di Erwin de Greef (erwindegreef@libero.it)
Nel 1887 Pierre Loti(1), autore francese di narrativa esotica, pubblica Madame Chrysanthème, un romanzo ibrido tra diario di viaggio e memoriale. È questa la storia dell’ufficiale di marina Pierre Loti (omonimo dell’autore) e Kikou-San, Crisantemo, una musmé (letteralmente, giovane donna), che dietro il pagamento di venti piastre si fa sua concubina. Per l’io narrante, la relazione senza amore diventa l’occasione per scoprire e rappresentare il Giappone di fine Ottocento, che con la rivoluzione economica e culturale introdotta dell’Imperatore Meiji (Kyoto 1852 - Tokyo 1912, il suo nome significa Governo illuminato), è in gran fermento. Madame Chrysanthème è un romanzo sottile, di difficile interpretazione. Ma nella storia serpeggia un senso di vuoto, che spinge il lettore a porsi una domanda: è stato il narratore che non ha saputo bene amalgamare la forma col contenuto? O, meglio, è stata proprio la materia, la storia, la sua ambientazione, quel senso svuotato, che hanno vincolato Loti alla coerenza, tutta intellettuale, di rispettare una dimensione realistica, documentaria, della vicenda? Madame Chrysanthème – bisogna premettere – è prima di tutto un racconto credibile, fortemente ancorato alla realtà, e strutturato con estrema consapevolezza. Si tratta di un ordigno letterario in cui ogni elemento è inserito in un incastro narrativo, ad un tempo, assai fluido e coerente che restituisce al lettore il senso di un Paese orientale. È questo un romanzo che difficilmente offre il fianco a una riflessione definitiva. Rimane sempre l’ombra del dubbio.
L’aspetto che, comunque, interessa analizzare in questo breve saggio, è legato a un’altra domanda: quanto Madame Chrysanthème è un’opera veritiera, coerente col Giappone che il narratore volle con entusiasmo conflittuale rappresentare? Questa è una domanda – sì, retorica, ma – coerente, perché il Giappone è mondo Altro ancora oggi. Del Giappone di Loti sappiamo ancora meno. Allora, come si possono valutare quelle poche fonti che criticano l’opera? Da quale parte fare pendere la nostra bilancia? Andando a sensazione, potremmo suggerire che Loti ha raccontato al suo lettore un Giappone veritiero, credibile, dal punto di vista di un occidentale. Ma non basta. È necessario un confronto aperto, giocato con un’opera che possa offrire una conclusione scientificamente credibile. Per materia, contenuto, la più coerente è L’impero dei segni. Loti messo a confronto con Barthes. Il risultato – qui solo accennato – è che il primo aveva compreso il Giappone. Gli mancavano un vocabolario, una grammatica – lo scrive lui stesso – per raccontare quell’Oriente a parole. Come uomo non riuscì, almeno in questo viaggio (ne farà altri due da cui nasceranno altrettanti romanzi), a cogliere il senso profondo del Giappone. Il suo “cuore”, scrive l’autore. Riuscì però a percepirlo. Con Madame Chrysanthème, Loti è penetrato nel mistero del mondo orientale. Se n’è fatto un’opinione e l’ha raccontata. Il libro di Barthes convalida le infinite riflessioni che il narratore intercala nel testo. Per una volta – e senza volerlo – il lavoro del critico dà forza, coerenza, slancio e nuova vita a quello del narratore. Beh, andiamo avanti.
