Una delle acquisizioni più consolidate della filosofia, ed in particolare dell’antropologia filosofica, del Novecento è la convinzione che l’uomo non sia una mera somma di due sostanze (res cogitans e res extensa, spirito e corpo), ma una struttura unitaria di corporeità ed extracorporeità[1] nella quale questi due fattori si fondono. Ora, quello che qui si vuole sostenere è che un essere così strutturato possiede una determinata moralità minima (intesa come la percezione di bisogni e desideri essenziali, derivanti dalle peculiarità antropologiche, originanti una determinata distinzione tra bene e male, giusto e ingiusto, ed un conseguente comportamento) che, se proiettata sugli altri, origina un’etica minima (intesa come l’attribuzione agli altri della nostra medesima sensibilità di base, del nostro stesso sentire di fondo, insomma, come una condivisione dello stesso patire). In altre parole, se l’essere umano esiste ancora, dopo più di duemila anni di storia, ciò significa che dispone di una moralità minima condivisa da tutti che, proprio per questo, rende l’etica universale, ma tale universalità dipende dagli “universalizzabili”, cioè, da quegli elementi condivisibili e condivisi da tutti gli uomini, per il solo fatto di essere uomini. Pertanto gli universalizzabili devono necessariamente essere basilari, minimi (andrebbe altrimenti perduta la loro condivisibilità), per questo la proposta che qui viene avanzata verte sull’“universalizzabilità” della biologia e delle emozioni umane, intesi come elementi centrali della costituzione antropologica essenziale. L’antropologia, in tal modo, rappresenta una via d’accesso privilegiata alla morale e all’etica, intese come il perseguimento del bene individuale e collettivo[2]. Ora, il mio intento non è né quello di descrivere la fisiologia umana, di delineare un modello di biologia descrittiva delle funzioni organiche, né quello di disegnare una sorta di mappa delle emozioni umane, nonostante che «sia sempre la nostra capacità di provare peculiari sentimenti morali che ispira la nostra vita etica»[3], bensì quello di estrarre una certa normatività (scaturente da principi e valori che, relativamente all’uomo, possono essere considerati assoluti) dalla ambigua ma unitaria costituzione antropologica umana. Ed in questo proposito non riscontro l’impossibilità di cui parla Jürgen Habermas, per il quale «non è possibile desumere dalla costituzione biologico-naturale dell’uomo imperativi di tipo normativo per una ragionevole condotta di vita»[4], infatti, pur condividendo l’osservazione che «dal punto di vista della teoria del diritto, i moderni ordinamenti giuridici possono ricavare legittimità solo dall’idea dell’autodeterminazione: i cittadini devono potersi pensare come gli autori di quello stesso diritto cui, come destinatari, sono sottomessi»[5], ritengo che il processo di autodeterminazione del diritto non sia in contrasto con l’esistenza di universali principi ispiratori, che i cittadini decidono come concretizzare. L’obiettivo è, allora, quello di passare dal principio della sacralità della vita, tipico della tradizione culturale occidentale, al «principio della qualità della vita»[6], ed evidentemente ciò presuppone l’abbandono di una prospettiva religiosa (in ambito antropologico, morale ed etico), in favore dell’assunzione del dato di fatto antropologico, relativo quindi alla biologia ed alle emozioni (ossia a quei costituenti che, materiali o immateriali che siano, pertengono sempre all’essere umano), come unica fonte normativa in campo morale ed etico; ne consegue pertanto il rifiuto dell’assunzione di uno specifico sentire religioso, politico, culturale, ecc, come origine della morale. Infatti, se si vuole considerare la morale come un tema pubblico, cioè appartenente a tutti gli uomini sia come creatori che come destinatari (ed è questo l’unico modo per tendere verso una pacificazione sociale non omologante, salvante cioè l’eterogeneità della società), allora il ragionamento su di essa deve essere impostato e condotto, non solo in una modalità che sia accessibile a qualsiasi uomo abbia il desiderio e le ragionevoli capacità critico-argomentative per interessarsene, ma in maniera tale che comprenda, abbracci la totalità degli uomini, insomma in modo laico.
