La lotta a privilegi e privilegiati è partita e viene condotta senza esclusione di colpi e senza, paradossalmente, privilegiare nessuno: nessuno è escluso, ognuno deve rinunciare ai suoi privilegi in nome del bene comune o, più “sobriamente” (come va di moda), dell’interesse comune.
Di conseguenza è scattata una sorta di caccia alle streghe in cui tutti siamo un po’ streghe, una banca più di un’assicurazione, un’assicurazione più di un notaio, un notaio più di un farmacista, un farmacista più di un tassista, un tassista più di un “padroncino”, un “padroncino” più di un netturbino, a questo punto.
Difficile così capire cosa possa significare colpire i privilegiati, sottrarre privilegi a chi li possiede, se ogni interesse di categoria diventa di per sé un privilegio corporativo da estirpare o, quantomeno, da ridimensionare.
In un senso generalissimo, con “privilegio” intendiamo qualcosa o, meglio, qualcuno che è “privo” nel senso di isolato, qualcuno che vive in una condizione particolare e separata rispetto a tutti gli altri, e ciò perché privus di lex: il privilegiato è dunque qualcuno che è “privo di legge” e per questo “fuorilegge”, che vive al di fuori della legge comune, non di una qualche legge specifica, ma al di fuori dell’elemento di comunanza e reciprocità insito in ogni legge in quanto tale. Chi è immune alla legge, al di sopra della legge, al di fuori della legge, e per questo separato dagli altri, al di sopra di noi tutti.
Il vero privilegio è un altro, ed è quello contro cui uno Stato, una seria politica volta a fare del comune un teatro di libere individualità, deve muoversi, è quello lottando contro cui uno Stato trova la sua più profonda ragion d’essere. Parlo di un altro convitato ormai consueto ai tavoli italiani degli ultimi mesi: l’inequità.
La faccenda è molto semplice: uno Stato, uno Stato Minimo (sì, proprio quello che tutti i libertari e liberisti sognano) è anche uno Stato Massimo, è cioè uno Stato che non interviene in questa o quella questione specifica, ma nelle fondamenta, nei presupposti della vita in comune. Nelle sue condizioni di possibilità.
Equità significa “mettere tutti nelle stesse condizioni di”, fare di tutto affinché sia sempre più vicino il momento in cui ognuno sia ugualmente “in grado di”, a seconda poi di capacità, attitudini, desideri, esigenze individuali e comuni etc. Bene, per fare questo serve evidentemente una cosa: pro-meteismo, cioè capacità di lungimiranza, di guardare a lungo raggio e a lungo termine. Altrimenti il denaro non basta.
Bando alle ciance, chiedo a chi legge di partecipare a un esperimento.
Mentale.
Immaginiamo due persone, che a 19 anni cominciano l’università, pubblica, il primo viene da una “buona famiglia” di professionisti e insegnanti universitari, il secondo viene da un’altrettanto buona famiglia ma di operai e impiegati. Devono entrambi superare un test d'ingresso, ci riescono con diverso impegno ma con eguali risultati.
Il primo versa onestamente le sue tasse e paga onestamente i suoi libri, il secondo ha la fortuna di usufruire di una borsa di studio e riesce così a cavarsela con tasse e libri senza gravare sui genitori, magari aggiungendo qualche lavoretto saltuario per arrotondare.
Danno entrambi i loro esami ed entrambi con soddisfazione. 1 e 2 si laureano stando nei tempi ed entrambi con il massimo dei voti. Fine della storia.
Bene, sin qua, si dirà, è tutto normale, anzi è una bella situazione ideale, uno Stato che funziona con dei cittadini modello!
Più o meno.
Perché c’è già nella situazione iniziale uno squilibrio, che se nella preparazione del test d’ingresso era rimasto come sopito e superato grazie all’impegno di 2, alla lunga viene fuori. Può restare sopito persino sino alla laurea, può addirittura restare sopito per tutta la vita di 1 e 2 (diventati nel frattempo entrambi competenti e umani primari di importanti ospedali italiani). Ma non per questo non c’è.