Nel 1905, M . Felix Régamey, nel recensire Madame Chrysanthème, scriveva:
Aux yeux de M. Pierre Loti, le Japon est “étrange” – dans Madame Chrysanthème nous avons compté cet adjectif trente-trois fois; “bizzarre” vingt-deux fois, “drôle dix-huit fois, incroyable, indicibile, inimaginable, invraisemblable, impayable et surtout incompréhensible”.(2) (cit. in A. Q-V., p. 142)
È indiscutibile quanto è stato scritto. A prima lettura, il Giappone di Loti presenta – in cifre – anche questa strana somma di aggettivi. È certo un modo – speculare tra autore e critico – di rendere in sintesi la narrazione di un Altrove. Nel romanzo, ad ogni modo, c’è di più. In questo infelice computo da ragioniere – mi si passi l’ironia – manca la conta numerica, sterile e fredda, di un altro aggettivo: “vide”, vuoto. L’intero impianto narrativo ruota intorno a questo concetto, difficile da cogliere, da centrare, da accettare per noi occidentali, proprio perché di un vuoto stiamo discutendo. Non deve essere stato facile, per il narratore, interpretare e raccontare il Giappone. Capirà meglio in seguito, negli altri viaggi: “[…] les retours avaient permis de vider ce vide qui était largement celui de l’incompréhension”(3) (A. Q-V., p. 138). Allo stesso modo, deve essere stato complicato, per il critico – e qui gli rendiamo giustizia – leggerlo. Senza la necessità – non è avvertita – di contare gli innumerevoli vuoti che il narratore ci racconta, si può facilmente argomentare che ogni aspetto di questo Giappone si presenta come il contenitore di un nulla. È questo un problema di approccio al quotidiano, di filosofia, di sistema culturale (“schematico e testuale”, scriverà E. Said in Orientalism, 1978).
Negli anni di Loti, il Giappone si presentava in tutto, in ogni suo aspetto, esotico, orientaleggiante. Era “strano”, non “straniero”, per l’appunto. Anche e ancora oggi, il Paese del Sol Levante si presta molto e bene a questa interpretazione. Per noi, oggi, il Giappone è il Paese delle persone piccine, con gli occhi a mandorla, dei “bonsai”, del “saki”, della “tempura”, dei samurai e delle geishe. Insomma, continua a sopravvivere un’idea manierata e stereotipata di quel popolo e della sua civiltà. Argomenta Bruno Vercier:
Confronter l’image et la réalité, tel est l’enjeu de cette escale et de ce libre. L’Europe, depuis une bonne vingtaine d’années, s’est mise à la mode japonaise – en particulier depuis la partecipation japonaise à l’Exposition universelle de Paris de 1867.(4)
A nostro avviso, si tratta proprio di cogliere le differenze che intercorrono “tra l’immagine e la realtà”. Il Giappone di Loti esisteva – allora – alla stregua di un qualunque mondo alieno. Avrebbe potuto chiamarsi anche Marte – è certo questo un paradosso – e nessuno se ne sarebbe meravigliato. Nessuno avrebbe messo in discussione le intenzioni, anche divinatorie, di un ufficiale della marina francese. Come scrive Roland Barthes:
Posso anche, senza pretendere assolutamente di rappresentare o analizzare la minima realtà (sono questi i fondamenti principali del discorso occidentale), prelevare in qualche parte del mondo (laggiù) un certo numero di “tratti” (termine grafico e linguistico) e con questi tratti formare deliberatamente un sistema. Ed è appunto questo sistema che io chiamerò il Giappone.(5)
Questa riflessione – se si preferisce, intuizione – è tanto vera che l’io narrante di Madame Chrysanthème arriva a domandarsi: “Et nous nous disions: Où sommes-nous vraiment? – Aux États-Unis? – Dans une colonie anglaise d’Australie, – ou à la Nouvelle-Zélande ?”(6) (M. C., p. 51).
