di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
(Il seguente Articolo ha costituito la base dell'intervento, recante il medesimo titolo, tenuto da Federico Sollazzo al Convegno dell'Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche, Praticare la filosofia in tempo di crisi: pericoli e opportunità; esso costituisce inoltre il contributo inviato all'associazione LiberaParola – Centro di Psicoanalisi Applicata per il Ciclo di incontri, Il tempo del conflitto)
… non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca
M. Heidegger
Ritenere – come da più parti avviene, spesso anche a prezzo di inflazionamenti banalizzanti del discorso – che oggi si viva in un sistema di manipolatoria eterodirezione della vita, di predeterminata produzione della stessa, significa ritenere che vi sia l’esercizio di una pressione sull’individuo che gli impedisce di poter essere autodeterminato, libero, autentico. Ma ciò significa ritenere anche – ed è questo che vorrei qui problematizzare – che tale individualità sia ancora, almeno potenzialmente, eccedente rispetto alla situazione data, poiché proprio nello scarto dal già dato si colloca la sua autonomia; è ancora possibile affermare questo scenario? O siamo oggi in una nuova fase di eterodeterminazione dell’individualità in cui non si dà più lo scarto tra questa e il sistema che la contiene? In tali termini non è più necessaria alcuna operazione di colonizzazione dell'individualità, di produzione della soggettività, poiché questa già aderisce completamente al sistema in cui è posta.
Innanzitutto vorrei prevenire alcuni possibili fraintendimenti. Sollevando il problema dell’eterodeterminazione non intendo né avallare teorie complottiste (buone per chi desidera spiegazioni fumettistiche della realtà), né intendere che l’optimum sia l’autonomia assoluta, la totale libertà da tutto e tutti, questa è infatti una condizione esistenziale, oltre che impossibile poiché la vita è sempre condizionata da ed in contingenze specifiche, non auspicabile in quanto indica verso l’eliminazione del mondo (Benjamin asseriva fosse una posizione “di destra”).
Con eterodirezione intendo invece una determinazione della vita che non viene lasciata libera di espandersi autonomamente – fermo restando che un’autodeterminazione si esercita sempre dentro ineludibili contingenze relazionali che la influenzano – ma che è indirizzata, vincolata verso forme e modalità prestabilite.
Terminologicamente, va inoltre notato come per condurre tale argomentazione sia preferibile l’uso dell’articolo indeterminativo: una autodeterminazione. Questa infatti non è mai l’unica possibile ma sempre una possibile autodeterminazione, dato che la sua forma (individuale e collettiva) è – dovrebbe essere; lo è ancora? – il risultato di una scelta che si esercita di volta in volta e non un assoluto da replicare eternamente uguale a se stesso.
Tornando alla eterodeterminazione così come qui la intendo, la si può allora caratterizzare come l’esito influente dello spirito dei tempi dentro cui, volenti o nolenti, consapevoli o meno, ci si trova a vivere; heideggerianamente come il portato dell’Essere, che infatti non è semplicemente congiunto al- ma è tempo.
Se questo è il quadro di riferimento, dobbiamo allora chiederci chi sia l’Essere della nostra epoca, il soggetto che determina la vita di chi vive in questo tempo. E, a dispetto delle semplificazioni che mass-media e gruppi di potere continuamente propagandano, tale soggetto non lo si troverà né nella dimensione politica né in quella economica. Inoltre, non si tratta neanche di un soggetto identificabile. Esso è infatti impersonale. È la razionalità strumentale – come hanno focalizzato per primi, ciascuno nei propri termini, gli autori della prima Scuola di Francoforte, Adorno, Horkhemier e Marcuse, ma anche Benjamin e Pasolini e ovviamente Heidegger, e si badi che questo tema era già all’opera all’interno del nazismo se Arendt descrive Eichmann non come un mostro ma come un egregio professionista, un perfetto funzionario funzionale al suo sistema di riferimento, proprio come l’odierno manager.
