di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
Nel calcio stanno progressivamente scomparendo i giocatori cosiddetti dai piedi buoni, rimpiazzati da lavoratori che al posto di talento e creatività portano in campo atletismo e rispetto pedissequo degli schemi. Insomma, si sta passando dai giocatori di calcio agli impiegati del calcio; e questo causa anche un ovvio livellamento dei valori in campo.
Ma la tendenza alla soppressione del libero gioco e giocatore, e pensiero e pensatore, e alla sua sostituzione con un funzionario non è all’opera solo nel mondo dello sport, è invece un tratto dominante del tempo di oggi, di questa fase della civilizzazione (latu sensu) occidentale. E sulle “doti” del burocrate ha detto cose sempre valide la Arendt a proposito di Eichmann ne La banalità del male.
Anche nel mondo della cultura è evidente questa tendenza, l’intellettuale sta infatti perdendo le caratteristiche di creatività, originalità e autonomia (salvo poi recuperarle sotto forma di cliché, ma ciò è esattamente una conferma di questa tendenza che sto qui abbozzando) che lo rendevano sempre un po’ emarginato dalla società, sostituendole con il fatto di essere un titolare di funzioni intellettuali, quindi socialmente ben integrato. Insomma, un intellettuale di sistema, se non è questa una contraddizione in termini. Quando Gehlen ne L’uomo nell’era della tecnica ha descritto la figura antropologica del “titolare di funzioni”, aveva in mente il lavoratore che assumeva su di sé i principi di funzionamento della tecnologia moderna, ora il tempo è maturo per estendere questa descrizione anche all’impiegato intellettuale.
En passant, ne La decadenza degli intellettuali Bauman critica il fatto che nel mondo contemporaneo gli intellettuali siano decaduti da promotori di valori condivisi, quindi legislatori, a meri interpreti dell’esistente; fermo restando che non si può promuovere niente senza prima interpretarlo, credo che vada aggiunto che questa decadenza è imputabile, almeno in parte, agli intellettuali stessi, nel momento in cui si interpretano come ermeneuti scientifici di “testi sacri”, anziché come liberi pensatori.
Esemplificando, la tendenza funzionalista che sto qui accennando si può osservare chiaramente nelle università, in particolare nelle Facoltà umanistiche, in particolare nei dipartimenti di filosofia, dove si indugia nell’equivoco dell’indistinzione tra filosofia e quella che propongo di definire come sua archivistica, ovvero storiografia e filologia della filosofia. Ho già avuto modo di esprimere qualche considerazione su questo tema (nell’articolo, diviso in due parti, Se questa è filosofia – qui: http://costruttiva-mente.blogspot.com/2016/03/se-questa-e-filosofia.html – tradotto anche in ungherese, in omaggio all’università dove insegno, Szeged – qui: http://tiszatajonline.hu/?p=97234), ora vorrei approfittare del presente articolo non per proporre una soluzione, servirebbe ben più di un articolo pubblicistico, ma per sgombrare il campo da alcuni equivoci relativi all’indistinzione tra filosofia e sua archivistica che, se non superati, compromettono lo sviluppo del ragionamento.
Innanzitutto, la mia critica all’accademicismo dell’archivistica filosofica non è un incoraggiamento al dilettantismo. Oggi siamo di fronte esattamente a questa polarizzazione tra l’accademia che scientificizza e quindi reifica tutto e tutti e la chiacchiera da spettacolo d’intrattenimento. Ma se ci muoviamo nella polarizzazione tra professionisti e dilettanti, rimaniamo necessariamente incastrati nell’intendere la filosofia come una scienza. Ecco perché quelle estremità (professionismo e dilettantismo) mi appaiono entrambe come inadeguate per accedere alla filosofia. Quello che vorrei dire è infatti che essa non è né una scienza, né un pourparler. E invece sono proprio queste le dimensioni in cui essa è oggi appiattita: scienza, infarcita di metodologia aziendalista (e penso alla fine della filosofia in Heidegger, alla critica dell’università in Derrida e dell’accademicismo in Anders), e intrattenimento (Scuola di Francoforte), spettacolo (Debord).
Inoltre, la distinzione tra un filosofo e uno studioso di filosofia non significa che il primo viva e pensi isolato dal mondo, in una sorta di camera iperbarica; lo studio infatti non è l’unico modo per essere in contatto col mondo, neanche con quello culturale, Pasolini docet, se si ritenesse questo si sarebbe già vittima di un mito accademicistico. Quella distinzione regge invece la possibilità di avere contatti con chi e come si ritiene opportuno ai fini della coltivazione del proprio pensiero. E lo studio è solo una possibilità di contatto con l’alterità e di coltivazione di se stessi (forse anche piuttosto limitata). Ecco perché, quel che fa la differenza tra un pensiero rigoroso e un rigore formalistico o un chiacchiericcio, non è il rispetto della metodologia posta da una qualche comunità scientifica o pop, ma il rigore argomentativo di fronte alla propria coscienza.
Lo spettacolino da intrattenimento è una degradazione della filosofia. L’archivistica filosofica è un depositato della filosofia. Ma nessuna della due cose è filosofia.
Se si chiarisse come nessuno di quei due poli rappresenti la soglia della filosofia, nessuno potrebbe più proteggersi dietro posizioni, titoli o popolarità, ma chiunque volesse provare a fare filosofia dovrebbe mettere in gioco niente di più e niente di meno che il proprio libero pensiero. Cosa, è molto importante notarlo, che anche un analfabeta potrebbe fare, a dimostrazione del fatto che non c’è neanche bisogno di leggere e scrivere per fare filosofia. D’altra parte, la filosofia occidentale con cui tuttora ci troviamo ad avere a che fare nasce con due signori che non erano archivisti della filosofia, ma filosofi: Socrate e Platone.
In breve, voglio dire che così come per essere un romanziere non c’è bisogno di essere un critico letterario e per essere un artista non c’è bisogno di essere uno storico dell’arte, altrettanto, per essere un filosofo non c’è bisogno di essere un archivista (filologo e/o storico) della filosofia.
Una volta risolti i fraintendimenti a proposito della distinzione tra filosofia e sua archivistica, le questioni, teoretiche e pratiche, che si aprirebbero sarebbero tante e profonde.
Che cos’è la filosofia? Un genere letterario, una sommatoria di specifiche nozioni insegnabili o un atteggiamento (e non una posa, tanto per respingere ancora i fantasmi dello spettacolo) esistenziale?
Come le università, e in particolar modo le Facoltà umanistiche, e in particolar modo i dipartimenti di filosofia, dovrebbero ripensarsi se vogliono ospitare al loro interno anche la filosofia e non solo la sua archivistica? E in assenza di un simile ripensamento e in presenza di una scientificizzazione sempre più spinta, è/sarà ancora possibile fare filosofia dentro l’accademia? E se invece fuori dall’accademia imperversano intrattenimento e spettacolo, è/sarà possibile farla fuori? E allora come, dove e quando (e siamo ancora in tempo?) costruire altri e nuovi spazi per la filosofia (quindi né archivi né luoghi d’intrattenimento)?
Lo scenario generale è a mio modesto parere piuttosto fosco. È certamente incoraggiante vedere che ci sono persone che sono sensibili a questo tema. Ma attenzione, essere sensibili alla critica dell’accademicismo e della spettacolarizzazione deve poi sfociare nella capacità di immaginare un’alternativa che sia un’alterità, e non il ritorno degli stessi problemi sotto nuove mentite spoglie.
(«L’accento di Socrate», n. 38, 2016)
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