di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
Se il movimento di riabilitazione della filosofia pratica si può considerare, in senso lato, come un tentativo di (ri)connessione della dimensione etica con quella politica (che nella modernità si sono sempre più palesemente allontanate l’una dall’altra), allora anche la riflessione neocontrattualista può essere collocata all’interno di tale movimento(1).
Ora, il metodo del contrattualismo è stato, in epoca contemporanea, ripensato da Rawls come strumento di giustizia sociale che, a sua volta, viene dal pensatore statunitense considerata come il possibile trait d’union fra la sfera dell’etica e quella della politica(2). Queste infatti per Rawls, risultano oggi essere distanti e non comunicanti, non solo a causa dell’influenza di autori che ne hanno esplicitamente teorizzato la separazione (primo fra tutti, Machiavelli), ma anche, e soprattutto, a causa del modo in cui si sono affrontati i grandi temi della modernizzazione come, ad esempio, le nuove potenzialità della tecnologia, le scoperte dell’ingegneria genetica, i processi di globalizzazione, la crisi del Welfare State ed il sorgere delle società multietniche: la politica occidentale affronta queste problematiche ignorando il dibattito etico che vi si svolge attorno. In aggiunta a ciò, vi sono determinati indirizzi di pensiero, come quello della filosofia analitica o dell’utilitarismo che, con il loro spinto formalismo e con l’estrema considerazione per le regole procedurali, contribuiscono a perpetuare la separazione tra un’etica pubblica (o politica) ed un’etica privata (o personale); chiaro esempio di tale separazione è la “ragion di Stato”, in nome della quale sono concesse (se non addirittura dovute) azioni considerate invece moralmente riprovevoli, se svolte per fini privati. Insomma, così come la verità deve essere il primo requisito dei sistemi di pensiero, la giustizia lo deve essere per le leggi e le istituzioni che, pertanto, vanno abolite o riformate se si rivelano ingiuste, anche qualora fornissero un certo grado di benessere alla società nel suo complesso. Pertanto, Rawls rifiuta il principio, tipico dell’utilitarismo, secondo il quale il bene della maggioranza rende sacrificabili gli interessi della minoranza.
Dopo essersi allontanato dall’orizzonte filosofico analitico-utilitaristico, Rawls si volge verso il liberalismo ed il marxismo-leninismo, scorgendo in essi una latente affinità: entrambi risultano essere animati dalla volontà di legare l’etica alla politica, recuperando così la dimensione etica dell’agire politico. Tuttavia, liberalismo e marxismo-leninismo hanno assolutizzato, rispettivamente, i valori della libertà individuale e della uguaglianza sociale; in altre parole, il liberalismo accetta alcune forme di ineguaglianza sociale, in nome della libertà, ed il marxismo-leninismo giustifica una certa limitazione della libertà individuale, in nome dell’uguaglianza sociale. Ricercando un’armoniosa conciliazione fra queste posizioni, fra la libertà individuale e l’uguaglianza sociale, Rawls propone, in Una teoria della giustizia, una forma di contratto sociale negoziato a partire da una condizione di originaria “ignoranza sociale”, ovvero, ignorando la posizione che ciascun uomo occupa nella scala sociale. In tal modo, Rawls inaugura un neocontrattualismo che, pur prendendo le mosse dalle teorie classiche del contratto sociale («è mio scopo presentare una teoria della giustizia che generalizza e porta a un più alto livello di astrazione la nota teoria del contratto sociale, quale si trova ad esempio in Locke, Rousseau e Kant»(3)), si distanzia dalle dottrine contrattualistiche, il cui scopo è quello di giustificare razionalmente l’esistenza dello Stato e del suo potere politico, muovendo invece in cerca di un generale modello di società giusta. Quest’ultima è per lui una società definibile come “bene ordinata”, ovvero, una società orientata da una concezione pubblica della giustizia, una società in cui ogni individuo accetti determinati principi di giustizia, con la garanzia che anche gli altri li accettino, ed in cui le istituzioni soddisfino in modo riconosciuto tali principi. Per tendere verso una simile impostazione sociale, egli propone la teoria del cosiddetto “velo d’ignoranza” (veil of ignorance) il quale, mascherando la posizione occupata da ciascun individuo nella scala sociale, ha il compito di escludere la conoscenza di quei fattori contingenti che porrebbero gli uomini in conflitto tra loro, rendendo impossibile qualsiasi accordo sui principi di giustizia; conseguentemente, il velo d’ignoranza porta ogni uomo a privilegiare un’organizzazione sociale che massimizzi i benefici per i meno abbienti, potendo chiunque trovarsi in tale situazione. Per questo, la teoria politica rawlsiana si può definire come una teoria della “giustizia come equità”: la scelta dei principi di giustizia avviene fra persone razionali, poste in una condizione di eguaglianza iniziale.
