martedì 27 gennaio 2015

Hannah Arendt e la banalità del male

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Nel 1963 Hannah Arendt pubblica una delle sue opere di maggiore risonanza: La banalità del male. In essa il male radicale viene ricondotto non al "demoniaco", al "diabolico", ma all'assenza di un vero e proprio fondamento, quindi alla banalità. Un'assenza di riflessione critica riscontrabile nella versione oggi dominante dell'animal laborans: il manager. Un'analogia che segna l'inquietante attualità di questo libro.


giovedì 15 gennaio 2015

Sulla questione della tecnica in M. Heidegger

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

(Si pubblica di seguito l'Appendice del libro: Federico Sollazzo, Totalitarismo, democrazia, etica pubblica. Scritti di Filosofia morale, Filosofia politica, Etica, presentazione di M. T. Pansera, Aracne, Roma 2011)

L’essenza più profonda della tecnica non è nulla di tecnico
M. Heidegger, La questione della tecnica

Consapevoli o meno, un certo tipo di modernità continua ad avanzare, rimodellandosi costantemente così da potersi insinuare in ogni spazio, fisico ed esistenziale.
Sia che la si voglia accettare, sia che la si voglia rifiutare, sia che si voglia operare una scelta selettiva, è preliminarmente necessario comprenderne la natura, ormai legata a filo doppio con la tecnica (o meglio, con un certo tipo di tecnologia) al punto tale che ormai il soggetto della storia non risulta più essere l’uomo, ma la tecnica, rispetto alla quale l’uomo appare come suo mero accessorio.
Fra gli incontri del presente ciclo seminariale (La filosofia e la società tecnologica avanzata), questo è probabilmente il più complesso da affrontare ma proprio per questo ha maggiori implicazioni e conseguenze filosofiche, lascia maggiori frutti dal punto di vista filosofico.
Vi sono nella modernità tre autori in particolare, Arnold Gehlen, Martin Heidegger ed Herbert Marcuse, che mettono al centro della loro riflessione il tema della tecnica, affrontandolo da tre prospettive diverse ma intersecantesi: antropologica Gehlen (inerente all’imprescindibilità dell’uomo dalla tecnica), valutativa Marcuse (inerente all’impatto sociale della tecnica, al come la tecnica si manifesta e viene impiegata ed al come potrebbe manifestarsi e potrebbe venir impiegata alternativamente), ontologica Heidegger, relativa all’analisi sull’essenza della tecnica, poiché attraverso l’essenza della tecnica può disvelarsi per Heidegger l’essenza dell’uomo e l’essenza di quel qualcosa di indefinibile che Heidegger chiama Essere, alludendo a ciò che non può essere ridotto e afferrato a parole. Già da questa piccola premessa è evidente che il discorso di Heidegger per essere compreso necessita, diversamente che per Gehlen e Marcuse, di porsi in un paradigma concettuale e linguistico diverso da quello che utilizziamo abitualmente. Insomma, quell’operazione che sempre dovremmo fare, in questo caso andrebbe fatta con ancora maggiore impegno: prima di affrontare un certo autore o un certo argomento, sarebbe necessaria un’opera di alfabetizzazione concettuale, per comprendere il vocabolario specifico che si utilizzerà (teniamo quindi fermo il punto che i termini che ora incontreremo sono da intendersi in un’accezione diversa rispetto al linguaggio ordinario, un’accezione, non solo metafisico-ontologica, ma specificatamente heideggeriana).

martedì 6 gennaio 2015

Dominio della vita, falsificazione della cultura e impegno intellettuale (Appunti sulla democrazia)

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
           
La libertà sembra subire la stessa sorte della virtù per Valery: non viene contestata, ma dimenticata e in ogni caso imbalsamata, come la parola d’ordine della democrazia dopo l’ultima guerra. Tutti si trovano d’accordo sul fatto che la parola “libertà” non debba più essere usata se non come vuota frase, e che sia utopistico prenderla sul serio
M. Horkheimer

Siamo sicuri di essere finalmente entrati nel regno della libertà (un noto imprenditore politico direbbe, delle libertà)? Di essere al di fuori, per dirla con Jean-Francois Lyotard (La condizione postmoderna), da una grande narrazione? O forse, siamo talmente dentro ad una nuova grande narrazione, ad una nuova, ebbene sì, ideologia, da non riuscire a percepirla? Proprio come, per dirla con David Foster Wallace (Questa è l’acqua), quel pesce che non sa cos’è l’acqua. Un’acqua che non viene ex nihilo, ma che rappresenta la modificazione dell’acqua di prima. Un’ideologia che non è venuta al mondo dall’oggi al domani, ma che rappresenta genealogicamente l’evoluzione, l’ottimizzazione della dominazione, della precedente forma ideologica ormai obsoleta. Se questo ha un senso, si dischiude una nuova prospettiva sull’osservazione della realtà e dei grandi fenomeni sociali recenti e correnti, dalla Seconda guerra mondiale al crollo del Muro di Berlino, dalle correnti primavere arabe ai vari movimenti occidentali di protesta, dal fenomeno del’imperialismo culturale a quello del contro-impero, che sembra non essere altro che la lega dei dittatori locali. In breve, gli interessanti fenomeni che stiamo vivendo sembrano essere nient’altro che un traumatico passaggio di consegne – nonché un’interazione dagli esiti difficilmente prevedibili e variabili di conteso in contesto – fra vecchi, obsoleti e nuovi, aggiornati modelli di controllo sociale. Dunque, contrariamente a quello che viene abitualmente detto, una transizione nella continuità.