lunedì 16 dicembre 2019

Cosa può dirci oggi Heidegger?

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it) e Michele Ragno (micheleragnoph@gmail.com)

Il panorama filosofico odierno spesso si divide tra accaniti "heideggeriani" e affrettati critici del filosofo di Meßkirch. Heidegger ha ancora oggi molto da dirci, ma tocca a noi recepire il messaggio con la stessa attenzione critica-filosofica a cui lui ha sempre richiamato. 

Federico Sollazzo ad oggi insegna Continental Philosophy presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Szeged (Ungheria). Cofondatore, con Mária Kovács, di “Krinò” Workshop of Thinking, prima seminario presso la suddetta università, dal 2018 centro culturale indipendente. Recentemente ha curato la riedizione di due fondamentali testi del pensiero heideggeriano: La questione della tecnica e Che cos’è la metafisica?, entrambi presso l’editore goWare.


MR: Caro Federico, mi piacerebbe partire proprio da queste ultime riedizioni. La questione della tecnica è forse il testo heideggeriano più pregnante per il nostro tempo. Se l’Heidegger degli Schwarze Hefte sembra essere ancora un pensatore tecnofobo, con la Lettera sull’“umanismo” e La questione della tecnica il pensiero sulla tecnica matura: non si tratta di avere a che fare con l’opposizione, come tu ben dici, tra tecnofobia e tecnofilia, ma di superarla e comprendere l’essenza stessa della tecnica come qualcosa di non tecnico: come Ge-stell, come una “postura” dell’uomo. Qual è dunque il rapporto dell’uomo con la tecnica?

FS: «Il pericolo non è la tecnica. Non c’è nulla di demoniaco nella tecnica; c’è bensì il mistero della sua essenza», scrive Heidegger a chiare lettere ne La questione della tecnica, aggiungendo: «L’essenza della tecnica, in quanto è un destino del disvelamento, è il pericolo. Il senso modificato della parola Ge-stell, im-posizione, ci risulta forse già un po’ meno strano, ora che pensiamo l’im-posizione nel senso di destino e di pericolo (Geschick und Gefahr)». Già queste poche righe dovrebbero essere sufficienti per afferrare due fondamentali circostanze: che non ci troviamo al cospetto di un pensatore tecnofobo, né antimodernista, essendo la sua critica della modernità nient’altro che un derivato di quella della tecnica; che non ci troviamo di fronte ad un discorso che assume la tecnica come un mezzo neutrale a disposizione dell’uomo (quelle che Heidegger chiama la concezione “strumentale” e quella “antropologica” della tecnica), bensì ad un tentativo di farne emergere l’essenza, da cui deriva poi il modo in cui l’intendiamo e ciò che ne facciamo e lasciamo che faccia.
Abbiamo quindi a che fare non con una critica alla tecnica, ma con una critica della tecnica, nel senso autenticamente filosofico della parola critica: distinguere, giudicare. Qui mi viene in mente una frase di Sergiu Celibidache, che in un’intervista dice: «Tutto ciò che può nascere è al di là del pensiero». Infatti, l’essenza di un qualcosa coincide con l’origine di quel qualcosa e per comprenderla è necessario andare al di là di quel qualcosa. L’origine viene sempre prima del fenomeno di cui è origine e non può pertanto essere compresa con le categorie che spiegano quel fenomeno; come dire che l’essenza di un fenomeno non è comprensibile attraverso quel fenomeno stesso. Per questo scrive che «la tecnica non si identifica con l’essenza della tecnica» e che «l’essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecnico». È infatti per lui un qualcosa di ontologico, che non riguarda semplicisticamente il fare tecnico bensì, come dici nella tua domanda, il rapporto dell’uomo con la tecnica.
Tema fondamentale perché, come è noto, tecnica, arte e linguaggio sono, per Heidegger, vie di accesso all’Essere (Sein), ovvero sono pòiesis. Ed ecco allora che il rapporto che abbiamo con la tecnica indica il tipo di incontro che abbiamo con l’Essere (che poi scriverà come Seyn, per distanziarsi dall’essere della metafisica, che non riesce a superare la contrapposizione dentro/fuori, soggetto/oggetto, essere/ente). Questo è il passaggio concettuale che, a seguito di quella dinamica da lui descritta come «oblio dell’Essere», è andato dimenticato nella tecnica moderna. L’antica parola téchne, infatti, descriveva anche ciò che oggi chiamiamo “belle arti”, riferendosi a quel momento poietico, disvelante di cui sopra. Ecco perché, a conferma di quanto dicevo all’inizio, con Heidegger non si ha a che fare né con un discorso sui pro e i contro della tecnica (forse in tal caso sarebbe meglio dire, della tecnologia), né con il desiderio di tornare ad una qualche aurea età “paleotecnologica”; si tratta invece di guadagnare un rapporto consapevole con l’Essere (incontro da cui origina la physis, che non è semplicemente la natura, ma è tutto ciò che è, esattamente così come è e non altrimenti), cosa che passa attraverso quelle privilegiate vie poietiche di relazione: tecnica, arte, linguaggio. Così risulta comprensibile una delle ultime, e più ricche, frasi de La questione della tecnica: «Poiché l’essenza della tecnica non è nulla di tecnico, bisogna che la meditazione essenziale sulla tecnica e il confronto decisivo con essa avvengano in un ambito che da un lato è affine all’essenza della tecnica e, dall’altro, ne è tuttavia fondamentalmente distinto. Tale ambito è l’arte». Qui mi permetterei di aggiungere: e il linguaggio. Non a caso Heidegger tiene in grande considerazione Hölderlin. A questo punto permettimi di ricordare una tua bella nota sul silenzio in Wittgenstein ed Heidegger dove riporti questi passaggi heideggeriani: «Persino lì dove giungiamo davanti all’indicibile, esso si dà solo in quanto la significatività del parlare ci porta ai limiti del linguaggio. Anche questo limite è ancora qualcosa di linguistico, e nasconde in sé il rapporto parola-cosa», e «c’è un antico detto cinese che suona: meglio mostrato una volta che detto cento. Per contro, la filosofia è costretta a mostrare attraverso il dire». Ecco, qui a me sembra che si congiungano tutti i punti a cui abbiamo appena accennato. Infatti, il dire a cui Heidegger si riferisce è quello che viene dall’incontro con le cose (è un esito della Verfallenheit, come la tecnica moderna). Il mostrare viene invece dall'incontro con l’Essere. Il silenzio – non mera misura del suono bensì condizione filosofica, cara già al Nietzsche delle Meditazioni inattuali – ci dà la possibilità di incontrare l’Essere – ma senza mai poterci noi porre nella sua prospettiva e meno che mai potendo coincidere con esso, poiché l’uomo, né con il silenzio né in qualsiasi altro modo, può combaciare con l’Essere: questo possono farlo solo gli dèi. E allora qui si tratta di riuscire a creare un «mostrare attraverso il dire», un dire che mostri. Ovvero un dire che non abbia più l’impronta dell’incontro soggetto-oggetto, del «rapporto parola-cosa», ma quella dell’incontro, del rapporto parola-Essere. Solo così il linguaggio è propriamente pòiesis. E, attenzione, questa è la stessa dinamica in atto nella tecnica, dove infatti va separata una tecnica che, come l’arte, è pòiesis (producente/zuhandensein), da una tecnica (ed un linguaggio, ed una pseudoarte) che non lo è perché ha a che fare solo con l’orizzonte delle cose (provocante/vorhandensein).

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