Ora, per quanto concerne il versante biologico è sufficiente prendere atto delle basilari esigenze fisiologiche per la sopravvivenza umana, le quali, più che originare felicità quando vengono soddisfatte, provocano sofferenza quando non vengono evase, manifestandosi così come una sorta di indispensabile sostrato, funzionale allo svolgimento di attività superiori, inerenti cioè alla dimensione emozionale. Pertanto, poiché la scienza studia l’uomo esclusivamente come corpo, come quantità, quello che essa potrà dirci sull’uomo sarà sempre insufficiente per la completa realizzazione dello stesso:
I problemi dell’umanità non si possono risolvere senza l’aiuto della scienza, ma neppure solo con la scienza. Manca una coscienza umanista: la coscienza per la quale, a partire da certi livelli di conoscenza e di azione, niente di tutto quello che facciamo è indifferente per l’altro, che non siamo soli nel nostro sapere e agire. Se si acquista questa coscienza di responsabilità, sapere di più e potere di più significheranno allora amare di più[7]
Ora, le emozioni rappresentano quel secondo pilastro antropologico, che integra quello della biologia, completando l’essenza dell’uomo. Ma come agiscono le emozioni nell’ e sull’uomo, e quale ne è il significato (ovvero la traduzione razionale di tale fattore pre-razionale)? Ebbene, la forza delle emozioni consiste nella loro capacità di essere un “collante” umano, un elemento di aggregazione umana attraverso la condivisione di un medesimo sentire. Infatti, le emozioni non solo consentono ad ogni singolo uomo di sentire qualcosa, di “patire”, ma permettono anche di proiettare tale patire sugli altri, trasformandolo in un patire con-, in un’immedesimazione che diviene partecipazione emotiva al destino di ciascun uomo. Tale ruolo cognitivo delle emozioni è, per Martha Nussbaum, ben presente nelle rappresentazioni teatrali della tragedia classica e nei grandi romanzi; ovviamente, ciò non vuol dire che altre forme artistiche siano sprovviste di tale significato, ma quest’ultimo assume dei contorni maggiormente concreti e determinati in quelle espressioni artistiche che esplicitano i propri contenuti emozionali con una nitidezza, una comprensibilità indispensabile per poter incidere sul dibattito pubblico sui grandi temi sociali, infatti
La maggior parte delle opere musicali più importanti esprime un contenuto emozionale, e in molti casi (per esempio le Sinfonie di Mahler) viene spontaneo pensare ad un dispiegarsi di quel contenuto in forma narrativa, pur sapendo che qualsiasi rappresentazione reale di tale narrazione ne costituirà al massimo una debole versione[8]
In altre parole,
Il musicista compone e pensa. Ma, astraendosi da ogni realtà oggettiva, compone e pensa in suoni […] i suoni stessi sono il linguaggio originario e intraducibile. Poiché il compositore è costretto a pensare in suoni ne consegue la mancanza di contenuto in musica: infatti ogni contenuto concettuale si dovrebbe poter pensare in parole[9]
Ed è proprio di tale contenuto concettuale pensabile in parole che va in cerca la Nussbaum. Pertanto, le opere artistiche sono ben lungi dall’essere una semplice attività ludica, un mero divertissement, in quanto in esse è sempre presente un contenuto emozionale, questo però si traduce in un contenuto concettuale solo in quelle “narrative”, che permettono a chi vi entra in contatto di comprendere chiaramente e di partecipare emozionalmente alle vicende descritte, immedesimandosi nei personaggi, prendendo così posizione sui temi morali trattati, immaginando la complessità emotiva insita nelle situazioni descritte. La grande letteratura, quindi, non è mai neutra: essa rappresenta un «genere moralmente controverso, per il fatto che esprime mediante la sua forma e il suo stile, mediante le sue modalità di interazione con i lettori, un senso normativo della vita»[10]:
la narrativa mette in gioco una componente immaginativa, immagina cioè situazioni che «potrebbero» verificarsi nella vita umana, apre a possibilità finora non sperimentate e non documentate. La letteratura diventa una specie di regno dei «possibili» […] Il testo narrativo […] diventa così la proposta di un mondo abitabile, nel senso che suggerisce al lettore possibilità d’azione, valutazioni etiche e progettazioni sul futuro mai prese in considerazione precedentemente; spalanca mondi possibili che inevitabilmente ampliano la conoscenza e l’esperienza di chi li immagina[11]
