di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
(Si pubblica di seguito un estratto del libro di Giorgio Agamben, Idea della prosa, Quodlibet, 2002, nuova edizione illuminata e accresciuta, 2020;
nello specifico, la parte intitolata "Soglia", pp. 11-16 – per la quale, proprio per amor di prosa, si immagina il seguente sottotitolo, "La grandezza del pensiero non risiede nel pensato, ma nella pensosità".)(Si pubblica di seguito un estratto del libro di Giorgio Agamben, Idea della prosa, Quodlibet, 2002, nuova edizione illuminata e accresciuta, 2020;
Nell’anno 529 della nostra era, l’imperatore Giustiniano, istigato da fanatici consiglieri del partito antiellenico, decretò con un editto la chiusura della scuola filosofica di Atene.
Toccò così a Damascio, scolarca in carica, di essere l’ultimo diadoco della filosofia pagana. Egli aveva cercato, attraverso funzionari di corte che gli avevano promesso la loro benevolenza, di scongiurare quell’evento; ma aveva ottenuto soltanto che gli venisse offerto, in cambio della confisca dei beni e delle rendite della scuola, uno stipendio di sovrintendente in una biblioteca di provincia. Ora, temendo probabili persecuzioni, lo scolarca e sei dei suoi collaboratori più stretti caricarono libri e masserizie su un carro e cercarono rifugio alla corte del re dei persiani, Khusraw Anōshakrawān. I barbari avrebbero salvato quella purissima tradizione ellenica che i greci – o, piuttosto, i «romani», come ora si chiamavano – non erano più degni di custodire.
Il diadoco non era più giovane, erano lontani i tempi in cui aveva creduto di potersi occupare di storie meravigliose e di apparizioni di anime; a Ctesifonte, dopo i primi mesi di vita cortigiana, lasciò ai suoi allievi Prisciano e Simplicio il compito di soddisfare, con commenti e edizioni critiche, la curiosità filosofica del sovrano. Chiuso nella sua casa nella parte settentrionale della città, in compagnia di uno scriba greco e di una domestica siriana, egli decise di consacrare gli ultimi anni della sua vita alla redazione di un’opera che avrebbe intitolato: Aporie e soluzioni intorno ai principi primi.
Sapeva perfettamente che la questione che intendeva affrontare non era una questione filosofica fra le altre. Non aveva scritto Platone stesso, in una lettera che perfino i cristiani consideravano importante (in verità senza comprenderla), che proprio la domanda intorno al Primo è la causa di tutti i mali? Ma, aveva aggiunto, la pena che quella domanda causa nell’anima è come la doglia del parto, e finché non si sgrava, l’anima non potrà mai trovare la verità. Per questo, senza esitare, già nel sigillo dell’opera il vecchio diadoco formulò con chiarezza il proprio tema: «Quel che chiamiamo principio unico e supremo del Tutto è al di là del Tutto, oppure è una certa parte determinata del Tutto, per esempio il culmine delle cose che da esso procedono? Dobbiamo dire, inoltre, che il Tutto è con il principio, o che è dopo di esso e procedente da esso? Poiché, se si ammette questa alternativa, ci sarà allora qualcosa che è fuori del Tutto, e come sarebbe possibile? Ciò a cui nulla manca è, infatti, il Tutto assoluto; ma il principio manca, dunque ciò che è dopo il principio e fuori di esso non è il Tutto assoluto».