L’avvento della razionalità strumentale, evidentemente un precipitato dello sviluppo tecnologico da cui non siamo stati in grado di impermeabilizzarci, offre una conferma (nefasta) della hegeliana dialettica servo-padrone, che respinge ogni Marx renaissance. Infatti, l’apice dello sviluppo del capitale è determinato dal fatto di essere il capitale stesso l’Essere: il capitale schiavizza la tecnica per potersi incrementare e moltiplicare con efficienza, il capitale è il padrone, la tecnica il servo. Un servo che poi (peraltro in tempi molto rapidi) hegelianamente prende il sopravvento sino a diventare il padrone, heideggerianamente l’Essere, e il capitale il servo. Basti pensare al fatto che oggi, senza un adeguato supporto tecnologico, il capitale non si muove. Ecco perché la sola critica dell’economia politica non è più in grado di restituire la nostra epoca. È oggi indispensabile una critica della razionalità strumentale.
Bene, a proposito di quest’ultima si è detto che è impersonale e al tempo stesso dominante. E tuttavia è impersonale se la consideriamo come una forma di razionalità in sé conclusa, ma non lo è se consideriamo i suoi rappresentati e agenti, gli oggetti tecnologici. Sono questi che, circondandoci, continuamente ripetono i suoi principi. Trova così conferma sia la teoria pasoliniana della pedagogia delle cose che la concezione foucaultiana della microfisica del potere, inteso come rete di relazioni. Si può così ora specificare meglio la natura di questa eterodeterminazione: essa dà luogo ad un controllo eteronomo non solo nella misura in cui preorienta atteggiamenti, comportamenti, ragionamenti, bisogni e desideri – repetita iuvant: non semplicemente interagisce con-, ma pre-orienta l’uomo, ergo produce individui – ma anche e soprattutto nella misura in cui l’uomo non ha più alcun controllo su tale preorientamento, coincidendo ormai la sua individualità con la razionalità strumentale; egli quindi non è più il soggetto della storia, del tempo che abita (Galimberti, Severino) ma, in un rovesciamento hegeliano, l’esecutore del nuovo Essere (nonostante, o meglio proprio in virtù del fatto che non problematizzi tale questione). La razionalità strumentale, calcolante, efficientista esercita dunque un indirizzamento eteronomo sia in un senso verticale (dominio) che orizzontale (relazioni), la sua onnipervasività è così completa. La sua definitività sta nel fatto che, a differenza delle precedenti fasi della civilizzazione occidentale, essa produce rapporti sociali immodificabili, dunque, antropologicamente, un irreversibile nuovo tipo d’uomo, che non ha più le stesse caratteristiche del precedente e che non occupa più la stessa posizione del precedente – da empatico ad anaffettivo, da soggetto della storia ad appendice del nuovo soggetto della storia. Non si tratta quindi di una fine della storia tout court (Fukuyama), ma della fine di una certa storia, quella di un certo vivente e dell’inizio di una certa altra storia, di una “Dopostoria” (Pasolini).
A scanso di equivoci, non si tratta qui certamente di essere tecnofobi né di aspirare al ritorno a condizioni di vita pre- o paleo-tecnologiche, ma di fissare con lucidità quel certo tipo di relazione che intratteniamo con la razionalità tecnologica e che ne fa l’Essere del nostro tempo. Tale relazione è qui sotto accusa, ovvero, il soggetto ad essa assuefatto che la invera lasciandola accadere, e non la tecnologia in sé.
Ed eccola, brevemente affrescata, la forma di eterodirezione cui siamo assoggettati, che reifica gli individui sotto forma di cliché misurabili e interscambiabili, esecutori di funzioni (Ghelen) non solo quando svolgono un lavoro – sulla cui natura e scopi finali si è del tutto deresponsabilizzati: uno strumento esegue e basta – ma anche ed a partire dalla complessiva personalità, che altro non è che l’indossare lo stereotipo di un personaggio: la madre e donna, la donna in carriera, il maschio atletico, il capitano d’industria (prima) o il manager rampante (poi), l’intellettuale, nelle varianti del serioso e del faceto, la giovane coppia che risolverà ogni vicissitudine con l’amore, ecc., il tutto integrato con una modificazione architettonico-urbanistica finalizzata all’esposizione di tali modelli, con palazzi costituiti da vetrate e open space interni.
