giovedì 12 giugno 2014

Liberale, chi?

di Giacomo Pezzano (giacomo.pezzano@binario5.com)

Se volessi rispondere alla domanda “cosa significa essere liberali?” o – peggio ancora – “che cos’è il liber(al)ismo?” finirei con questo punto. Che invece diventa solo un punto di partenza.
Perché sono domande molto poco interessanti in fondo, mirano a catalogare e circoscrivere in linee generali suscitando da una parte l’acritica accettazione di chi già la pensava così o l’altrettanto acritico rifiuto di chi parafrasa – inconsapevolmente o meno – Aristotele dicendo che “ci sono tanti liberali(smi)”, che insomma liberale si dice in tanti modi. Ma su questo ci sono biblioteche, libri, saggi, eventi, incontri, discussioni, ecc.; vorrei invece per una volta (parlo per me) lasciare da parte erudizione, ricerche preliminari, accortezze e sfumature da ricercatore e studioso e il consueto annesso “bla bla”. Questo farà certo perdere qualcosa in ricchezza e finezza argomentativa, ma farà altrettanto guadagnare in chiarezza e franchezza.
Strano a dirsi, ho però lo stesso la presunzione di dire qualcosa che adotta un punto di vista estremamente “liberale” e che a sua volta è tale nei suoi contenuti. Perché parlerò prima di tutto di me, pensando con la mia testa e con la mia (la nostra) ragione. Se ha senso, valuti chi legge.
Mi interessa ora la questione “psicologica”, senza con questo fare una “caratteriologia” generale o una “tipologia”: essere in un certo o in un talaltro modo (liberali, in questi paragrafi) è, secondo me e prima di tutto, una faccenda di come funziona la tua testa diciamo, persino di come funziona il tuo intero essere, di come sei fatto insomma. Di cosa accetti quotidianamente o meno, di cosa sei pre-disposto ad accettare o meno. Non tanto dunque di quale teoria sposi, quali atti compi, di quali idee sostieni: certo, c’è tutto questo e molto altro, ma ora non mi interessa. Mi interessa la pre-disposizione nei confronti del mondo, delle cose, degli altri, di se stessi. Sennò mi fermavo al punto di partenza.

Iniziamo, allora.
Come si suol dire, chi mi conosce in fondo lo sa: sono profondamente liberale. Non come “posizione politica” o “prospettiva teorica”, nemmeno tanto nei miei “comportamenti” o “atteggiamenti”, ma proprio nella mia indole, nella mia postura esistenziale, nel “come sono”. Nella mia pre-disposizione appunto.
Non sopporto il paternalismo di chi dice cosa – magari anche come – devo fare; ho un profondo senso di indipendenza e uno spirito critico a tratti anche radicali; storco la bocca di fronte a chi pensa di non potercela fare contando prima di tutto sulle proprie forse e/o cerca sotterfugi, sostegni obliqui e così via; credo profondamente nella forza del proprio sudore (sì, puzza, ma ha anche una forza!); amo rapportarmi in modo franco e vivace con le persone in quanto persone, con ciò che davvero sono e quando sanno davvero cosa sono, o anche offrirmi come punto di rifrangenza affinché capiscano chi davvero sono; non voglio niente di più e niente di meno di ciò che ho seminato e merito di raccogliere; alla lunga provo fastidio per chi parla parla ma si impegna di fatto poco per cambiare e per fare (Fare!, direbbe oggi qualcuno).
Così come non sopporto quei “figli di papà” che fanno i bravi comunisti con i portafogli altrui appunto, ma nemmeno quei “figli di papà” che giocano a fare i puri liberali dall’alto della casa che qualcun altro ha acquistato loro o dalle vette di posizioni che altri hanno conquistato per loro (ahimè, quanti ne conosco e ho conosciuti!), che hanno pure la faccia tosta di dire con una punta di immancabile disprezzo e cinismo che bisogna accettare tutto pur di sopravvivere senza aver nemmeno lontanamente davvero presente cosa sia la vera e nuda sopravvivenza. In fondo, questo è il liberalismo della rendita, che sia finanziaria o ereditaria o intellettuale, sempre rendita è. Insomma, non sopporto chi “fa il ricco con il portafoglio altrui”, per parafrasare un motto usato in altra forma in altre situazioni: il “portafoglialtrismo”, direi in una parola.
