge U.P., New York 2003, P. Nepi, Charles Taylor, in C. Di Marco (a cura di), Un mondo altro è possibile, Mimesis, Milano 2004, K. Ohnsorge, Il comunitarismo, un approccio filosofico-politico, in C. Viafora, R. Zanotti, E. Furlan (a cura di), L’etica della cura, FrancoAngeli, Milano 2007, V. Pazé, Il comunitarismo, Laterza, Roma–Bari 2004, A. Pirni, Charles Taylor, Milella, Lecce 2002, M. J. Sandel, Public Philosphy, Harvard U.P., Cambridge 2005, F. Sollazzo, I principi del comunitarismo. Ch. Taylor e A. MacIntyre, in «Prospettiva persona», n. 61/62, 2007, C. Taylor, Gli immaginari sociali moderni, Meltemi, Roma 2005, Id., Il disagio della modernità, Laterza, Roma–Bari 1999, Id., L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009, Id., Radici dell’io, Feltrinelli, Milano 1993 e J.R. Weinstein, On MacIntyre, Wadsworth, Belmont 2004. Per un confronto fra le due correnti cfr.: A. de Benoist, Comunitaristi vs. liberali, in Id., Identità e comunità, Guida, Napoli 2005, E. Caniglia, A. Spreafico (a cura di), Multiculturalismo o comunitarismo?, LUISS U.P., Roma 2003, V. Cesareo, Individualismo e comunitarismo, in Società multietniche e multiculturalismi, Vita e Pensiero, Milano 2007, A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, Ed. Riuniti, Roma 2000, M. La Torre, Liberalismo e comunitarismo: un dibattito nel crepuscolo di Weimar, in Id., La crisi del Novecento, Dedalo, Bari 2006, E. Pariotti, Individuo, comunità, diritti: tra liberalismo, comunitarismo ed ermeneutica, Giappichelli, Torino 1997, G. Sartori, Pluralismo, Multiculturalismo e Estranei, Rizzoli, Milano 2002, E. Vitale, Il soggetto e la comunità, Giappichelli, Torino 1996 e L. Simeoni, Liberalismo e comunitarismo: tesi a confronto, in La cittadinanza interculturale, Armando, Roma 2005.
[2] È importante notare come l’attuale crisi economica (che produce inevitabilmente anche una crisi di legittimazione politica) produca movimenti, con forti venature populiste e reazionarie, di chiusura nel proprium visto come soluzione alla crisi poiché questa si è verificata attraverso istituzioni (ad esempio la UE) improntate ad una prospettiva d’apertura cosmopolita. Ora, più che sottolineare come sia gli uni che gli altri portino avanti una certa idea perché è a loro funzionale, vorrei qui osservare come l’attrito fra masse populisticamente orientate verso fenomeni riterritorializzanti e istituzioni basate su processi deterritorializzanti produca uno scollamento con conseguenze potenzialmente catastrofiche sia in ambito politico-sociale (disordini e finanche guerre) sia in ambito culturale (il cavalcare l’una idea o l’altra per propri interessi, anziché il cercare di comprenderle). «L’ignoranza della complessità della società contemporanea provoca uno stato di incertezza e di ansia generalizzata che costituisce il terreno ideale per il tipo moderno del movimento di massa reazionario. Simili movimenti sono sempre populisti e volontariamente anti-intellettuali» (Th. W. Adorno et al., La personalità autoritaria, Comunità, Milano 1997, vol. II, p. 231).
[3] Come esempio di interpretazione all’insegna dell’aut aut cfr. S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000, mentre come esempio di interpretazione nel segno dell’et et cfr. Z. Bauman, Globalizzazione e glocalizzazione, Armando, Roma 2005.
[4] G. Marramao, Passaggio a Occidente, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 95. Riflettere sulla nozione di cittadinanza, significa farsi carico dell’odierna caduta dei legami etico-politici e del compito di «ri-progettare e ripopolare l’agorà ora in gran parte vuota, il luogo d’incontro, di dibattito e di negoziazione tra individuo e bene comune, pubblico e privato» (Z. Bauman, La società individualizzata, il Mulino, Bologna 2002, p. 153) – cfr. anche Id. Dentro la globalizzazione, Laterza, Roma-Bari 2006 e Id., La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2006. Più dettagliatamente, «il fenomeno al quale dobbiamo rivolgerci potrebbe essere, allora, più congruamente definito nei termini di una produzione globale di località: è il fenomeno delle comunità immaginate, che vengono a configurarsi come tante nazioni di eccentrici. La “nazione degli eccentrici” è il fenomeno nuovo con cui siamo chiamati a misurarci: non dobbiamo, dunque, intendere il locale alla maniera di comunitaristi come Taylor, MacIntyre o Sandel, ma piuttosto nel senso di una dinamica nuova che attraversa tanto il locale quanto il globale» (G. Marramao, Passato e futuro dei Diritti Umani, in A. De Simone (cura), Diritto, giustizia e logiche del dominio, Morlacchi, Perugia 2007, p. 557). Sulla categoria di “comunità immaginate” cfr. B. Anderson, Comunità immaginate, manifestolibri, Roma 1994. Sulla questione della “differenza”, in chiave politica cfr. I. M. Young, Le politiche della differenza, Feltrinelli, Milano 1996.
[5] Per semplificare, uso qui pluralismo etico e culturale come equivalenti di relativismo etico e culturale, cioè di quell’orientamento che vorrebbe vi fosse incomunicabilità fra le varie culture e concezioni etiche (fermo restando che la possibilità della comunicazione non implica l’assunzione dei medesimi valori, ma richiede tuttavia un medesimo schema mentale, “principio di carità”, il quale, a mio avviso, è dipendente dalle dinamiche dell’antropologia nella storia; cfr. nota 1 del presente testo). Cfr. F. Sollazzo, Pluralismo delle culture e “univocità” dell’etica, in «L’accento di Socrate», n. 3, 2010.