I principi in base ai quali (una persona) agisce non vanno adottati a causa della sua posizione sociale o delle sue doti naturali, o in funzione del particolare tipo di società in cui vive, o di ciò che gli capita di volere. Agire in base a questi principi significherebbe agire in modo eteronomo. Il velo di ignoranza priva le persone in maniera originaria delle conoscenze che le metterebbero in grado di scegliere principi eteronomi. Le parti giungono insieme alla loro scelta, in quanto persone razionali libere ed eguali, conoscendo solo quelle circostanze che fanno sorgere il bisogno di principi di giustizia(4)
E gli imprescindibili principi di giustizia individuati da Rawls, come fondamento di una società equa, sono i seguenti due: il primo principio afferma che una persona debba disporre del più ampio sistema possibile di libertà, compatibile con una pari libertà degli altri (è questo un principio fondamentale del liberalismo, rintracciabile, difatti, già in un classico del liberalismo stesso: «Il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su un membro di una società civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri»(5)); il secondo sostiene che le disuguaglianze nella distribuzione dei beni sociali principali, come ad esempio le ricchezze economiche e le cariche politiche, sono ammesse solo se producono benefici compensativi per tutti, in particolare per i più svantaggiati della società, le disuguaglianze, così, vengono messe al servizio del miglioramento di tutti (tale principio rappresenta, comprensibilmente, una rottura con la tradizione classica del liberalismo). In altri termini,
La società che verrebbe scelta, è quella che consente le diseguaglianze in una misura rigorosamente limitata, e ciò solo in quanto generano benefici per tutti. Le conseguenze politiche di un’impostazione del genere sono, in soldoni, molto chiare: le ineguaglianze di reddito di una società capitalistica possono essere accettabili e non inique solo se, grazie a un robusto intervento redistributivo, contribuiscono a garantire a tutti quei beni sociali fondamentali grazie ai quali gli individui possono costruire i loro progetti di vita(6)
Così, mettendo da parte le propria condizione sociale, si può ottenere, per Rawls, un “consenso per sovrapposizione” (overlapping consensus), inteso come il raggiungimento di posizioni comuni sulle grandi questioni concernenti i diritti e le libertà degli individui. Il «consenso per intersezione di dottrine comprensive ragionevoli»(7) rappresenta quindi lo strumento in grado di superare le differenze presenti tra dottrine morali inconciliabili fra loro, grazie all’accordo sulle questioni politiche fondamentali: la rawlsiana società bene ordinata è al contempo moralmente eterogenea e politicamente omogenea, in altri termini, non si basa su una comune visione della morale bensì della giustizia applicata alla politica, infatti «le dottrine ragionevoli fanno propria, ciascuna dal suo punto di vista, la concezione politica»(8).
Ora, a mio parere, le teorie politiche di Rawls rappresentano il più grande progetto di “revisione” del liberalismo e, forse proprio per questo, contengono alcuni passaggi necessitanti di ulteriori chiarimenti(9). Innanzi tutto, Rawls sembra ritenere che la condizione sociale cui si appartiene sia il più importante fattore (se non addirittura l’unico) nella determinazione della forma mentis e della “visione del mondo” di una persona, al punto tale che mascherando le differenze sociali si risolverebbero i diversi punti di vista in un’unica visione della società; tale teoria, quindi, non considera il fatto che anche fattori immateriali (come le idee ed i concetti) possano concorrere alla determinazione della mentalità di una persona. In secondo luogo, la giustizia sociale è data come esito del consenso per intersezione (termine che indica la sovrapposizione delle diversità, ma non una loro interazione che implichi un vicendevole “inquinamento”, un reciproco influenzamento), il quale è reso possibile dalla presenza del velo d’ignoranza. In tal caso però, al disvelamento delle varie posizioni sociali dovrebbe corrispondere il riaccendersi della conflittualità sociale che rimetterebbe in discussione i risultati precedentemente conseguiti: il consenso raggiunto grazie al velo d’ignoranza è mantenibile solo mantenendo il velo stesso. Inoltre, con la teoria del velo d’ignoranza Rawls vuole esprimere l’esigenza che i principi di giustizia vengano scelti indipendentemente dalla condizione sociale di appartenenza, tuttavia, tale teoria implica il fatto che le persone scelgano e stabiliscano determinati principi di giustizia, solo in quanto potrebbero tornargli utili in prima persona; così facendo, Rawls sostituisce all’eteronomia effettiva, l’eteronomia potenziale: le persone non compiono determinate scelte di giustizia in base alla loro presente posizione sociale, bensì in base a quella che potrebbe essere la loro futura collocazione sociale; ma i principi di giustizia non dovrebbero essere elaborati indipendentemente dalla propria condizione sociale sia effettiva che potenziale (fermi restando gli inevitabili condizionamenti delle contingenze), ovvero solo in quanto ritenuti corretti in loro stessi?