Forse è tutto legato al fatto che da quando esisto, o da quando ne ho coscienza, non ho potuto contare che su me stesso, sulle mie capacità e sulle mie idee, senza alcuna regalia o strada facilitata, non ho voluto che questo, nel bene e nel male (beh, anche volendo sarebbe cambiato ben poco, va detto). Mi fermo perché non c’è nessun intento autocelebrativo, ma semplicemente descrittivo e preparativo a un “eppure” (sta per arrivare, come avrete intuito).
Eppure, tutto questo si scontra con molti aspetti che non mi convincono dell’“essere liberali” – che dunque non mi convincono in me stesso, prima di tutto.
Preliminarmente c’è una cosa, una grossa cosa, lo confesso: il primato del mercato. O, devo meglio dire: l’idea che tutto sia mercato, che il mercato sia lo strumento migliore (per quanto non perfetto) per lasciar spazio alla libertà. O, addirittura, l’unico. Con il correlato che la misura più adeguata per tutte le cose non è più l’uomo, cioè la sua attiva opera di significazione e valutazione di ciò che incontra, bensì il prezzo, poco intaccato nella sua impersonalità o sovra-personalità da tutte le imperfezioni e vane pretese umane.
“Eccolo, il solito comunista mascherato!”. Per nulla, semplicemente non credo che questa “ipostatizzazione” del mercato sia molto liberale, per me la libertà è l’intelligenza degli individui in relazione, delle persone, la loro capacità e persino i loro difetti per quanto hanno spesso di creativo, non “il mercato”. “Il mercato” è un assoluto come lo era Dio un tempo, lo Stato per altri tempi, o il Potere ecc.: a me sostituire un assolutismo con un altro, assegnare il primato a un “sistema” piuttosto che a un altro, non pare molto “liberale”. Il mercato è uno strumento, più efficace e più utile di altri per una serie di – importanti – questioni, ma uno strumento, e come tale va trattato: non è insomma un “trascendentale”, il presupposto della libertà in quanto tale, ma un “tramite” che l’animale umano elabora per liberarsi, per essere libero – è un “medium” in questo senso, non nel senso che ha poteri ultraterreni. Ed è tutta un’altra cosa.
Anche perché, molto banalmente, “uno” strumento non è lo strumento! Mi ha sempre molto colpito che in chi si dichiara liberale, dal grande professore al grande imprenditore passando per “la gente”, ci sia sempre molto poco spazio per arte, amore, scavo dell’interiorità ecc. ecc. Insomma, a parole “W la libertà!”, poi però se bene ascolti è sempre “W la libertà economica!” (al massimo quella sessuale). Ma anche qui, un conto è dire che senza quella non c’è poi altro – ed è vero, salvo per chi davvero ha uno spirito talmente forte da riuscire a mettere la sopra-vivenza al di sotto della ben-vivenza  un conto è dire che quella porta con sé tutto tale “altro”. Voglio dire, che per fare altro dobbiamo tutti avere la pancia piena ed esserci guadagnati da vivere lo diceva già Aristotele, mica lo scopre Smith, ma che questo equivalga a “economicizzare” tutta la nostra vita – a fare della relazione e dello scambio qualcosa di in quanto tale economico – resta tutto da dimostrare.
“Eccolo, il solito comunista mascherato!”. Ribadisco, per nulla, mi sono anzi reso conto che il problema non è degli “economisti” (teorici o pratici, ossia professori o imprenditori – i primi sono sempre più pericolosi e asettici dei secondi, lo sappiamo), perché loro quello fanno ed è normale che quello vedano (spesso soltanto freddi numeri), il problema è dei “non economisti”, che sono più occupati a lamentarsi che e perché tutti gli spazi di libertà sono intasati dall’economico anziché darsi da fare per mostrare che e perché la libertà è proteiforme e per articolarne di conseguenza tutte le dimensioni. E lasciamo da parte gli “anti-economisti”, che non sono di per sé demoniaci ma per definizione non possono che essere lasciati da parte perché non possono che essere una piccola parte.