È tradizione che Damascio lavorasse alla sua opera per trecento giorni e per altrettante notti, cioè esattamente per tutta la durata del suo esilio a Ctesifonte. A volte s’interrompeva per giorni e settimane e, in quei momenti, gli appariva come attraverso una nebbia la vanità della sua impresa. Il testo che leggiamo è costellato di frasi come «malgrado le lungaggini del nostro svolgimento, non abbiamo, mi pare, concluso a nulla» oppure «di ciò che abbiamo appena scritto, avvenga quel che a Dio piace!» o anche «della mia esposizione, c’è solo questo da lodare: che essa si condanna da sé, riconoscendo di non veder chiaro, di essere impotente a guardare la luce». Ma poi riprendeva immancabilmente il lavoro, fino al prossimo arresto, fino all’inevitabile nuova crisi. Perché come può il pensiero porre la domanda intorno al principio del pensiero? Come si può, in altre parole, comprendere l’incomprensibile? È chiaro che ciò che qui è in questione non può essere tematizzato nemmeno come incomprensibile, non può essere espresso nemmeno come inesprimibile. «È talmente inconoscibile che non ha nemmeno per natura l’inconoscibile, e non è dicendolo inconoscibile che possiamo illuderci di conoscerlo, perché noi non conosciamo nemmeno se è inconoscibile». Per questo l’allievo di Siriano, che era stato anche il maestro del suo primo maestro Marino e che molti consideravano insuperabile, aveva scritto una volta che, dal momento che non ha nome, noi possiamo pensarlo attraverso lo spirito aspro che poniamo sulla vocale del termine ἕν. Ma era – evidentemente – una sottigliezza indegna di un filosofo, al limite della ciarlataneria. Non in questo modo, con un segno illeggibile o con un fiato, egli avrebbe esposto, nelle sue Aporie, l’impensabile che è al di là del fiato e dello spirito scrivibile. Fu così che una notte, mentre scriveva, gli sgorgò a un tratto nella mente l’immagine che – così gli pareva – l’avrebbe guidato fino alla fine dell’opera. Non era, però, un’immagine, ma qualcosa come il luogo perfettamente vuoto nel quale soltanto immagine, fiato, parola potevano, eventualmente, avvenire; non era, anzi, nemmeno un luogo, ma, per così dire, il sito del luogo, una superficie, un’area assolutamente liscia e piana, in cui nessun punto poteva essere distinto da un altro. Pensò all’aia di pietra bianca nella fattoria dov’era nato, alle porte di Damasco, e dove a sera i contadini battevano il grano per separarlo dalla pula. Non era quel che cercava proprio come l’aia, essa stessa impensabile e indicibile, su cui i ventilabri del pensiero e del linguaggio sceveravano il seme e la paglia di ogni essere?
Quell’immagine gli piaceva e, seguendola, si trovò sulle labbra una parola mai udita, che univa il termine che significa aia o area a quello con cui gli astronomi indicano la superficie della luna o del sole: ἅλων. No, non era una cattiva soluzione per quel che voleva dire. Doveva attenersi a essa e non aggiungervi altro. «È certo», scrisse, «che dell’assolutamente ineffabile non possiamo nemmeno affermare che è ineffabile e, dell’Uno, dobbiamo dire che si sottrae a ogni composizione di nome e discorso, come anche a ogni distinzione, qual è quella del conoscibile e del conoscente. Bisogna concepirlo come una specie di alone piano e liscio, in cui nessun punto si lascia distinguere dall’altro, come la cosa più semplice e più comprensiva, non soltanto uno, ma tutto-uno, e uno davanti a tutto, non uno di un tutto…».
Damascio alzò per un istante la mano e guardò la tavoletta su cui andava corsivamente annotando i suoi pensieri. Improvvisamente si ricordò del passo del libro sull’anima dove il filosofo paragona l’intelletto in potenza a una tavoletta su cui non è scritto nulla. Come non averci pensato prima? Era questo che giorno dopo giorno aveva inutilmente cercato di afferrare, era questo che senza sosta aveva inseguito al breve lampo di quell’alone indiscernibile, accecante. Il limite ultimo che il pensiero può raggiungere non è un essere, non è un luogo o una cosa, per quanto sgombra di ogni qualità, ma la propria assoluta potenza, la pura potenza della rappresentazione stessa: la tavoletta per scrivere! Quel che aveva finora creduto di pensare come l’Uno, come l’assolutamente Altro del pensiero era, invece, soltanto la materia, soltanto la potenza del pensiero. E tutto il lungo volume, che la mano dello scriba aveva gremito di caratteri, non era che il tentativo di rappresentare quella tavola perfettamente rasa, su cui nulla è stato ancora scritto. Per questo non riusciva a portare a compimento la sua opera: ciò che non poteva cessare di scriversi era l’immagine di ciò che mai cessava di non scriversi. Nell’uno si specchiava l’altro, inafferrabile. Ma tutto era finalmente chiaro: poteva, ora, spezzare la tavoletta, cessare di scrivere. O, piuttosto, cominciare veramente. Credeva ora di comprendere il senso della massima secondo cui conoscendo la sua inconoscibilità, non conosciamo qualcosa di lui, ma qualcosa di noi. Ciò che non può mai essere primo gli lasciava avvenire, dileguando, il barlume di un inizio.
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