[6] A. Sen, Il ballo in maschera dell’Occidente, in «la Repubblica», 30/06/06.
[7] A questo proposito è da osservare con particolare attenzione, e preoccupazione, l’odierna avanzata, in pressoché tutti i campi, delle cosiddette neuroscienze che, riducendo l’uomo ad un complesso di meccanismi neuronali, gli conferiscono la stessa identità di una marionetta. Peraltro, dando per scontato che quando in una data situazione avviene una certa reazione neuronale, quest’ultima sia necessariamente la causa di un comportamento, senza neanche prendere in considerazione che possa esserne la conseguenza: la registrazione fisica di una accadimento intellettuale e/o emozionale. Per una agile ma efficace introduzione ai problemi della scientificizzazione della vita cfr. N. Postman, Technopoly, Bollati Boringhieri, Torino 1993, per il quale, fra l’altro «è’ il pubblico disperato alla ricerca di un’autorità morale più potente che chiede allo studioso di scienze naturali (e sociali) di dire che è la scienza che parla, e non un uomo o una donna […] l’uomo medio di oggi è altrettanto credulone dell’uomo medio dell’epoca medievale. Solo che allora la gente credeva ciecamente nell’autorità della sua religione, e oggi crede ciecamente nell’autorità della nostra scienza» (ivi, pp. 147 e 57, parentesi mia) e H. Marcuse, Il pensiero a una dimensione, nell’ormai classico Id., L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999. Per un’introduzione ad ampio raggio sulla dimensione simbolica dell’identità cfr. U. Galimberti, L. Grecchi, Filosofia e Biografia, Petite Plaisance, Pistoia 2005.
[8] Sulla costituzione antropologica basilare mi permetto di rimandare a F. Sollazzo, L’uomo come problema a se stesso, in Id., Totalitarismo, democrazia, etica pubblica, cit e Id., Per una moralità minima condivisibile. Antropologia essenziale: biologia ed emozioni, in «L’accento di Socrate», n. 21, 2012. Inoltre, aggettivo questo pattern antropologico come “potenziale” perché gli sviluppi della tecnologia (che cambia il nostro sentire, la nostra percezione del mondo, degli altri e di noi stessi, in base ai criteri della cosiddetta razionalità strumentale; mi riferisco sia alle analisi francofortesi sia alla sottovalutata teoria pasoliniana della mutazione antropologica) e della scienza (che può variare, sostituire, creare ex novo la nostra biologia) possono ormai mutare questo scenario, e lo stanno di fatto già facendo. A questo proposito, qui mi sembra risieda il punto debole della teoria di Martha Nussbaum sull’importanza delle emozioni: la mancata considerazione delle mutazioni in atto nella sfera emozionale. Come riferimenti principali a tutto questo cfr. M. Nussbaum, Emotions as Judgments of Value, in «Yale Journal of Criticism», n. 5, 1992, Id., L’intelligenza delle emozioni, il Mulino, Bologna 2004, Id., Poets as Judges: Judicial Rhetoric and Literary Immagination, in «University of Chicago Law Review», n. 62, 1995, P. P. Pasolini, Lettere luterane, Garzanti, Milano 2009 e Id., Scritti corsari, Garzanti, Milano 2008.
[9] A. Sen, Globalizzazione e libertà, Mondadori, Milano 2002, p. 59; cfr. anche Id., Reason Before Identity, Oxford U.P., Oxford-New Delhi 1999.
[10] Cfr., per i riferimenti principali cfr. Voltaire, (voce) Tolleranza, in Dizionario filosofico, Mondadori, Milano 1970, J. Locke, Saggio sulla tolleranza, Laterza, Bari 1996, Id., Scritti sulla tolleranza, UTET, Torino 1997, K. R. Popper, La società aperta e suoi nemici, Armando, Roma 1996, 2 voll.; sui meriti e i limiti della nozione di tolleranza cfr. A. Masullo, I paradossi della tolleranza, in «La città nuova», n. 7, 1992; sul mutamento della sua funzione sociale cfr. H. Marcuse, Tolleranza repressiva, in La dimensione estetica e altri scritti, Guerini, Milano 2002 . Mi sembrano inoltre significative queste righe: «il fatto che si “tolleri” qualcuno è lo stesso che lo si “condanni”. Infatti al “tollerato” […] si dice di far quello che vuole, che egli ha il pieno diritto di seguire la propria natura, che il suo appartenere a una minoranza non significa affatto inferiorità […] Ma la sua “diversità” – o meglio la sua “colpa di essere diverso” – resta identica sia davanti a chi abbia deciso di tollerarla, sia davanti a chi abbia deciso di condannarla» (P. P. Pasolini, Lettere luterane, cit., p. 23).
[11] C. Lévi-Strauss, Razza e cultura, in Lo sguardo da lontano, Einaudi, Torino 1984, p. 29.
[12] A. Touraine, Libertà, uguaglianza, diversità, il Saggiatore, Milano 2002, p. 197 e dopo la parentesi mia, U. Beck, Lo sguardo cosmopolita, Carocci, Roma 2005, p. 82.
[13] Prendo le figure dell’”universalismo della differenza” e della “sintesi disgiuntiva” in prestito, rispettivamente, da Giacomo Marramao e da Gilles Deleuze; cfr., rispettivamente, Intervista a Giacomo Marramao, in «Asia», 14/01/2009 e Logica del senso, Feltrinelli, Milano 2005. Cfr. anche F. Sollazzo, Pluralismo delle culture e “univocità” dell’etica, in «L’accento di Socrate», n. 3, 2010.
[14] C. Lévi-Strauss, Razza e Storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino 1967, p. 139 e dopo la parentesi mia, G. Marramao, Passaggio a Occidente, cit., p. 215.