Per questo, l’“immaginazione letteraria” è, per la Nussbaum, la migliore cura che si possa adottare per superare il male dell’utilitarismo che, oggi, si è trasformato in un complessivo criterio per la gestione sociale che, come scrive Amartya Sen, riduce le persone a
Localizzazione delle loro rispettive utilità […] (a contenitori neutri) in cui risiedono attività del tipo del desiderare, provare piacere e dolore […] (poiché) una volta considerata l’utilità della persona, l’utilitarismo non ha alcun ulteriore diretto interesse a qualsiasi informazione su di essa […] Le persone non contano come individui più dei singoli serbatoi di petrolio nell’analisi del consumo nazionale di petrolio[12]
E lo stesso utilitarismo si protegge dalla razionalità alternativa della letteratura, propagandando l’immagine di quest’ultima come un qualcosa di meramente ludico e/o superfluo, al punto tale che
raccomandarla (la letteratura) nella sfera pubblica è difficile, perché molti sono convinti che la letteratura possa sì aiutare a comprendere i meccanismi della vita privata e dell’immaginazione personale, ma sia inutile e superflua quando sono in gioco gli interessi più ampi di classi e nazioni. Si crede che in questo caso vi sia bisogno di qualcosa di più scientifico e affidabile, di più distaccato, di più razionale e saldo. Ma io dimostrerò che, a maggior ragione in questo caso, il contributo che le forme letterarie hanno da offrire è unico[13]
Dunque, l’immaginazione narrativa, per la Nussbaum, può e deve orientare la formazione della società, anche nei sui versanti economici, giuridici e politici[14]. Insomma, anche se non espressa esplicitamente, la tesi di fondo della Nussbaum risiede nella convinzione che le emozioni abbiano un valore morale ed etico tale da poter indurre l’uomo all’“autoredenzione”; obiettivo, quest’ultimo, che la Nussbaum delinea attraverso la “teoria delle capacità”. Per capacità la Nussbaum intende
ciò che le persone sono realmente in grado di fare e di essere, avendo come modello l’idea intuitiva di una vita che sia degna di un essere umano[15]
Così intese, le capabilities rappresentano un parametro di valutazione delle reali condizioni di benessere delle persone, alternativo a quelle misure standardizzate, come ad esempio il PNL (Prodotto Nazionale Lordo) o il reddito pro-capite, che, in quanto tali, riducono l’essere umano appunto ad uno standard misurabile, considerandolo o come un numero di un calcolo statistico o come un contenitore di istanze già costituite, che il sistema non deve fare altro che soddisfare. Diversamente da ciò, la teoria delle capabilities considera le persone nella loro irriducibile singolarità, dunque, come portatrici di bisogni e desideri, o, per usare le parole della Nussbaum stessa, di preferenze[16] specifiche. In tale prospettiva, la teoria delle capacità può contribuire anche alla funzione normativa dei Governi, ispirandoli nell’elaborazione di
norme universali riguardanti le capacità umane (tali norme) dovrebbero essere centrali in una strategia politica che vada alla ricerca dei principi politici fondamentali da porre a sostegno di una serie di garanzie costituzionali in tutte le nazioni[17]
Insomma, la teoria delle capacità ha un fine politico, consistente nella «promozione delle capacità individuali»[18], promozione che la politica deve rendere sempre possibile ma mai obbligatoria, come afferma il liberalismo classico che la Nussbaum, pur non citando, riecheggia:
il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una società civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri. Il bene dell’individuo sia esso fisico o morale, non è giustificazione sufficiente. Non lo si può costringere a fare o non fare qualcosa perché è meglio per lui, perché lo renderà più felice, perché nell’opinione altrui, è opportuno o perfino giusto […] Il solo aspetto della propria condotta in cui ciascuno deve rendere conto alla società è quello riguardante gli altri: per l’aspetto che riguarda soltanto la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l’individuo è sovrano[19]