In fin dei conti, quel che ha importanza è che il Giappone ha messo Loti nella condizione di scrivere, di narrare, di rappresentarlo. Come suggerisce Tzvetan Todorov, che all’autore e all’opera ha dedicato un breve saggio: “Si rileverà dapprima che Loti non pretende affatto che il suo Giappone sia il Giappone: egli si preoccupa, al contrario, di distinguere tra il paese e l’effetto che questo paese produce su di lui”(7). Ciò che è preso in considerazione non sono che altri simboli di un’Altra cultura. Si tratta della possibilità di una differenza, rappresentata sul palcoscenico del Giappone di Nagasaki. L’autore lo intuisce, quando, siamo alla fine del capitolo XII, scrive:
Pour raconter fidèlment ces soirées-là, il faudrait un langage plus manieré que le nôtre; il faudrait aussi un signe graphique inventé exprès, que l’on mettrait au hasard parmi les mots, et qui indiquerait au lecteur le moment de pousser un éclat de rire – un peu forcé, mais cependant frais et gracieux…(8) (M. C., p. 99)
Ancora imbarcato sulla Trionphante, in procinto di essere sbarcato nel porto di Nagasaki, Pierre osserva, ma gli capiterà piuttosto spesso, “l’invasione d’un Giappone mercantile”. Come in un luna park o, peggio, un baraccone da fiera:
[…] des bonshommes et des bonnes femmes entrant en longue file ininterrompue, […] chacun avec une révérence si souriante qu’on n’osait pas se fâcher […] Mais, mon Dieu, que tout ce monde était laid, mesquin, grotesque!(9) (M. C., pp. 50, 51)
Questo fiume in piena di personcine fragili, ma sicure, si ripete ancora nella descrizione di una piccola legione di operai che invade la Trionphante per lavorare alla sua riparazione. Ognuno di loro, come qualunque altro operaio del mondo, porta con sé il paniere della colazione, ma: “[…] ayant quelque chose de besogneux et de minable, de fureteur et d’empressé qui fait songer à des rats”(10) (M. C., p. 137). Ancora oltre, nel capitolo XXXIV, gli uomini per le strade sono rappresentati con cappelli a bombetta, dentro una lunga tunica. È evidente, che per l’io narrante questo popolo è abbastanza deludente. Ogni giapponese è uguale all’altro. Come scrive Barthes, per un francese nella terra del Sol Levante, il giapponese è: “[…] un essere minuto, con gli occhiali, senza età, abbigliamento compito e incolore, piccolo impiegato di un paese gregario” (R. B., p. 113). Si tratta, in altri termini, di corpi ripetuti all’infinito. Ecco, un altro vuoto, un altro centro indifferente (per un occidentale come Loti) del Giappone. La bellezza è da intendere come: “[…] un accidente, un’eccezione dell’insulsaggine, uno scarto nella ripetizione” (R. B., p. 112). Queste parole fanno eco alla descrizione che Pierre dà della sua musmé, ma anche e soprattutto di Jasmin – la prima musmé presentata a Pierre e rifiutata perché troppo giovane – i cui visi sono abbastanza speciali:
On ne trouve guère que dans classe noble ces personnes à grand visage pâle peint en rose tender, ayant un long cou bête et un air de cigogne. Ce type distinguée (qu’avait mademoiselle Jasmin, je le reconnais) est rare, surtout à Nagasaki.(11) (M. C., p. 81)
Pierre Loti intuisce che i giapponesi formano un corpo generale, non globale, in cui ciascuno si riferisce a una classe, che pur tuttavia sfugge, senza disordine, verso un ordine interminabile. Quel che il narratore non riesce a cogliere è che questa individualità: “[…] è depurata di ogni isteria, non cerca di fare dell’individuo un corpo originale, distinto dagli altri corpi, vinto da questa febbre promozionale che investe tutto l’Occidente” (R. B., 117).
C’è anche un altro personaggio che si presenta agli occhi curiosi, indagatori, di Loti come diverso, addirittura bello. È “415” un dgin, o dginriscisan: “[…] cela veut dire des hommes-coureurs traînant de petits chars et voiturant des particuliers pour l’argent; […]”(12) (M. C., p. 56). In particolar modo, “415” , che è un cugino di Crisantemo, è “abbastanza bello”, un giovane sui trent’anni, dall’aspetto vivace, vigoroso, atletico, dallo sguardo aperto. In lui, Pierre ammira l’agilità e la forza fisica. Tra di loro nasce una piccola amicizia – se così si può affermare – anche perché, in chiave narrativa, “415” è il suo aiutante. Lo conduce ovunque è necessario, è sempre presente al momento del bisogno. Alla fine della storia, siamo nel capitolo LIII, sarà l’unico giapponese cui l’eroe stringe la mano: “Pauvre cousin 415, j’avais bien raion de l’avoir en estime: il est le meilleur et le plus désintéressé de ma famille japonaise”(13) (M. C., p. 229).