[15] Ciò avviene anche quando tale decisione non è consapevole, per questo preferisco parlare di “decisionalità” anziché di “volontarietà”.
[16] A. Sen, Globalizzazione e libertà, cit., pp. 47 e 53-54, secondo corsivo mio; ed ancora: «l’identità personale (e collettiva) […] è capace di divisioni e prospera con esse […] io acquisto un’identità più complessa di quella che l’idea di tribalismo (comunitarismo) suggerisce. Mi identifico con più di una tribù: sono americano, ebreo, abitante della East Coast, intellettuale, professore. Immagino una simile moltiplicazione di identità nel mondo» (M. Walzer, La rinascita della tribù, in «Micromega», n. 5, 1991, p. 110, parentesi mie). Cfr. anche F. Garritano, Aporie comunitarie, Jaca Book, Milano 1999.
[17] Z. Bauman, Intervista sull’identità, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 63.
[18] Si pensi ad esempio al fatto che lo stereotipo dell’”orientalismo” su cui si gioca il dualismo Oriente-Occidente, nasce internamente all’Occidente per rispondere alle sue esigenze auto identificative, e solo in conseguenza di ciò, con l’espandersi del colonialismo in età moderna, troviamo in Oriente lo stesso dualismo, rovesciato, originante la categoria dei cosiddetti asian values. Cfr. E. W. Said, Orientalismo, Feltrinelli, Milano 2001. Tra i più rilevanti recenti postcolonial studies cfr.: A. Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, Roma 2001, H. K. Bhabha, I luoghi della cultura, Meltemi, Roma 2001, H. K. Bhabha, G. Ch. Spivak, F. Barker (a cura di), Europe and Its Others, Essex U.P., Colchester 1984, D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, Roma 2004, P. Gilroy, After Empire, Routledge, London 2004, M. Mellino, La critica postcoloniale, Meltemi, Roma 2005, A. K. Sen, Diritti umani e valori asiatici, in Id., Laicismo indiano, Feltrinelli, Milano 1998, G. Ch. Spivak, Critica della ragione postcoloniale, Meltemi, Roma 2004, Id., In Other Worlds, Methuen, New York 1987 e R. Young, Postcolonialism, Blackwell, London 2001.
[19] G. Marramao, Passaggio a Occidente, cit., p. 214. Interessante, a questo proposito, richiamare alla mente la concezione heideggeriana dell’Essere e platonica dell’Idea.
[20] Id., Passato e futuro dei Diritti Umani, in A. De Simone (a cura di), Diritto, giustizia e logiche del dominio, cit., p. 556 e 558. Sulla costituzione delle moderne comunità di appartenenza, sul non farne meccanismi di ghettizzazione né ridurle all’insignificanza ma assumerle in un nuovo scenario globale che universalizzi la differenza (sostanzialmente, un’altra globalizzazione) cfr. G. Marramao, Contro il potere, Bompiani, Milano 2011.
[21] Pertanto, legare l’identità personale a logiche comunitarie (oggi sempre più forti nelle loro declinazioni economiche, territoriali, etniche e religiose) significa ridurre l’identità ad uno solo degli elementi che la costituiscono (peraltro spesso determinato da logiche di potere che impongono tali visioni), perdendo così sia la ricchezza della pluralità dei tasselli che compongono il mosaico identitario, sia la responsabilità di operare scelte critico-consapevoli su di essi. Inoltre, sostenendo che «l’identità fornita all’individuo dalla comunità sia quella principale o dominante (forse persino l’unica significativa) […] (si può) incoraggiare un atteggiamento di indifferenza verso quegli “altri” che non condividono la nostra peculiare identità» (A. Sen, Globalizzazione e libertà, cit., pp. 57-58, seconda parentesi mia – cfr. anche Id., Other people, in «The New Republic», 18/12/00).
Si può addirittura dire che oggi ci troviamo al cospetto di due vettori che spingono in direzioni contrarie e, apparentemente, inconciliabili ma che, paradossalmente, fungono l’uno da propellente per l’altro, poiché l’incremento di ciascuno di questi due processi sollecita, come risposta, la crescita dell’altro: la forza centripeta dell’omologazione universale e quella centrifuga della differenziazione. In altri termini, un processo omologante di de-territorializzazione versus un fenomeno diversificante di ri-territorializzazione, di ritorno alla comunità, alla piccola patria peculiare nelle sue differenze dalle altre. Anche l’abbattimento dei confini fisici e politici (emblematicamente rappresentato dall’apertura prima e dalla caduta poi del muro di Berlino, rispettivamente nel 1989 e nel 1990) viene assorbito in questa disputa, o come dimostrazione dei processi “deterritorializzanti”, o come stimolo dei fenomeni “riterritorializzanti”[2]. È fondamentale notare come tali dinamiche vengano spesso descritte con la formula dell’aut aut (dello scontro di civiltà a lá Huntington), anziché dell’et et, che ne coglie invece adeguatamente la natura[3]. Questo avviene quando la prospettiva di fondo è quella della (ri)costruzione di un’identità intesa come “monade monolitica”. Questa infatti si è sempre costituita tramite dinamiche di appartenenza, sociale, politica, economica, religiosa, etnica, territoriale, ecc, ma oggi tutte le categorie sotto la cui bandiera ci si affiliava sono erose dalla complessiva crisi dei tempi che abbatte i vecchi punti di riferimento, senza costituirne di nuovi. Non è affatto detto che questo sia un problema, poiché per tal via si è posti di fronte alla possibilità di rielaborare (mai definitivamente) i propri riferimenti e dunque assumere consapevolmente la propria identità; tuttavia, stante la difficoltà di questa operazione, che non è certo agevolata dalle varie istituzioni, ciò a cui si assiste è o la rinuncia al tentativo di definizione di un’identità o il radicalizzarsi di quest’ultima sotto una delle suddette bandiere, rifugiandovisi; quest’ultima operazione sfocia in una logica multiculturale che
finisce per cristallizzarsi in un sistema di differenze «blindate» che, a onta della conclamata «politica della differenza» (politics of difference), si atteggiano come identità in sedicesimo: monadi o autoconsistenze insulari interessate esclusivamente a tracciare confini netti di non-ingerenza. Come infrangere questa rigida clausola di non-ingerenza, che in apparenza estende ma in realtà stravolge l’idea di differenziazione rovesciandola in frammentazione e proliferazione meccanica della logica identitaria?[4].