Tuttavia, per concretizzare la teoria delle capacità, la Nussbaum è consapevole della necessità di ripristinare la funzione pubblica della cultura, ed in particolar modo di quella che si esprime narrativamente, attraverso la quale poter introdurre nella società determinati contenuti emozionali che a loro volta rimandano ad una specifica forma di razionalità, ed è proprio questa “ragione su base emozionale” che la Nussbaum considera indispensabile per la formazione della società in tutti i suoi ambiti. Dall’istruzione “cosmopolita” delle nuove generazioni:
Il romanzo rende perfettamente chiaro quanto la propria posizione si sia allontanata dall’approvazione dell’aristocrazia ereditaria, insistendo ripetutamente che sono le condizioni materiali, condizioni che possono essere cambiate, a fare la differenza nel modo di pensare […] (ne consegue che) coltivare l’umanità in modo complesso e interdipendente significa comprendere come i bisogni e gli scopi comuni vengono realizzati in modo diverso in circostanze diverse […] (rendendoci) cittadini in un mondo di esseri umani[20]
All’economia:
Non si tratta di condannare la crescita economica o di darne una lettura in negativo, ma piuttosto di dare il primato alla politica e di domandarsi oggi quali siano gli obiettivi che essa deve perseguire per ciascun cittadino, prima ancora di perseguire piani economici o di diventarne l’esecutrice[21]
Alla politica:
Se riteniamo che la scelta democratica sia semplicemente una procedura volta alla risoluzione degli scontri fra interessi in competizione, allora la preferenza accordata alla democrazia rispetto alle altre forme di governo perde la sua forza […] Per promuovere una democrazia riflessiva e deliberativa piuttosto che semplicemente un’arena per gruppi di interesse in competizione, dobbiamo formare cittadini che abbiano la capacità socratica di ripensare criticamente le proprie convinzioni[22]
In altre parole, l’immaginazione letteraria può svolgere una fondamentale funzione pubblica che
guiderà i giudici nel loro giudicare, i legislatori nel loro legiferare, i politici nel misurare la qualità della vita di persone vicine e lontane […] (per questo la grande letteratura deve abitare non solo nelle case private e nelle scuole, ma anche) nei nostri ministeri e tribunali e nelle Facoltà di legge ovunque l’immaginazione pubblica venga foggiata e nutrita in quanto parte essenziale di un’educazione alla razionalità pubblica[23]
E ciò non farà perdere al giudice, al legislatore ed al politico la propria imparzialità poiché, pur leggendo gli eventi attraverso le emozioni, essi ne resteranno sempre degli spettatori esterni, proprio come accade con la lettura dei romanzi; l’occhio delle emozioni dunque non inquina i giudizi, al contrario, li rende più lucidi, più comprensivi delle molteplici sfaccettature di una situazione fornendo una chiave interpretativa più approfondita per la comprensione della stessa, insomma, più giusti[24].
La biologia e le emozioni costituiscono, quindi, i pilastri della costituzione antropologica chiarendone l’essenza, un’essenza che è indispensabile tenere a mente per prospettare una universale teoria della “giustezza”, ovvero, di ciò che per l’uomo è giusto. In tale prospettiva
la giustizia non esaurisce il dominio della giustezza: essa è piuttosto una forma di giustezza quando il nostro problema è quello di giustificare, valutare o giudicare istituzioni, scelte collettive e provvedimenti che modellano i nostri esperimenti di vita sociale. In questo senso possiamo accettare la tesi di Nozick secondo cui la filosofia morale definisce lo sfondo più ampio e traccia i limiti per la filosofia politica[25]
In sintesi, il percorso che ho voluto qui accennare è quello che va dall’autocomprensione della costituzione antropologica essenziale (pertanto universale) e dei bisogni e desideri insiti in essa, alla valutazione delle procedure materiali (pertanto storiche) grazie alle quali dare soddisfazione agli stessi. L’uomo, dunque, ha delle necessità e delle potenzialità (meta)empiriche che devono essere comprese per poter essere soddisfatte.