Posso anche dirla così: finché saranno soltanto economisti, informatici, ingegneri, aziendalisti – magari anche i più cinici e spietati tra di loro, per non farci mancare nulla – a presentarsi come i paladini della libertà e come coloro che spiegano e incarnano “il mercato”, la pubblicità fatta alla libertà e al mercato sarà sempre poco convincente. Non sono i migliori venditori del mercato, questo è il punto. E se il mercato non accetta di mettersi sul mercato come esso stesso sostiene che tutto debba fare, ha perso in partenza.
E per fare questo deve chiaramente accettare condizioni di trasparenza assoluta per farsi valutare per ciò che davvero è. Il che prima di tutto significa secondo me scrollarsi di dosso un po’ di quell’“astoricità” che lo incrosta. Ed ecco la seconda cosa che non mi convince dell’essere liberale.
“Astoricità” condensa diversi aspetti: la scarsa considerazione delle pastoie della storia e dei suoi meandri sotterranei o anche delle sue macroevoluzioni (che porta per esempio a far coincidere lo Stato moderno con la dimensione statale in quanto tale e con la conseguente demonizzazione del “pubblico” e del “comune” in quanto tali, o a far dimenticare che caduto il comunismo è rimasto in piedi l’altro polo, che non per questo rappresenta l’apoteosi definitiva della storia); una misteriosa repulsione spontanea per tutto ciò che è sociale nel senso di “comunitario” perché lasciami ciò che è “mio” (mannaggia ai sovietici che hanno gettato fango su tutto ciò che anche solo inizi con “comun…”!!!); la poca attenzione all’origine e al passato (soprattutto quando si parla delle “ricchezze”, viste purtroppo sempre come se fossero piovute dal cielo o legate esclusivamente al merito – o, al più, all’alea della fortuna); una sorta di correlato calvinismo che non lascia spazio alcuno alla contingenza (“se ce la fai e hai successo è perché sei bravo e te lo meriti, la fortuna c’è ma aiuta solo gli audaci”: posso accettarlo; “se non ce la fai e non hai successo è perché non sei bravo e non te lo meriti”: una volta si diceva che è un enorme scivolone logico, errata applicazione del modus tollens alias “falso antecedente”, ma al di là di questo davvero non vogliamo tenere conto dei punti di partenza, delle condizioni storiche e sociali ecc.?); una generale disattenzione per la temporalità anche riguardo all’individualità (individui si diventa, non si nasce). So già che qualcuno dirà che “liberale” è persino il contrario di tutto ciò, ma a questo punto gli chiederei se ha in mente il suo proprio modo di esserlo o cosa, di pensarci bene e di rispondere sinceramente.
Aggiungo ancora – sempre a proposito dello scarso amore per il contesto – che fatico a capire quei sedicenti liberali che credono che l’esempio da seguire siano gli USA, terra di libertà per eccellenza (al grido di “Chicago, Chicago!”): sono una potenza che pensa al proprio tornaconto nazionale in modo clamorosamente anti-libertario sulla scena internazionale (l’accettazione silenziosa delle basi militari americane all over the world è davvero curiosa per chi pensa e vive “liberisticamente”), hanno il governo e i servizi segreti più capillari e ramificati del mondo (roba che Equitalia o il “redditometro” sono simpatici amici al confronto), la più grande finanza speculativa del mondo (quella di chi “specula” sia nel senso che gioca sulle vite altrui sia in quello che vive in un mondo irreale e astratto senza saper fare davvero nulla di produttivo – una volta erano i filosofi a farlo!), le più grandi lobbies di interessi e privilegi del mondo (industria delle armi, dei farmaci, della psichiatria – il DSM grida vendetta), le più radicali e sconvolgenti diseguaglianze del mondo, la più drammatica ignoranza culturale diffusa (dall’alimentazione all’arte, dalla storia alla geografia ecc.) – e qui mi fermo. A questo punto per quale motivo, non capisco, non è piuttosto l’Italia la vera patria della libertà e soprattutto della realtà liberale, se è vero che siamo protagonisti di una competizione tra due “agenzie di sicurezza” come in nessun’altra parte del mondo accade (parlo dello Stato e della Mafia, ovviamente) e che il nostro Bel Paese è come nessun altro in mano a individui che pensano allegramente al proprio interesse in barba a quella fastidiosa “cosa pubblica”??!