Ad ogni modo,
Rawls torna a indicare una strada lungo la quale credevamo di esserci smarriti. Quella che ci obbliga a pensare giustizia e libertà come due concetti che o stanno insieme o cadono. E quindi a ripensare il nesso anche più profondo che lega etica e politica(10)
Le teorie politiche neocontrattualiste hanno quindi introdotto nel dibattito occidentale un nuovo paradigma di giustizia sociale, riossigenando così il discorso culturale sulle questioni socio-politiche, proponendo una teoria sociale posta a metà strada, e pertanto alternativa, rispetto ai due grandi movimenti contemporanei del liberalismo e del comunitarismo.
1) Per un’introduzione all’argomento cfr. F. Zanuso, A proposito di neoutilitarismo e neocontrattualismo, in G. Piaia (cura), Etica e politica: la prassi e i valori, Gregoriana, Padova 1990, P. Comenducci, Contrattualismo, utilitarismo, garanzie, Giappichelli, Torino 1991, A. Cardonaro – C. Catarsi, Contrattualismo e scienze sociali: storia e attualità di un paradigma politico, FrancoAngeli, Milano 1992, e A. Burgio, Per un lessico critico del contrattualismo moderno, La scuola di Pitagora, Napoli 2006.
2) Cfr. E. Griffo, Il pensiero politico di John Rawls nel liberalismo contemporaneo, Zaccaria & C., Napoli 1999, e A. Punzi (cura), Omaggio a John Rawls (1921 - 2002): giustiza, diritto, ordine internazionale, Giuffrè, Milano 2004.
3) J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 2004, p. 27. Per comprendere la teoria rawlsiana della giustizia sarà utile considerare come, per il filosofo statunitense, la giustizia debba «in primo luogo essere considerata come uno standard rispetto al quale vengono valutati gli aspetti distributivi della struttura fondamentale della società», Ibidem, p. 26, corsivo mio; tale prospettiva, considerante i processi (re)distributivi come vie d’accesso privilegiate alla giustizia, viene criticata da chi ritiene che la stessa giustizia non sia primariamente una questione (re)distributiva, ma relazionale: inerente ai rapporti sociali che consentono o limitano l’azione, cfr. I. M. Young, Le politiche della differenza, Feltrinelli, Milano 1996.
4) J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 216, parentesi mia, cfr. anche, dello stesso autore, Giustizia come equità, Feltrinelli, Milano 2006, su questo aspetto del pensiero rawlsiano, C. Ruscitti, La teoria della giustizia di John Rawls, Tracce, Pescara 2005, e più in generale sull’argomento, S. Maffettone – S. Veca, L’idea di giustizia da Platone a Rawls, Laterza, Roma 2004.
5) J. S. Mill, Saggio sulla libertà, il Saggiatore, Milano 1981, p. 32.
6) S. Petrucciani, La giustizia per contratto, in «Il Manifesto», 27/11/02.
7) J. Rawls, Liberalismo politico, Comunità, Milano 1999, p. 123.
8) Ivi; sulla funzione pubblica dell’overlapping consensus cfr. L’idea di consenso per intersezione, in Ibidem, e V. Iorio, Istituzioni pubbliche e consenso in John Rawls, Ed. scientifiche italiane, Napoli 1995.
9) Cfr., il commento alle teorie politiche rawlsiane di J. Habermas, Reconciliations throght the Public Use of Reason: Remarks on John Rawls’s Political Liberalism, in «Journal of Philosophy», n. 92, 1995.
10) S. Givone, Addio a Rawls, coniugò libertà e giustizia, in «Il Messaggero», 27/11/02.
(«l'EstroVerso», n. 6, 2009, in forma ridotta)
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