Le donne giapponesi – capita di leggere più volte nell’arco del testo – si presentano in pubblico “truccate” (diremmo, erroneamente e frettolosamente, all’occidentale). In particolar modo, per fare un esempio concreto, l’io narrante descrive al suo lettore una danzatrice. Siamo nel capitolo terzo, nel Giardino dei fiori, il protagonista, in compagnia di Yves, aspetta l’arrivo del signor Kangourou:
Drôlement peinte, blanche comme du plâtre, avec un petit rond rose bien régulier au milieu de claque joue; la bouche carminée et un peu de dorure soulignant la lèvre inférieure. Comme on n’a pas pu blanchir la nuque, à cause des cheveux follets qui sont nombreux, on a, par amour de la correctitude, arrêté là le plâtrage blanc en une ligne droite que l’on dirait coupée au couteau; il en résulte, derrière son cou, un carré de peau naturelle, qui est très jaune…(14) (M. C., p. 65)
Si tratta di una geisha, né più né meno che un’opera d’arte vivente, che si muove, aggraziata e fragile, ma al tempo stesso sensuale: «“Già nei due ideogrammi (o kanji) che compongono la parola “geisha” sta racchiusa l’essenza di questa figura: uno significa “arte”, l’altro “persona”»(15). La descrizione non poteva essere più minuziosa, particolareggiata. Quel che non spiega il narratore è che il bianco del viso sembra avere la funzione, non tanto di snaturare la carnagione, o di farne una caricatura,
[…] ma soltanto quella di cancellare la traccia anteriore dei lineamenti, di ridurre la faccia alla distesa vuota d’una stoffa opaca, che nessuna sostanza naturale (farina, biacca, gesso o seta) riesce metaforicamente ad animare di un neo, d’un fremito di dolcezza o d’un riflesso. La faccia è soltanto la cosa da scrivere […]. (R. B., pp. 105-106)
Prima che le trattative abbiano inizio, ci sono le presentazioni delle parti in causa. Da una, Pierre e Yves, dall’altra il signor Kangourou, Jasmin e tutto il loro seguito. Il cerimoniale di presentazione è davvero complesso. Una serie di saluti, inchini e quanto altro. Una ripetizione inutile, snervante, banale per i due francesi. Qualcosa di indispensabile, ritualizzato, fissato nel tempo della memoria per i giapponesi:
[…] questa cortesia – spiega Roland Barthes – è una sorta di esercizio del vuoto (come ci si può attendere da un codice forte, ma che non significa “nulla”) al cospetto dell’altro (le braccia, le ginocchia, la testa rimangono sempre in una posizione stabilita) secondo una gerarchia di profondità sottilmente codificata. La forma è vuota, sostiene e ripete un motto buddista. (R. B., pp. 77-78)
Non è finita qui. In questa scena significativa per meglio comprendere – o approcciare – l’universo giapponese, la lingua, la comunicazione verbale, non esaurisce la sfera della trasmissione di idee (l’impero dei significanti, secondo Barthes): “[…] è tutto il corpo (gli occhi, il sorriso, il ciuffo, il gesto, l’abbigliamento) che intrattiene con noi una sorta di parlottio a cui il perfetto dominio dei codici toglie ogni carattere regressivo, infantile” (R. B., p. 15). Ed è questa una riflessione colta da Loti, quando descrive, presenta al lettore, il signor Kangourou. La scena ha del teatrale e non a caso:
Entrée de M. Kangourou. Complet en drap gris, de la Belle-Jardinière ou du Pont-Neuf, chapeau melon, gants de filoselle blancs. Figure à la fois ruse et niaise; Presque pas de nez, Presque pas d’yeux. Révérence à la japonaise: plongeon brusque, les mains posées à plat sur les genoux, le torse faisant angle droit avec les jambs comme si le bonhomme se cassait; petit sifflement de reptile (que l’on produit en aspirant la salive entre les dents et qui est le dernier mot de la politesse obséquieuse dans cet empire).(16) (M. C., p. 65)