Vivere insieme nel mondo significa essenzialmente che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune, come un tavolo è situato tra quelli che vi siedono intorno; il mondo come ogni in-fra [in-between], mette in relazione e separa gli uomini nello stesso tempo[26]
E la costituzione antropologica essenziale è il primario in-fra, essa infatti mette in relazione gli uomini, poiché appartiene a tutti, e nello stesso tempo li separa, in quanto ciascuno ne è portatore a suo modo.
[1] Preferisco utilizzare il termine di extracorporeità, anziché quello di trascendentalità, poiché il primo designa la presenza di qualcosa di extra-corporeo, senza però collocarlo necessariamente in una dimensione altra rispetto a quella umana.
[2] E’ opportuno chiarire che non si affronterà qui, se non incidentalmente, tutto il vasto insieme delle questioni medico-giuridiche che negli ultimi anni sono state investigate sotto l’etichetta di bioetica, poiché ciò travalica lo scopo del presente lavoro, che resta quello della riflessione sulla costituzione antropologica e sui diritti/doveri etici, personali e collettivi, da essa derivanti. Al contrario, per un’investigazione delle tematiche propriamente bioetiche cfr. E. Lecaldano, Etica, UTET, Torino 1995, Id. et al., Dizionario di bioetica, Laterza, Roma-Bari 2002, Id., La bioetica e i limiti del diritto, in AA. VV., Democrazia e diritto, FrancoAngeli, Milano 2003, Id., Bioetica, Laterza, Roma-Bari 2005 e M. Buiatti, Le biotecnologie, il Mulino, Bologna 2004.
[3] E. Lecaldano, Bioetica, cit., p. 30.
[4] J. Habermas, Fatti e norme, Guerini, Milano 1996, p. 10; ricordo inoltre, che la mia proposta non poggia solo sulla caratterizzazione biologico-naturale ma anche sul versante emozionale dell’uomo.
[5] Ibidem, p. 531.
[6] P. Singer, Ripensare la vita, il Saggiatore, Milano 1996, p. 191.
[7] L. M. Arroyo, Sfide etiche e antropologiche della genetica e della biotecnologia, in C. Dovolich (cura), Etica come responsabilità, Mimesis, Milano 2003, p. 69.
[8] M. Nussbaum, L’immaginazione letteraria, in Il giudizio del poeta, Feltrinelli, Milano 1996, p. 24; della stessa autrice cfr., sul sentimento della compassione, Compassion: The Basic Social Emotion, in «Social Philosophy and Policy», n. 13, 1996 e Compassion and Terror, in «Dedalus», n. 1, 2003, sulla valenza formativa della tragedia classica, La fragilità del bene, il Mulino, Bologna 2004 e sul contento emozionale che sta dietro le partiture musicali delle sinfonie di Gustav Mahler, Musica ed emozione, in L’intelligenza delle emozioni, il Mulino, Bologna 2004; sulla Nussbaum cfr. F. Abbate, L’occhio della compassione, Studium, Roma 2005.
[9] E. Hanslick, Il bello musicale, Aesthetica, Palermo 2001, p. 117.
[10] M. Nussbaum, L’immaginazione letteraria, in Il giudizio del poeta, cit., p. 20, corsivo mio.
[11] F. Abbate, L’occhio della compassione, cit., pp. 19-20 e 52.