Probabilmente la risposta alla suddetta domanda può giungere solo con un radicale mutamento di prospettiva nell’affrontare le questioni inerenti al pluralismo culturale, ed al relativo sedicente pluralismo etico[5], ovvero, liberandoci
dall’errata convinzione che le relazioni tra esseri umani differenti, con tutte le loro diverse diversità, possano in qualche modo essere espresse sotto forma di rapporti tra civiltà, invece che di rapporti tra persone[6].
Intendere le relazioni umane come rapporti tra persone, anziché tra civiltà o comunità, tra gruppi identitari chiusi che definiscono l’identità dei propri membri tramite la radicalizzazione di un (sedicente) medesimo (elevato a mito di purezza) e l’esclusione di un (sedicente) diverso (arrivando finanche alla sua colpevolizzazione/criminalizzazione) è l’unica via per decifrare le questioni inerenti al riconoscimento ed alla valorizzazione delle differenze identitarie, in un quadro di valori e principi universalmente valido per tutti gli uomini in ogni tempo e sotto ogni clima. Oggi più che mai questa operazione appare urgente, in una globalizzazione che, più che oscillare fra, sovrappone omologazione, scomparsa di differenze significative, e “monadizzazione”, auto-ghettizzazione entro i limiti di una mitica e mitizzata comunità, economica, politica, territoriale, di sangue, di culto, ecc. Assumendo le persone come vertice ottico, risulta evidente come esse siano al contempo diverse ed uguali fra di loro. Le differenze si situano nella identità[7] personale di ciascun essere umano, fatta di contingenze e di scelte, unica e irripetibile. L’uguaglianza risiede nella costituzione antropologica basilare[8], che rappresenta una sorta di potenziale pattern universale, sopra il quale ciascuno dipinge la propria identità come vuole e come può. La questione che si pone è allora quella di dar vita ad un’interazione umana che non sia fondata né in una logica omologante, né in un logica di “ghetti contigui”, di “differenze blindate” senza porte né finestre, di «piccole isole, ciascuna fuori dalla portata intellettuale e normativa dell’altra»[9]. È oggi possibile assolvere a tale compito?
Comunemente, in base ad una tradizione di pensiero che passa, fra gli altri, per Voltaire, John Locke e Karl R. Popper, siamo abituati a ritenere che la tolleranza[10] sia la risposta alla precedente domanda; tuttavia tale concetto, che al suo manifestarsi ha certamente avuto un impatto positivo sulla nostra civiltà, si espone oggi ad un duplice ordine di pericoli. Innanzitutto, la tolleranza viene elargita da chi ha la volontà di tollerare, ma ciò significa che costui potrebbe anche non avere più tale volontà e, dunque, non tollerare più. Inoltre, il concetto di tolleranza tende a scivolare verso quello di sopportazione, dietro il quale si cela una pressoché totale svalutazione delle posizioni altrui. Per evitare queste problematiche è oggi necessario ricorrere ad un altro principio che possa orientare le relazioni umane, sia a livello individuale che collettivo, quello del rispetto: non tollerando, bensì rispettando l’altro è possibile relazionarsi autenticamente, nel confronto, con lui, offrendo qualcosa di nostro all’altro e accogliendo qualcosa dell’altro in noi, “contaminandoci” reciprocamente, mantenendo ciascuno la propria libera autonomia e le propria differenza specifica, derivanti dalla propria irriducibile identità, senza però trincerarsi in essa e dunque modellandosi nel “contatto inquinante” con l’altro; «non si può simultaneamente sciogliersi nel godimento dell’altro, identificarsi con lui, e restare diversi»[11]. Se vogliamo vivere insieme, non nonostante, ma grazie alla diversità,
se vogliamo scongiurare lo sfruttamento meramente commerciale della diversità ed evitare lo scontro fra culture che si verifica quando la diversità alimenta paura e rifiuto, dobbiamo attribuire un valore positivo a […] contaminazioni e a […] incontri, che aiutano ciascuno di noi ad allargare la propria esperienza, rendendo così più creativa la nostra cultura […] (Dunque) il cosmopolitismo, inteso realisticamente, significa […] accettare gli altri come diversi e uguali. In questo modo viene nello stesso tempo svelata la falsità dell’alternativa tra diversità gerarchica e uguaglianza universale. Così, infatti, vengono superate due posizioni, il razzismo e l’universalismo apodittico[12].
Pertanto, l’irriducibilità di un’identità ad un’altra, di una cultura ad un’altra, non solo non vieta il confronto fra le stesse, ma anzi lo rende possibile grazie ad una sorta di “universalismo della differenza”, di “sintesi disgiuntiva”, in cui proprio l’inassimilabilità delle singolarità costituisce il trait d’union fra le stesse[13].
La civiltà mondiale non può essere altro che coalizione, su scala mondiale, di culture ognuna delle quali preservi la propria originalità. (Infatti) se è vero che quello strano complesso di accadimenti che chiamiamo “mondo” è, in quanto eventualità, fatto di differenze, ne consegue allora che le differenze non si identificano mai con l’essere, ma sempre lo differenziano. E soltanto perché lo differenziano producono il fenomeno del divenire, della vita […]. Solo per questa via, solo afferrando questo passaggio, possiamo far esplodere il dispositivo della metafisica, che poi fa tutt’uno con il dispositivo del potere: l’idea dell’Uno come unità delle differenze[14].