Il signor Kangourou è ulteriormente caratterizzato come: un “interprete, lavandaio e agente discreto per incroci di razze” (capitolo III), un “mezzano di bassa sfera” (capitolo IV), e nuovamente come un “agente matrimoniale” (capitolo VIII). Quel che a noi interessa, qui, mettere in evidenza è che egli è caratterizzato anche come un “burattino a manovella” (capitolo III). A prima lettura, questa originale caratterizzazione del personaggio – il donatore, ricordiamo – sembra una gratuità, una forma d’ironia, un aspetto dell’esotico di Loti, ma c’è di più. Il signor Kangourou è caratterizzato come una bambola – una marionetta, appunto – del Bunraku (sta anche in questo aspetto non dichiarato la sua presentazione teatralizzata?). Si tratta di una forma-recita(17), accompagnata dal tocco dello samisen, che pratica tre livelli di espressione (“scrittura”, suggerisce Barthes) coordinati tra loro:
Il Bunraku pratica dunque tre scritture separate, che offre da leggere simultaneamente, in tre luoghi dello spettacolo: la marionetta; colui che la manipola e colui che la parla: il gesto effettuato, il gesto effettivo, il gesto vocale. […] Il Bunraku offre alla voce un contrappeso, o meglio un contrappunto, quello del gesto. Il gesto è doppio: gesto emotivo a livello della marionetta […] gesto transitivo a livello dei manipolatori. Nella nostra arte teatrale, l’attore finge di agire ma i suoi atti non sono mai altro che gesti: sulla scena null’altro che teatro e pertanto del teatro vergognoso. Il Bunraku, al contrario (è la sua definizione) separa l’atto dal gesto: mostra il gesto, lascia vedere l’atto, mette in scena ad un tempo l’arte e il lavoro, riserva a ciascuno d’essi la propria scrittura. (R. B., p. 60)
Concluso l’affare matrimoniale, Pierre e Kikou-San prendono alloggio nella casa dei signori Zucchero e Pruno. Più volte, l’io narrante si sofferma a descriverla. È un ritornarvi per scoprire sempre qualcosa di nuovo, di diverso, di strano. Pierre racconta di pareti di carta, ambienti vuoti, minimi, essenziali. Nulla scalfisce la sua superficie, che per questa via si può ri-scrivere di continuo. Gli stessi ambienti esterni, ben rappresentati dal narratore, contribuiscono a disegnare uno spazio di totale continuità. La casa non è contenuta dalle pareti, sottili e discrete; e la natura, rigogliosa, triste o festante, diventa un continuum spaziale. Nel suo studio, Barthes ha preso in esame anche quest’altro aspetto dell’universo giapponese. Leggiamo:
Per esempio: la stanza conserva dei limiti scritti, cioè le stuoie al suolo, le finestre piatte, le pareti tappezzate di bambù (immagine pura della superficie), in cui non si distinguono le porte scorrevoli: tutto qui è tratto, come se la camera fosse scritta da un sol tocco di pennello. Tuttavia, ad una seconda impressione, questo rigore è a sua volta eluso: le pareti sono fragili, frangibili, i muri scivolano, i mobili sono ribaltati di modo che nella camera giapponese si ritrova quella “fantasia” (d’arredamento) grazie alla quale ogni giapponese elude – senza darsi la pena o la recita di sovvertirlo – il conformismo di questa cornice. (R. B., p. 52)
I padroni di casa, i signori Zucchero e Pruno, sono presentati, siamo nel capitolo XIV, come “due figurine impareggiabili scappate da un paravento”. Col passare dei giorni, siamo nel capitolo XXXIII, entrato in confidenza, Pierre scopre che, a casa propria, la signora Pruno intratteneva dei signori, mentre il marito coordinava il tutto. Essi hanno una figlia, Oyuki: “Toute ronde de faille, toute ronde de figure. Moitié bébé, moitié jeune fille. Et de si bonne amitié […]”(18) (M. C., p. 102). La signora Pruno è caratterizzata direttamente:
Madame Prune, empressée, obséquieuse, rapace, les sourcils rigoureusement rasés, les dents soigneusement laquées de noir, ainsi qu’il convient à une dame comme faut. A toute heure, apparaissant à quatre pattes à l’entrée de notre logis, pour nous offrir quelque service.(19) (M. C., p. 101)
Il signor Zucchero, anch’egli è caratterizzato direttamente:
M. Sucre, silencieux, peu visiteur, desséché comme une momie dans sa robe de coton bleu. Écrivant beaucoup (ses mémoires, je pense) avec un pinceau tenu du bout des doigts, sur de longues bandes de papier de riz légèrement teintées de grisâtre.(20) (M. C., p. 101)
In questo segmento del romanzo, nel caratterizzare il personaggio, il narratore mette in evidenza un aspetto del tutto significativo della cultura e tradizione del Giappone, (poi ripreso nel capitolo XXXVII): la scrittura. Per lo studioso di Cherbourg la “cancelleria” francese è: “[…] da contabili, da scrivani, di commercio; il suo prodotto esemplare resta la minuta, la bella copia giuridica e calligrafica; […]” (R. B., p. 100). A sua volta, quella giapponese:
[…] ha per oggetto questa scrittura ideografica che sembra derivare, ai nostri occhi, dalla pittura, mentre invece molto più semplicemente, essa la fonda (è molto importante che l’arte abbia un’origine scritturale e non assolutamente espressiva). Questa cancelleria giapponese inventa tante forme e generi per le due materie prime della scrittura (cioè la superficie e lo strumento che traccia) […] dal momento che il tratto esclude la cancellatura e la correzione (perché il carattere è tracciato di getto), non esiste nessuna invenzione della gomma o dei suoi sostituti […]. (R. B., pp. 100-101)
In questa scrittura, ogni cosa – suggerisce Barthes – nell’organizzazione degli strumenti, è volta: “[…] verso il paradosso d’una scrittura irreversibile e fragile, che è ad un tempo, contraddittoriamente, incisione e scivolamento […]” (R. B., pp. 100-101). La carta, nella sua grana, lascia indovinare la propria origine d’erba. Il pennello – come quello usato dal signor Zucchero – passato su una pietra da inchiostro leggermente umida, ha i suoi gesti, come se si trattasse di un dito: “[…] può scivolare, torcersi, sollevarsi mentre la traccia si completa, per così dire, nel volume dell’aria: esso ha la fragilità di carne, lubrificata, della mano” (R. B., p. 104).
Nel comprendere e quindi rappresentare il suo Giappone, l’io narrante si sofferma ad analizzare i cibi che Kikou-San consuma durante l’arco di tutta la giornata. Come sappiamo, Pierre rimane sorpreso da quei piatti: “I pasti di Crisantemo sono qualche cosa d’inverosimile”, afferma. Come dargli torto. Molti di noi, nel trovarsi sotto gli occhi un piatto di sushi o una tempura, hanno un attimo di smarrimento, per così dire. Ma la sua crudità, la sua lavorazione, sono i segni della “divinità tutelare della cucina giapponese” (R. B., p. 26). Da noi la vivanda è pudicamente allontanata nel tempo e nello spazio, in quanto è cucinata, lavorata, in uno spazio separato, lontano dallo sguardo di chi la deve consumare. In Giappone, il cibo è poco cucinato, a volte è crudo, gli alimenti giungono naturali sulla tavola dei commensali. Il cibo è preparato, composto, non ri-elaborato. Anche il bastoncino, che si usa nelle tavole raffinate o ai ristoranti (almeno dalle nostre parti), ha una funzione indicatrice: “[…] esso mostra il cibo, disegna il frammento” (R. B., p. 29). Insomma, come suggerisce Roland Barthes, le due cucine, occidentale e orientale, indicano un’idea dell’arte culinaria del tutto differente:
Il cibo occidentale, accumulato, reso degno, gonfiato sino alla maestosità, legato sempre a qualche operazione di prestigio, tende spesso verso il grosso, il grande, l’abbondante, il prosperoso. L’orientale segue invece il movimento inverso, si dispiega fin verso l’infinitesimale: il futuro del cetriolo non è il suo ammassamento o il suo addensarsi, ma la sua divisione, il suo sottile smembramento […]. (R. B., p. 21)
Per concludere questo saggio, è d’obbligo una riflessione sulla città. Nel suo romanzo, Pierre Loti la descrive sotto molti punti di vista: le montagne, la rada, le strade, le case, i giardini, i templi, i cimiteri. Nagasaki è passata al setaccio. Lo sguardo dell’io narrante è concentrato su ogni dettaglio. Le sue riflessioni sono spesso di stupore, a volte di ammirazione, altre di sconcerto. Beh, anche in questa circostanza, le reazioni del protagonista sono ben comprensibili. Le città dell’Occidente sono tutt’altra cosa rispetto a quelle del Sol Levante:
Per molteplici ragioni (storiche, economiche, religiose, militari) l’Occidente ha fin troppo ben compreso questa legge: tutte le sue città sono concentriche; ma, conformemente al movimento stesso della metafisica occidentale, per la quale ogni centro è la sede della verità, il centro delle nostre città è sempre pieno: luogo contrassegnato, è lì che si raccolgono e si condensano i valori della civiltà […]. (R. B., p. 39)
A sua volta, la città giapponese (Barthes scrive di Tokyo): “[…] presenta questo paradosso prezioso: essa possiede sì un centro, ma questo centro è vuoto”. Tutta la città ruota intorno a un luogo, insieme interdetto e indifferente, è: “[…] dimora mascherata dalla vegetazione, difesa da fossati d’acqua […]” (R. B., pp. 41-42).
(1) Pseudonimo di Julien Viaud, nacque a Rochefort-sur.mer nel 1850. L’amore per i viaggi e il volere emulare il fratello Gustave, morto prematuramente, lo spinsero a girare il mondo come ufficiale della marina francese. Numerosi di questi viaggi fornirono l’ispirazione e la materia per la stesura di circa 40 libri, tra i quali ricordiamo: Aziyadé, Rarahu e Pescatori d’Islanda – considerato il suo capolavoro. In virtù del successo conseguito in vita, nel 1891 fu ammesso all’Académie Française. Morì a Hendaye nel 1923.
(2) «Agli occhi del signor Loti, il Giappone è strano – in Madame Chrysanthème noi abbiamo contato questo aggettivo trentatre volte; “bizzarro” ventidue volte, “buffo” diciotto volte, incredibile, indicibile, inimmaginabile, inverosimile, impagabile, e soprattutto incomprensibile».
(3) «[…] i ritorni avevano permesso di svuotare questo vuoto che era largamente quello dell’incomprensione».
(4) «Il confronto tra l’immagine e la realtà, tale è la posta in gioco di questo scalo e di questo libro. L’Europa, da una buona ventina d’anni si è messa alla moda giapponese – in particolare dalla partecipazione giapponese all’esposizione universale di Parigi del 1867», Vercier B., “Préface”, in Loti P., Madame Chrysanthème, Flammarion, 1990, p. 8.
(5) Barthes R., L’impero dei segni, Einaudi, Piccola biblioteca, Torino, 1984, p. 5.
(6) «E noi ci chiedevamo: dove siamo, veramente? Negli Stati Uniti? In una colonia inglese d’Australia? O nella Nuova Zelanda?»; la trad. è di Decio Cinti, in La signora Crisantemo, Franco Muzio Editore, Padova, 1995, (S. C., p. 8).
(7) Todorov T., Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, Einaudi, Paperbacks, Torino, 1991, p. 363.
(8) «Per narrare fedelmente quelle serate, occorrerebbe un linguaggio più manierato del nostro; occorrerebbe anche un segno grafico inventato espressamente, che si porrebbe a caso fra le parole, e che indicherebbe al lettore il momento di prorompere in una risata, un po’ sforzata, ma tuttavia fresca e graziosa…», (S. C., p. 44).
