di Luigi Carotenuto (luigicarotenuto@live.it)
“Al confine col cielo” la poesia di Grazia Calanna, dilacerata da una costante ansia metafisica.
Versi come passi di danza, danza sui carboni ardenti di un mondo “sordido” e “scoscenziato” che, babelicamente, “parla lingue confuse”.
La forza delle verità assolute, spesso “indigeste”, guida il cammino di un libro dal lessico intriso di dolore e sapienza, fede e accettazione mai rassegnata.
Agguerrita contro ogni ingiustizia e indifferenza umana, lucida fotografa di miserie esistenziali, la lirica, a tratti espressionista, dell'autrice, ha per compagno infedele il silenzio, declinato nelle sue molteplici sfumature psicologiche (è custode, sconosciuto, logorroico, doloroso, madido, placante, invadente, stolto), quasi fosse vera e propria camaleontica persona. Altro protagonista della silloge, Crono, tiranno dalle “mani piromani”, il tempo divorante che ingurgita l'uomo nel suo “baratro”, incenerisce i sogni e reclude in spazi asfittici “contronatura”.
Alla quotidianità asservita a Crono, malata di fretta, si oppone la “maestria” dell'anziano, vero “signore del tempo”, l'ingenuità infantile (Ignaro / un fanciullo disegna arcobaleni di quiete) e nemmeno la morte fa più tanta paura anzi diviene complice di senso e “stupore” (Dipartita / riporti in vita / ricordi avviliti dalla vita / gemme di sale in gocce di senso rinvenuto).
Una poesia alla ricerca dell'essere puro, “eterno”, consapevole dell'incapacità del linguaggio stesso di afferrare le cose, i concetti (La parola / incompleta carceriera), volta verso essenze celesti e albe sorridenti dove smettere, finalmente, “di cercare risposte”.
La vita reale è soltanto il riverbero dei sogni dei poeti
Stendhal
Stendhal
“Al confine col cielo” la poesia di Grazia Calanna, dilacerata da una costante ansia metafisica.
Versi come passi di danza, danza sui carboni ardenti di un mondo “sordido” e “scoscenziato” che, babelicamente, “parla lingue confuse”.
La forza delle verità assolute, spesso “indigeste”, guida il cammino di un libro dal lessico intriso di dolore e sapienza, fede e accettazione mai rassegnata.
Agguerrita contro ogni ingiustizia e indifferenza umana, lucida fotografa di miserie esistenziali, la lirica, a tratti espressionista, dell'autrice, ha per compagno infedele il silenzio, declinato nelle sue molteplici sfumature psicologiche (è custode, sconosciuto, logorroico, doloroso, madido, placante, invadente, stolto), quasi fosse vera e propria camaleontica persona. Altro protagonista della silloge, Crono, tiranno dalle “mani piromani”, il tempo divorante che ingurgita l'uomo nel suo “baratro”, incenerisce i sogni e reclude in spazi asfittici “contronatura”.
Alla quotidianità asservita a Crono, malata di fretta, si oppone la “maestria” dell'anziano, vero “signore del tempo”, l'ingenuità infantile (Ignaro / un fanciullo disegna arcobaleni di quiete) e nemmeno la morte fa più tanta paura anzi diviene complice di senso e “stupore” (Dipartita / riporti in vita / ricordi avviliti dalla vita / gemme di sale in gocce di senso rinvenuto).
Una poesia alla ricerca dell'essere puro, “eterno”, consapevole dell'incapacità del linguaggio stesso di afferrare le cose, i concetti (La parola / incompleta carceriera), volta verso essenze celesti e albe sorridenti dove smettere, finalmente, “di cercare risposte”.
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