Ora – e questo è il punto dirimente – tali condizionamenti sono stati introiettati al punto tale che ormai, con un paradosso che è solo apparente, non si può neanche più parlare di introiezione, perché essa presupporrebbe un’interiorità individuale distinta e autonoma dal mondo esterno, cosa che oggi non è, essendosi realizzata la coincidenza dell’individualità con le condizioni della propria eterodeterminazione (ed ecco spiegato il titolo di questo breve intervento). L’eterodirezione scompare sotto la forma di uno “spontaneo” modo di vivere.
Prova ne sia il fatto che oggi la richiesta più “sovversiva” che viene espressa è quella di non essere disoccupati e che nel lavoro siano contemplati i diritti sindacali. Se tale richiesta non è associata alla comprensione dello scenario in cui è dato vivere e alla tensione al trascendimento di questo, altro non è che la richiesta di panem condito con un po’ di circenses. L’esito di tale dinamica – che continua a sfuggire a chi professando un illuminismo, un liberalismo, un progressismo astorico, non si avvede di come essi siano oggi diventati vettori di conformismo – è che richieste originariamente progressive, perché dirompenti in statu quo ante, vengono codificate in diritti che veicolano conformismo, sotto forma di adattamento in statu quo nunc. In un regime di conformismo, la realizzazione di diritti che consentono l’accesso a tale regime non fa altro che promuovere chi li ottiene al rango di “conformato”. A conferma di ciò, si osservi come la lotta, oggi tanto à la page, per i diritti dei non eterosessuali – la cui discriminazione è un atto di barbarie, ma non è questo il punto dirimente –, sia divenuta nient’altro che un modo per annettere anch’essi all’ordine stabilito delle cose, con la peculiarità che sono essi stessi, proprio come Mamma Roma di Pasolini, a supplicare per la loro stessa Anschluss.
Declinando la questione in termini politici, si osserva che il segno che garantirebbe della bontà della società esistente è il suo (presunto, poiché solo formale) pluralismo. La pluralità dei partiti politici, dei mezzi d’informazione, dei comportamenti possibili, delle offerte d’intrattenimento, costituisce il mantra delle democrazie occidentali liberali con il quale si vuole affermare la loro radicale discontinuità rispetto ai totalitarismi storici. Peccato che ci si dimentichi sempre di osservare come il pluralismo misuri la quantità di un qualcosa, non la sua natura, non la sua qualità. Se si osservasse quest’ultima, invece, non sarebbe difficile notare come le alternative pluralistiche offerte dall’occidente liberale altro non sono che una lista di cliché, dunque un pluralismo meramente formale e nominale che copre – neanche tanto bene, eppure in maniera bastante per diventare ideologia – un’unidemensionalità sostanziale. Ne deriva che questa specie di cultura democratica favorisce l’eteronomia sotto la specie dell’autonomia, e che un tale tipo di pluralismo in realtà milita contro l’autodeterminazione. Ecco perché appare necessario traslare il concetto di totalitarismo da un piano storico ad uno filosofico, rendendolo una categoria concettuale con cui si descrive (indipendentemente dalle sue forme storiche) una determinazione eteronoma della presunta autodeterminazione, presunta, perché evidentemente in questi termini non è più tale.
Certamente si apre qui il problema di se e come possa allora esercitarsi un’autodeterminazione – ed anche il problema del se esista una possibile autodeterminazione o se invece, secondo la provocazione spinoziana di Zizek, “siamo liberi solo nella misura in cui non riusciamo a cogliere le cause che ci determinano”.