(9) «[…] uomini e donne che entravano in lunghe file ininterrotte, […] ognuno con riverenza tanto sorridente, che non si osava andare in collera […] Ma, mio Dio, com’era brutta, tutta quella gente, e meschina, e grottesca!», (S. C., p. 7).
(10) «[…] hanno un’aria miserabile, furtiva e frettolosa che fa pensare ai topi», (S. C., p. 70).
(11) «Si trovano solo nella classe nobile, quelle donnine dalla grande faccia pallida dipinta di roseo, con lungo collo stupido e con un fare da cicogna. Quel tipo distinto (che la signorina Gelsomino aveva, lo riconosco) è raro, specialmente a Nagasaki», (S. C., p. 32).
(12) «[…] sono uomini-corridori che tirano dei carrettini su cui portano le persone, per denaro, […]», (S. C., p. 11).
(13) «Povero cugino 415! Avevo ragione a stimarlo molto: è il migliore e il più disinteressato di tutti i membri della mia famiglia giapponese», (S. C., p. 142).
(14) «Curiosamente dipinta, bianca come gesso, con un tondino color di rosa, regolarissimo, in mezzo a ciascuna delle guance. La bocca è rossa di carminio, e un po’ di doratura sottolinea il labbro inferiore. Siccome non s’è potuto imbiancarle la nuca, pei ricciolini corti che la coprono, l’ingessatura s’è fermata lì, per amore dell’esattezza in una riga diritta che par tagliata col coltello. Ne risulta, nella parte posteriore del collo, un quadrato di pelle naturale, che è molto giallo…», (S. C., p. 20).
(15) La definizione è in Sabato G., “Geisha: artista ed incarnazione della grazia”, The Globe, Maggio/Giugno, 2006, p. 86.
(16) «Entra il signor Kanguro. Vestito a giacca, di panno grigio, della Belle-jardinière o del Louvre, cappello duro, tondo, guanti di filaticcio, bianchi. Faccia ad un tempo furba e sciocca; naso e occhi quasi assenti. Riverenza alla giapponese: piegamento brusco, mani aperte sulle ginocchia, dorso ad angolo retto sulle gambe, come se l’ometto si spezzasse; piccolo sibilo di rettile (che si produce aspirando la saliva tra i denti e che è, nel Giappone, la migliore manifestazione della cortesia ossequiosa)», (S. C., p. 20).
(17) Il Bunraku è una forma-spettacolo così presentata da Roland Barthes: «Le bambole di Bunraku sono alte da uno a due metri. Si tratta di piccoli uomini o di piccole donne, con gli arti, le mani e la bocca mobili; ogni bambola è mossa da tre uomini visibili, i quali l’avvolgono, la sostengono, e l’accompagnano: il maestro sostiene la parte superiore della bambola e il suo braccio destro; egli ha il viso scoperto, liscio, chiaro, impassibile, freddo come “una cipolla bianca appena lavata” (Bashō): i due assistenti sono abbigliati in nero, una stoffa nasconde il loro volto: l’uno guantato, ma col pollice scoperto, tiene un grande manico di fili con cui muove il braccio e la mano sinistra della bambola; l’altro, strisciando, sostiene il corpo in vista. Lo scenario sta dietro di loro […]»; in (R. B., p. 56).
(18) «È tutta tonda, nel corpicino, nel viso. Per metà bambina, e per l’altra metà, ragazza. Ed è una buona amica, […]», (S. C., p. 46).
(19) «La signora Pruna, premurosa, ossequiosa, rapace, ha le sopracciglia rigorosamente rase, i denti accuratamente laccati di nero, come si conviene a una signora ammodo. A tutte le ore, compare, carponi, sulla soglia del nostro appartamento per offrirci qualche servizio», (S. C., p. 46).
(20) «Il signor Zucchero, silenzioso, disseccato come una mummia nella sua veste di cotone turchino, fa raramente delle visite. Scrive molto (le sue memorie, suppongo) con un pennello tenuto colla punta delle dita, su lunghe strisce di carta di riso leggermente tinte di grigio», (S. C., p. 46).
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