Per tal via sarebbe possibile passare dalle storie dell’uomo alla storia dell’uomo, il che non significa negare la molteplicità, ma assumere il dato che i confini identitari (di una storia, di una tradizione, di una comunità, di un uomo) sono tracciabili solo “decisionalmente”[15]. Infatti, l’identità (sia individuale che collettiva) si costituisce tramite l’aggregazione di più elementi, e nel valutare quanti e quali fattori sia necessario aggregare e quale conformazione dargli, è fondamentale il ruolo della scelta. Così, ogni uomo definisce la propria identità prendendo posizione su quegli elementi con i quali riesce ad entrare in contatto, dai quali riesce a farsi “contaminare”, arricchendosi nella consapevolezza critica di questo processo:
nella nostra vita siamo tutti individualmente coinvolti in identità di varia natura, in contesti disparati […]. Una persona può considerarsi italiana, donna, agnostica, medico e così via […]. Ognuna di queste collettività – e la persona in questione appartiene a tutte – le fornisce una particolare identità, di diversa importanza a seconda del contesto, che, quando implica atteggiamenti differenti, entra in competizione con le altre per l’attenzione e la fedeltà della persona. Non è possibile attribuire all’individuo l’appartenenza esclusiva – o prevalente, a seconda dei casi – a un unico gruppo. Ognuna di queste categorie può essere di importanza cruciale in particolari contesti. Nella determinazione del peso relativo di queste identità e nella definizione di un ordine di priorità che, a sua volta, può variare con le circostanze, è fondamentale il ruolo della riflessione[16].
In altri termini, l’identità è una sorta di mosaico rispetto al quale non si può fare altro che
continuare ad incastrare insieme i pezzi […]. Ma incastrarli insieme una volta per tutte, trovare il miglior incastro possibile, quello che mette fine al gioco d’incastro? No, grazie, questo è qualcosa di cui si fa volentieri a meno[17].
Ma, si badi bene, non bisogna cadere nell’errore di credere che fare i conti con l’identità significhi semplicemente (e semplicisticamente) praticare il gioco d’incastro dei tasselli del mosaico identitario, assumendo gli stessi come già dati, come se non avessero una loro specifica genesi, come se l’unica operazione che fossimo chiamati a fare nei confronti dei tasselli identitari fosse quella di (ri)disporli in un certo modo, non potendo però interagire con il loro contenuto. Al contrario, mettendo in questione un tassello identitario, ripercorrendone la genesi, si possono rinvenire i processi che hanno portato, perimetrandolo, alla sua definizione, ed infrangere tali confini. E questa infrazione ci dice che l’identità, qualsiasi identità, risponde a una necessità pratica di qualificazione generando dispositivi di esclusione/inclusione, gabbie, ghetti[18], dai quali ci si può liberare solo, apparentemente paradossalmente, non identificandoci con l’identità:
differenza non come negatività dialettica, e neanche come mero rovescio della logica identitaria. Ma differenza come cifra dell’inidentificabilità dell’essere. L’essere non tollera identificazioni, non ha carta d’identità[19].
E poiché tale dinamica agisce sia a livello individuale che collettivo, siamo oggi chiamati al
superamento di ogni visione essenzialistica delle cosiddette “identità culturali”: a partire dall’acquisizione per cui tutte le culture, compresa la cultura occidentale, sono non solo – com’è ovvio, e come è stato più volte ribadito da Amartya Sen e da altri – intrinsecamente plurali, ma anche attraversate da conflitti di valori […]. Ripensare a un essere-in-comune composto di storie diverse e di inassimilabili differenze: a una civitas come comunità paradossale suscettibile di accogliere le esistenze (ed esperienze) singolari, indipendentemente dalle appartenenze identitarie che di volta in volta si danno: come inevitabile effetto dei meccanismi di identificazione simbolica e delle pratiche collettive di “invenzione della tradizione”[20].
Dunque, l’essere umano, ben lungi dall’essere un soggetto individuale indivisibile, come il termine in-dividuo vorrebbe, può essere considerato un insieme di tasselli differenti, nessuno dei quali determinante per l’identificazione dell’identità, ma ciascuno dei quali contribuente alla formazione della stessa[21]; formazione perennemente in fieri sempre su due livelli: non solo su quello della (ri)disposizione delle tessere, ma anche su quello (ben più fondamentale) della loro (ri)definizione. Ora, benché la scelta di tali priorità sia un ineludibile compito esistenziale, è fondamentale che essa sia consapevole, affinché ciascun essere umano abbia coscienza di non essere l’espressione di un solo dato, ma la somma di diversi fattori che convivono in lui e che egli costantemente organizza con la propria scelta, ma per rendere tale scelta critica, per non essere grotteschi replicanti di disposizioni organizzative che vengono pro/im-poste, è decisivo essere consapevoli di tali processi di strutturazione dell’identità.
Meglio, il termine identità, per quanto di più immediata presa sul lettore, echeggia in sé una chiusura, propongo quindi, in conclusione, di sostituirlo con quello di biografia (intendendo con esso tutto quello di cui sopra) che rimanda invece ad un’apertura. La biografia ha una sua dialettica: contiene sia la necessità dell’esperienza già vissuta, sia la possibilità dell’esperienza da viversi.
