di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
(Si pubblica di seguito un estratto dell'intervista di Marco Pacini a Gianni Vattimo, pubblicata su “L'Espresso” in data 14/06/2018.)
Gianni Vattimo, la solitudine del filosofo
Il teorico del postmoderno non ha eredi. Nella Torino che fu nel ’900 avamposto del pensiero i suoi allievi hanno preso altre strade e il suo archivio è finito a Barcellona: «Qui nessuno me lo ha chiesto»
In via Carlo alberto, all’angolo con la piazza che porta lo stesso nome, la fine della filosofia (di una filosofia) è scolpita nel marmo: «In questa casa Federico Nietzsche conobbe la pienezza dello spirito che tenta l’ignoto...». E annega nella follia mentre completa Ecce homo: Dio è già morto, la Verità anche, a pochi metri da dove Nietzsche conclude la sua parabola abbracciando e parlando a un cavallo. Era il 3 gennaio del 1889, così dice la storia. O la leggenda, ma poco importa. «Su Torino non c’è niente da ridire: è una città magnifica e singolarmente benefica... Torino è una città che non si abbandona», scriveva il filosofo agli amici dalla casa di via Carlo Alberto 6, dove abitava dal 21 settembre dell’anno precedente. Fu costretto ad abbandonarla solo 6 giorni dopo quel 3 gennaio. Destinazione: una clinica psichiatrica a Basilea.
E tutto potrebbe finire così, con questa istantanea da Torino, dove è sepolta la filosofia. Ma fuori dai contorni di questa cartolina scattata sulle tracce dell’Oltreuomo crollato ai piedi di un cavallo – potente metafora della resa di un Pensiero – c’è dell’altro. C’è la resistenza della filosofia «che non finisce di finire». E che ha trovato in Torino un suo avamposto nel Novecento: Abbagnano, Pareyson, Geymonat, Bobbio... per citare solo alcuni grandi nomi.