[12] A. Sen – B. Williams, Utilitarismo e oltre, il Saggiatore, Milano 1984, p. 41, parentesi mie; la Nussbaum ha lavorato con Sen tra gli anni Ottanta e Novanta come condirettrice di un progetto sulla valutazione della qualità della vita nei Paesi in via di sviluppo per conto del World Institute for Development Economics Research (istituto di ricerca collegato all’ONU), da ciò è derivato il seguente testo: M. Nussbaum – A. Sen, The Quality of Life, Clarendon, Oxford 1993; di Sen, la Nussbaum elogia: Scelta, benessere, equità, il Mulino, Bologna 1986 e Il tenore di vita, Marsilio, Venezia 1993; cfr. anche J. E. Stiglitz – A. Sen – J.P. Fitoussi, Mimesauring Our Lives, The New Press, New York-London 2010; sul raffronto fra la Nussbaum e Sen cfr. S. Morcellin, Ripartire dalla vita buona: la lezione aristotelica in Alasdair MacIntyre, Martha Nussbaum e Amartya Sen, Cleup, Padova 2006.
[13] M. Nussbaum, L’immaginazione letteraria, in Il giudizio del poeta, cit., p. 21, parentesi mia.
[14] Seppure in forma diversa, la Nussbaum ricalca gli stessi motivi di preoccupazione, le stesse critiche della modernità e le stesse prospettive di superamento, incentrate sul ruolo sociale dell’alta cultura e dell’arte, tipiche di gran parte della cultura europea novecentesca.
[15] M. Nussbaum, Femminismo e sviluppo internazionale, in Diventare persone, il Mulino, Bologna 2001, p. 19, opera nella quale si trova anche l’esposizione della teoria delle capacità, a proposito della quale cfr. M. Nussbaum, Aristotelian Social Democracy, in R. B. Douglas – G. M. Mara – H. S. Richardson (cura), Liberalism and the Good, Routledge, New York 1990, Id., Human Functioning and Social Justice: In Defense of Aristotelian Essentialism, in «Political Theory», n. 20, 1992 e Id., Capacità personale e democrazia sociale, Diabasis, Reggio Emilia, 2003; per una descrizione della questione cfr. S. F. Magni, Etica delle capacità: la filosofia pratica di Sen e Nussbaum, il Mulino, Bologna 2006
[16] Cfr. M. Nussbaum, Preferenze adattive e scelte femminili, in Diventare persone, cit.
[17] M. Nussbaum, In difesa dei valori universali, in Diventare persone, cit. 55, parentesi mia.
[18] M. Nussbaum, In difesa dei valori universali, in Diventare persone, cit., p. 94.
[19] J. S. Mill, Saggio sulla libertà, il Saggiatore, Milano 1981, pp. 32-33.
[20] Rispettivamente, M. Nussbaum, The Princess Casamassima and the Political Imagination, in Love’s Knowledge, Oxford University Press, New York 1990, p. 201, trad. mia, Id., La Vecchia Educazione e il Pensatoio, in Coltivare l’umanità, Carocci, Roma 2006, p. 25 e Id., Educare cittadini del mondo, in Piccole patrie, grande mondo, Reset-Donzelli, Milano-Roma 1995, p. 24, parentesi mie; sul cosmopolitismo della Nussbaum cfr. i suoi Kant and Stoic Cosmopolitanism, in «Journal of Political Philosophy», n. 5, 1997 e Sentimenti cosmopoliti? (Lectio Magistralis per il conferimento della Laurea Honoris Causa), Università di Torino, Torino 2002.
[21] F. Abbate, L’occhio della compassione, cit., p. 157.
[22] M. Nussbaum, L’autoesame socratico, in Coltivare l’umanità, cit., p. 43 e 33.
[23] M. Nussbaum, L’immaginazione letteraria, in Il giudizio del poeta, cit., pp. 20-21, parentesi mia.
[24] Cfr. M. Nussbaum, Emotions as Judgments of Value, in «Yale Journal of Criticism», n. 5, 1992 e Id., Poets as Judges: Judicial Rhetoric and Literary Immagination, in «University of Chicago Law Review», n. 62, 1995.
[25] S. Veca, Emozioni e ragioni in una teoria della giustezza, in C. Dovolich (cura), Etica come responsabilità, cit., p. 45; cfr. anche, dello stesso autore, Cittadinanza, Feltrinelli, Milano 1990.
[26] H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1991, p. 39.
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