Terza cosa, la più fine quindi quella a cui do ora meno importanza perché può sembrare “da salotto”. In quanto umani, semplificando in modo brutale, siamo animati da due principali esigenze o bisogni: quello di “circolarità” e quello di “proiezione”, ossia quello di “sicurezza” e quello di “esposizione” (o “protezione” e “rischio”, o “conservazione” e “innovamento”, o “staticità” e “dinamicità”, o “riproduzione” e “sperimentazione” e così via). Biologicamente anche detti “neofobia” e “neofilia”. Il punto è che l’essere liberali preme sull’acceleratore della seconda, lasciando poco spazio alla prima, quasi etichettandola come “primitiva” o “ancestrale”: è come se cercasse di farci camminare con una sola gamba, non si può, alla lunga si desiste perché fa male, perché non è il nostro modo naturale di camminare. Anche il più dinamico degli imprenditori o degli inventori (che si chiami Silvio Berlusconi o Leonardo da Vinci) dovrà pur dormire 4 ore al giorno. Insomma, sicurezza e privilegio non coincidono, diciamocelo senza eccessivi patemi d’animo.
A questo punto, però, un sincero e “vero” liberale si renderà conto che c’è una leva da utilizzare per controbattere, ma è – udite udite – una leva “antiliberale”, per arrivare comunque a un fine “liberale”: la storia e il contesto, ossia proprio la “storicità”. Mi spiego: se prendiamo il liberismo in sé e per sé non è altro che un’utopia che definisco kamikaze come il comunismo, perché di fronte alla devastazione attuale si propone una radicalizzazione di quelle ricette che sarebbero state applicate in maniera soltanto imperfetta, imprecisa o ancora troppo politicamente incrostata. Proprio come quegli irriducibili comunisti che continuano a dire lo stesso a parti inverse, ossia che l’URSS non era davvero comunista, che bisogna essere ancora più radicali e onesti al contempo e via discorrendo. Insomma, religiosi e ideologi sono sempre partigiani fastidiosi dell’“in sé e per sé”, mentre a noi interessa la realtà storica che e in cui viviamo.
E se infatti prendiamo la concreta e pulsante realtà della nostra Italia c’è poco da sindacare – forse persino in senso letterale, direbbe contento un sincero e vero liberale pensando ai tanto odiati sindacati: ci sono ceppi e ostacoli da rimuovere per sentirsi liberi e (ri)cominciare a essere liberi. Burocrazia e corruzione sono piaghe che non possono più essere messe sotto al tappeto mascherandole con la (sacrosanta, per tanti versi) denuncia dell’assurdità della struttura dell’Euro(pa); clientelismo, familismo e baronia sono cancri che non possono più essere difesi attraverso il (di per sé sacrosanto) scudo della non cancellazione dello stato sociale e della difesa del pubblico (non della sua gestione); immobilismo e conservatorismo sono affanni che non possono più essere sottaciuti per la (pur imprescindibile) salvaguardia del nostro patrimonio storico-artistico e culturale in generale; incompetenza politica e dirigenziale non possono più essere accettate per il timore (parzialmente comprensibile) di un profondo e consapevole cambiamento e riassesto istituzionale e sociale; improduttività e autoreferenzialità non possono più essere scusate con la (sempre viva) grande creatività del pensiero “laterale” che ci caratterizza.
Insomma, anziché continuare a “combattere contro” (comunisti, socialisti, stato, parassiti, apparati ecc.), conviene iniziare a unire le forze – liberali o democratici o radicali o quant’altro si dica di essere –  e “lottare per”, per libertà, uguaglianza, opportunità, benessere economico e sociale, ma soprattutto – in una parola che è la parola più umana che ci sia – felicità.

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