[1] Per una ricostruzione delle tesi libertarie cfr.: E. Angner, Hayek and Natural Law, Routledge, Milton Park-New York 2007, N. Bobbio, Liberalismo vecchio e nuovo, in Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1991, T. A. Burczak, Socialism after Hayek, Michigan M.P., Ann Arbor 2006, B. Caldwell, Hayek’s Challenge, Chicago U.P., Chicago 2004, A. Cocozza (a cura di), Utopia e sociologia, Armando, Roma 2004, R. Cubeddu, Politica e certezza, Guida, Napoli 2000, A. Ebenstein, Friedrich von Hayek, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, A. Farrant (a cura di), Hayek, Mill and the Liberal Tradition, Routledge, Milton Park-New York 2011, E. Feser (a cura di), The Cambridge Companion to Hayek, Cambridge U.P., New York 2006, Id., On Nozick, Wadsworth, Belmont 2004, F. A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, il Saggiatore, Milano 1986, Id., The road to serfdom, Routledge, London 2007, N. Matteucci, Il liberalismo, il Mulino, Bologna 2005, R. Nozick, Anarchia, stato e utopia, il Saggiatore, Milano 2008, Id., Invarianze, Fazi, Roma 2003, Id., La vita pensata, Rizzoli, Milano 2004, G. Pellegrino, I. Salvatore (a cura di), Robert Nozick, LUISS U.P., Roma 2007, D. Schmidtz (a cura di), Robert Nozick, Cambridge U.P., Cambridge 2002, F. Sollazzo, L’individualismo nelle teorie liberali, in «L’accento di Socrate», n. 11, 2011 e U. Ternowetz (a cura di), Friedrich A. von Hayek e la Scuola Austriaca di Economia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003. Per un’introduzione al comunitarismo cfr.: AA. VV., «La prospettiva comunitaria», n. 2/3, 1999/200 , R. Abbey (a cura di), Charles Taylor, Cambridge U.P., Cambridge 2004, R. Carsillo, Il problema morale in MacIntyre, Levante, Bari 2000, I. Colozzi, Varianti di comunitarismo, FrancoAngeli, Milano 2002, N. Genghini, Identità comunità trascendenza: la prospettiva filosofica di Charles Taylor, Studium, Roma 2005, S. Mendus, After MacIntyre, Polity, Cambridge 1994, A. MacIntyre, Dopo la virtù, Feltrinelli, Milano 1993, M.C. Murphy, Alasdair MacIntyre, Cambridge U.P., New York 2003, P. Nepi, Charles Taylor, in C. Di Marco (a cura di), Un mondo altro è possibile, Mimesis, Milano 2004, K. Ohnsorge, Il comunitarismo, un approccio filosofico-politico, in C. Viafora, R. Zanotti, E. Furlan (a cura di), L’etica della cura, FrancoAngeli, Milano 2007, V. Pazé, Il comunitarismo, Laterza, Roma–Bari 2004, A. Pirni, Charles Taylor, Milella, Lecce 2002, M. J. Sandel, Public Philosphy, Harvard U.P., Cambridge 2005, F. Sollazzo, I principi del comunitarismo. Ch. Taylor e A. MacIntyre, in «Prospettiva persona», n. 61/62, 2007, C. Taylor, Gli immaginari sociali moderni, Meltemi, Roma 2005, Id., Il disagio della modernità, Laterza, Roma–Bari 1999, Id., L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009, Id., Radici dell’io, Feltrinelli, Milano 1993 e J.R. Weinstein, On MacIntyre, Wadsworth, Belmont 2004. Per un confronto fra le due correnti cfr.: A. de Benoist, Comunitaristi vs. liberali, in Id., Identità e comunità, Guida, Napoli 2005, E. Caniglia, A. Spreafico (a cura di), Multiculturalismo o comunitarismo?, LUISS U.P., Roma 2003, V. Cesareo, Individualismo e comunitarismo, in Società multietniche e multiculturalismi, Vita e Pensiero, Milano 2007, A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, Ed. Riuniti, Roma 2000, M. La Torre, Liberalismo e comunitarismo: un dibattito nel crepuscolo di Weimar, in Id., La crisi del Novecento, Dedalo, Bari 2006, E. Pariotti, Individuo, comunità, diritti: tra liberalismo, comunitarismo ed ermeneutica, Giappichelli, Torino 1997, G. Sartori, Pluralismo, Multiculturalismo e Estranei, Rizzoli, Milano 2002, E. Vitale, Il soggetto e la comunità, Giappichelli, Torino 1996 e L. Simeoni, Liberalismo e comunitarismo: tesi a confronto, in La cittadinanza interculturale, Armando, Roma 2005.
[2] È importante notare come l’attuale crisi economica (che produce inevitabilmente anche una crisi di legittimazione politica) produca movimenti, con forti venature populiste e reazionarie, di chiusura nel proprium visto come soluzione alla crisi poiché questa si è verificata attraverso istituzioni (ad esempio la UE) improntate ad una prospettiva d’apertura cosmopolita. Ora, più che sottolineare come sia gli uni che gli altri portino avanti una certa idea perché è a loro funzionale, vorrei qui osservare come l’attrito fra masse populisticamente orientate verso fenomeni riterritorializzanti e istituzioni basate su processi deterritorializzanti produca uno scollamento con conseguenze potenzialmente catastrofiche sia in ambito politico-sociale (disordini e finanche guerre) sia in ambito culturale (il cavalcare l’una idea o l’altra per propri interessi, anziché il cercare di comprenderle). «L’ignoranza della complessità della società contemporanea provoca uno stato di incertezza e di ansia generalizzata che costituisce il terreno ideale per il tipo moderno del movimento di massa reazionario. Simili movimenti sono sempre populisti e volontariamente anti-intellettuali» (Th. W. Adorno et al., La personalità autoritaria, Comunità, Milano 1997, vol. II, p. 231).
[3] Come esempio di interpretazione all’insegna dell’aut aut cfr. S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000, mentre come esempio di interpretazione nel segno dell’et et cfr. Z. Bauman, Globalizzazione e glocalizzazione, Armando, Roma 2005.