1 è cresciuto non dovendo pensare al domani, è cresciuto sentendo spesso parlare di opportunità o del mondo “che funziona”, a casa sua venivano sempre a mangiare avvocati e medici, importanti professori universitari e imprenditori. Ha sentito discorsi enormi sul rapporto tra l’etica e la medicina, ha sentito spiegare che la cura al cancro è possibile. I genitori gli hanno regalato ogni anno come premio per l’impegno un soggiorno estivo all’estero, per ampliare le sue conoscenze, sentirsi più internazionale e vedere che c’è un mondo là fuori. 1 si è meritato tutto questo.
2 è cresciuto dovendo pensare al domani, perché i soldi non sempre c’erano, spesso ha temuto di non potercela nemmeno fare ad andare all’università, è cresciuto sentendo spesso parlare di quanto la vita è difficile e nessuno ti regala niente, a casa sua talvolta venivano a mangiare cassieri e commessi, al più stanchi insegnanti delle elementari o appesantiti impiegati pubblici. Ha sentito discorsi enormi sul rapporto tra gli ultimi due concorrenti del Grande Fratello, ha sentito spiegare che marcare a uomo Messi è possibile. I genitori gli hanno regalato quando ha fatto 18 anni il suo primo pc portatile, per poter andare su internet liberamente e conoscere il mondo, a distanza. 2 si è meritato tutto questo.
1 ha scoperto la medicina semplicemente crescendo; 2 ha scoperto la medicina grazie alla scuola (all’ottima scuola pubblica che ha avuto la fortuna di frequentare) e all’insorgere di un interesse anche per lui sorprendente.
Insomma, ho descritto caricaturalmente quello che gli esistenzialisti chiamavano “situazione” e quello che più comunemente chiamiamo tutti “condizione sociale”.
Dove dovrebbe agire, allora, uno Stato Minimo e per questo Massimo?
Facendo il più possibile affinché a 1 e 2 siano mostrate e rese disponibili il più presto possibile le più svariate possibilità. Come?
Giusto alcuni esempi (siamo sempre nell’esperimento immaginario): organizzando delle grandi giornate di informazione e di discussione sulla conoscenza (con medici, giuristi, filosofi, ingegneri, etc.); garantendo a ogni “teen” la possibilità di trascorrere almeno un’estate in un Paese straniero, incoraggiandolo a far questo; prevedendo un servizio tanto civile quanto personale per cui almeno sei mesi della propria vita da “teen” debbano essere trascorsi o all’estero per capire chi si è e cosa si vuole o in patria collaborando a qualche progetto; prevedendo borse, incentivi e bandi per progetti di pubblica utilità, premiando chi ha idee che possano servire a tutti (le vere idee servono sempre a tutti).
Certo, dirà qualcuno, per fare tutto questo servono soldi, e anche tanta moneta sonante! Tutte parole da filosofo, la solita cultura improduttiva da salotto, la ricchezza va prodotta non cade dal cielo! Verissimo, ma non serve proprio a questo l’economia? Non serve cioè laddove scienza, filosofia, letteratura, arte, non possono e neanche devono arrivare, ossia escogitare soluzioni strettamente economiche?
Insomma, se non spetta all’economia trovare il modo di far quadrare i conti, di reperire i fondi, etc., a chi allora? Economisti prodigatevi, siete tanti sempre più, le nostre università ne sono sempre più piene, rimboccatevi le maniche!
A cosa serve la (pseudo?) scienza economica se deve essere solo uno strumento conoscitivo che permette ai singoli di fare denaro, agli speculatori di fare profitto, e non all’insieme degli esseri umani di vivere una sobria armonia collettiva realizzandosi come singoli?
Economisti cari di tutto il mondo, unitevi, liberisti o keynesiani che siate, e dimostrate voi di avere ragione di esistere, dimostrate voi di non essere tafani improduttivi, che si cibano della produttività di “quelli che lavorano”, o che producono solo per sé.
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