Varie risposte sono state date, ognuna nei suoi propri termini: il dialogo solitario con se stessi, con il proprio daimon (Socrate), il giudizio di fronte al tribunale della propria ragione (illuminismo) e sensibilità (romanticismo), l’etica dell’epimeleia seauton, della cura di sé (Foucault), l’eccedenza dal già dato, che promette la bonheur (Marcuse), la ricerca dell’unicità e dell’irripetibilità. Tutte queste prospettive sono puntate in direzione della comprensione/costruzione di se stessi, ergo dell’autodeterminazione. E tuttavia mi sembra che esse condividano un medesimo rischio (del quale, a dire il vero, mi sembrano ben consapevoli Marcuse e Pasolini, che infatti hanno portato a tema la questione del “rifiuto”): la mancata considerazione di cosa accade quando tali progetti etici sono condotti con “materiale da costruzione” viziato senza, peraltro, che il costruttore se ne avveda – come accade proprio nella nostra epoca, ad opera della razionalità tecnologica che predetermina il campo e gli strumenti del ragionare. Ma, a conferma del fatto che qui non si tratta certo di essere tecnofobi, è da affermare con forza come questo problema si presenti quale che sia il cosiddetto spirito dei tempi, sebbene nella sua connotazione odierna abbia raggiunto, a causa di una certa relazione che intratteniamo con questo, il massimo livello di pervasività. Come uscire da questa impasse?
Esercitando il negativo (il rifiuto, il no). Infatti, perseguendo la realizzazione di un’individualità, di una soggettività, di un’alterità in termini affermativi, si è costantemente esposti al rischio di continuare a muoversi dentro il perimetro dell’ordine stabilito delle cose, che ha ormai assorbito anche le figure della differenza – si pensi al cliché del ribelle o del rivoluzionario, ridotti a personaggi (accessoriati di tutto: dall’abbigliamento al modo di portare barba e capelli, dal linguaggio ai consumi, dai divertimenti alle idee da contestazione/conversazione), maschere che devono semplicemente essere indossate. Diversamente, con un movimento di sottrazione dal, con una dinamica di rifiuto del paradigma affermativo vigente, qualsiasi esso sia, si accede ad un territorio di pura negatività, unica dimensione in cui è possibile generare qualcosa di originale e autentico. Per evitare i cliché delle differenze ormai integrate al sistema, e praticare una negatività che sia effettivamente tale, l’atteggiamento “etico-esistenziale” da adottare verso l’esistente lo definirei come quello di una consapevole indifferenza.
Certo, anche in un simile scenario nulla garantisce che quel che si sia creato per tal via non venga poi ricondotto all'ordine stabilito delle cose, riducendolo in un cliché – basti vedere le iconizzazioni standardizzanti di intellettuali che hanno invece sempre combattuto contro dinamiche di omologazione massificante, di produzione seriale di soggettività, da Pasolini a Foucault – ma ciò non annulla la validità di questo percorso, ma testimonia di come, da un lato, questa traiettoria sia ripercorribile da ogni generazione, anzi da ogni nuovo nato e, dall’altro, di come la dimensione dirimente da cui tutto, nel bene e nel male, prende corpo sia quella dell’individuo.
Certo, anche in un simile scenario nulla garantisce che quel che si sia creato per tal via non venga poi ricondotto all'ordine stabilito delle cose, riducendolo in un cliché – basti vedere le iconizzazioni standardizzanti di intellettuali che hanno invece sempre combattuto contro dinamiche di omologazione massificante, di produzione seriale di soggettività, da Pasolini a Foucault – ma ciò non annulla la validità di questo percorso, ma testimonia di come, da un lato, questa traiettoria sia ripercorribile da ogni generazione, anzi da ogni nuovo nato e, dall’altro, di come la dimensione dirimente da cui tutto, nel bene e nel male, prende corpo sia quella dell’individuo.
(«LiberaParola», 27/05/2014, e «Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche», 03/06/2014)
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