[4] G. Marramao, Passaggio a Occidente, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 95. Riflettere sulla nozione di cittadinanza, significa farsi carico dell’odierna caduta dei legami etico-politici e del compito di «ri-progettare e ripopolare l’agorà ora in gran parte vuota, il luogo d’incontro, di dibattito e di negoziazione tra individuo e bene comune, pubblico e privato» (Z. Bauman, La società individualizzata, il Mulino, Bologna 2002, p. 153) – cfr. anche Id. Dentro la globalizzazione, Laterza, Roma-Bari 2006 e Id., La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2006. Più dettagliatamente, «il fenomeno al quale dobbiamo rivolgerci potrebbe essere, allora, più congruamente definito nei termini di una produzione globale di località: è il fenomeno delle comunità immaginate, che vengono a configurarsi come tante nazioni di eccentrici. La “nazione degli eccentrici” è il fenomeno nuovo con cui siamo chiamati a misurarci: non dobbiamo, dunque, intendere il locale alla maniera di comunitaristi come Taylor, MacIntyre o Sandel, ma piuttosto nel senso di una dinamica nuova che attraversa tanto il locale quanto il globale» (G. Marramao, Passato e futuro dei Diritti Umani, in A. De Simone (cura), Diritto, giustizia e logiche del dominio, Morlacchi, Perugia 2007, p. 557). Sulla categoria di “comunità immaginate” cfr. B. Anderson, Comunità immaginate, manifestolibri, Roma 1994. Sulla questione della “differenza”, in chiave politica cfr. I. M. Young, Le politiche della differenza, Feltrinelli, Milano 1996.
[5] Per semplificare, uso qui pluralismo etico e culturale come equivalenti di relativismo etico e culturale, cioè di quell’orientamento che vorrebbe vi fosse incomunicabilità fra le varie culture e concezioni etiche (fermo restando che la possibilità della comunicazione non implica l’assunzione dei medesimi valori, ma richiede tuttavia un medesimo schema mentale, “principio di carità”, il quale, a mio avviso, è dipendente dalle dinamiche dell’antropologia nella storia; cfr. nota 1 del presente testo). Cfr. F. Sollazzo, Pluralismo delle culture e “univocità” dell’etica, in «L’accento di Socrate», n. 3, 2010.
[6] A. Sen, Il ballo in maschera dell’Occidente, in «la Repubblica», 30/06/06.
[7] A questo proposito è da osservare con particolare attenzione, e preoccupazione, l’odierna avanzata, in pressoché tutti i campi, delle cosiddette neuroscienze che, riducendo l’uomo ad un complesso di meccanismi neuronali, gli conferiscono la stessa identità di una marionetta. Peraltro, dando per scontato che quando in una data situazione avviene una certa reazione neuronale, quest’ultima sia necessariamente la causa di un comportamento, senza neanche prendere in considerazione che possa esserne la conseguenza: la registrazione fisica di una accadimento intellettuale e/o emozionale. Per una agile ma efficace introduzione ai problemi della scientificizzazione della vita cfr. N. Postman, Technopoly, Bollati Boringhieri, Torino 1993, per il quale, fra l’altro «è’ il pubblico disperato alla ricerca di un’autorità morale più potente che chiede allo studioso di scienze naturali (e sociali) di dire che è la scienza che parla, e non un uomo o una donna […] l’uomo medio di oggi è altrettanto credulone dell’uomo medio dell’epoca medievale. Solo che allora la gente credeva ciecamente nell’autorità della sua religione, e oggi crede ciecamente nell’autorità della nostra scienza» (ivi, pp. 147 e 57, parentesi mia) e H. Marcuse, Il pensiero a una dimensione, nell’ormai classico Id., L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999. Per un’introduzione ad ampio raggio sulla dimensione simbolica dell’identità cfr. U. Galimberti, L. Grecchi, Filosofia e Biografia, Petite Plaisance, Pistoia 2005.
[8] Sulla costituzione antropologica basilare mi permetto di rimandare a F. Sollazzo, L’uomo come problema a se stesso, in Id., Totalitarismo, democrazia, etica pubblica, cit e Id., Per una moralità minima condivisibile. Antropologia essenziale: biologia ed emozioni, in «L’accento di Socrate», n. 21, 2012. Inoltre, aggettivo questo pattern antropologico come “potenziale” perché gli sviluppi della tecnologia (che cambia il nostro sentire, la nostra percezione del mondo, degli altri e di noi stessi, in base ai criteri della cosiddetta razionalità strumentale; mi riferisco sia alle analisi francofortesi sia alla sottovalutata teoria pasoliniana della mutazione antropologica) e della scienza (che può variare, sostituire, creare ex novo la nostra biologia) possono ormai mutare questo scenario, e lo stanno di fatto già facendo. A questo proposito, qui mi sembra risieda il punto debole della teoria di Martha Nussbaum sull’importanza delle emozioni: la mancata considerazione delle mutazioni in atto nella sfera emozionale. Come riferimenti principali a tutto questo cfr. M. Nussbaum, Emotions as Judgments of Value, in «Yale Journal of Criticism», n. 5, 1992, Id., L’intelligenza delle emozioni, il Mulino, Bologna 2004, Id., Poets as Judges: Judicial Rhetoric and Literary Immagination, in «University of Chicago Law Review», n. 62, 1995, P. P. Pasolini, Lettere luterane, Garzanti, Milano 2009 e Id., Scritti corsari, Garzanti, Milano 2008.
[9] A. Sen, Globalizzazione e libertà, Mondadori, Milano 2002, p. 59; cfr. anche Id., Reason Before Identity, Oxford U.P., Oxford-New Delhi 1999.
[10] Cfr., per i riferimenti principali cfr. Voltaire, (voce) Tolleranza, in Dizionario filosofico, Mondadori, Milano 1970, J. Locke, Saggio sulla tolleranza, Laterza, Bari 1996, Id., Scritti sulla tolleranza, UTET, Torino 1997, K. R. Popper, La società aperta e suoi nemici, Armando, Roma 1996, 2 voll.; sui meriti e i limiti della nozione di tolleranza cfr. A. Masullo, I paradossi della tolleranza, in «La città nuova», n. 7, 1992; sul mutamento della sua funzione sociale cfr. H. Marcuse, Tolleranza repressiva, in La dimensione estetica e altri scritti, Guerini, Milano 2002 . Mi sembrano inoltre significative queste righe: «il fatto che si “tolleri” qualcuno è lo stesso che lo si “condanni”. Infatti al “tollerato” […] si dice di far quello che vuole, che egli ha il pieno diritto di seguire la propria natura, che il suo appartenere a una minoranza non significa affatto inferiorità […] Ma la sua “diversità” – o meglio la sua “colpa di essere diverso” – resta identica sia davanti a chi abbia deciso di tollerarla, sia davanti a chi abbia deciso di condannarla» (P. P. Pasolini, Lettere luterane, cit., p. 23).
[11] C. Lévi-Strauss, Razza e cultura, in Lo sguardo da lontano, Einaudi, Torino 1984, p. 29.
[12] A. Touraine, Libertà, uguaglianza, diversità, il Saggiatore, Milano 2002, p. 197 e dopo la parentesi mia, U. Beck, Lo sguardo cosmopolita, Carocci, Roma 2005, p. 82.
[13] Prendo le figure dell’”universalismo della differenza” e della “sintesi disgiuntiva” in prestito, rispettivamente, da Giacomo Marramao e da Gilles Deleuze; cfr., rispettivamente, Intervista a Giacomo Marramao, in «Asia», 14/01/2009 e Logica del senso, Feltrinelli, Milano 2005. Cfr. anche F. Sollazzo, Pluralismo delle culture e “univocità” dell’etica, in «L’accento di Socrate», n. 3, 2010.
[14] C. Lévi-Strauss, Razza e Storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino 1967, p. 139 e dopo la parentesi mia, G. Marramao, Passaggio a Occidente, cit., p. 215.
[15] Ciò avviene anche quando tale decisione non è consapevole, per questo preferisco parlare di “decisionalità” anziché di “volontarietà”.
[16] A. Sen, Globalizzazione e libertà, cit., pp. 47 e 53-54, secondo corsivo mio; ed ancora: «l’identità personale (e collettiva) […] è capace di divisioni e prospera con esse […] io acquisto un’identità più complessa di quella che l’idea di tribalismo (comunitarismo) suggerisce. Mi identifico con più di una tribù: sono americano, ebreo, abitante della East Coast, intellettuale, professore. Immagino una simile moltiplicazione di identità nel mondo» (M. Walzer, La rinascita della tribù, in «Micromega», n. 5, 1991, p. 110, parentesi mie). Cfr. anche F. Garritano, Aporie comunitarie, Jaca Book, Milano 1999.
[17] Z. Bauman, Intervista sull’identità, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 63.
[18] Si pensi ad esempio al fatto che lo stereotipo dell’”orientalismo” su cui si gioca il dualismo Oriente-Occidente, nasce internamente all’Occidente per rispondere alle sue esigenze auto identificative, e solo in conseguenza di ciò, con l’espandersi del colonialismo in età moderna, troviamo in Oriente lo stesso dualismo, rovesciato, originante la categoria dei cosiddetti asian values. Cfr. E. W. Said, Orientalismo, Feltrinelli, Milano 2001. Tra i più rilevanti recenti postcolonial studies cfr.: A. Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, Roma 2001, H. K. Bhabha, I luoghi della cultura, Meltemi, Roma 2001, H. K. Bhabha, G. Ch. Spivak, F. Barker (a cura di), Europe and Its Others, Essex U.P., Colchester 1984, D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, Roma 2004, P. Gilroy, After Empire, Routledge, London 2004, M. Mellino, La critica postcoloniale, Meltemi, Roma 2005, A. K. Sen, Diritti umani e valori asiatici, in Id., Laicismo indiano, Feltrinelli, Milano 1998, G. Ch. Spivak, Critica della ragione postcoloniale, Meltemi, Roma 2004, Id., In Other Worlds, Methuen, New York 1987 e R. Young, Postcolonialism, Blackwell, London 2001.
[19] G. Marramao, Passaggio a Occidente, cit., p. 214. Interessante, a questo proposito, richiamare alla mente la concezione heideggeriana dell’Essere e platonica dell’Idea.
[20] Id., Passato e futuro dei Diritti Umani, in A. De Simone (a cura di), Diritto, giustizia e logiche del dominio, cit., p. 556 e 558. Sulla costituzione delle moderne comunità di appartenenza, sul non farne meccanismi di ghettizzazione né ridurle all’insignificanza ma assumerle in un nuovo scenario globale che universalizzi la differenza (sostanzialmente, un’altra globalizzazione) cfr. G. Marramao, Contro il potere, Bompiani, Milano 2011.
[21] Pertanto, legare l’identità personale a logiche comunitarie (oggi sempre più forti nelle loro declinazioni economiche, territoriali, etniche e religiose) significa ridurre l’identità ad uno solo degli elementi che la costituiscono (peraltro spesso determinato da logiche di potere che impongono tali visioni), perdendo così sia la ricchezza della pluralità dei tasselli che compongono il mosaico identitario, sia la responsabilità di operare scelte critico-consapevoli su di essi. Inoltre, sostenendo che «l’identità fornita all’individuo dalla comunità sia quella principale o dominante (forse persino l’unica significativa) […] (si può) incoraggiare un atteggiamento di indifferenza verso quegli “altri” che non condividono la nostra peculiare identità» (A. Sen, Globalizzazione e libertà, cit., pp. 57-58, seconda parentesi mia – cfr. anche Id., Other people, in «The New Republic», 18/12/00).
(«Lessico di etica pubblica», n. 1, 2012)
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