martedì 29 maggio 2018

Da un'intervista ad Agamben

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

(Si pubblica di seguito un estratto dell'intervista di Antonio Gnoli a Giorgio Agamben, pubblicata su "la Repubblica.it" in data 15/05/2016, seguito da una nota di Federico Sollazzo.)

Giorgio Agamben ha scritto un bellissimo libro. I suoi libri sono sempre densi e tersi (e imprevedibili come quello dedicato recentemente a Pulcinella, edizioni Nottetempo). Hanno lo sguardo rivolto al passato remoto. È il solo modo per intensificare il presente. Prendete il suo ultimo lavoro Che cos'è la filosofia? (edito da Quodlibet), cosa nasconde una domanda apparentemente ovvia? "È mia convinzione"  dice Agamben  "che la filosofia non sia una disciplina, di cui sia possibile definire l'oggetto e i confini (come provò a fare Deleuze) o, come avviene nelle università, pretendere di tracciarne la storia lineare e magari progressiva. La filosofia non è una sostanza, ma un'intensità che può di colpo animare qualunque ambito: l'arte, la religione, l'economia, la poesia, il desiderio, l'amore, persino la noia. Assomiglia più a qualcosa come il vento o le nuvole o una tempesta: come queste, si produce all'improvviso, scuote, trasforma e perfino distrugge il luogo in cui si è prodotta, ma altrettanto imprevedibilmente passa e scompare".

Offri un'immagine volatile della filosofia.
"Ho l'abitudine di dividere l'ambito dell'esperienza in due grandi categorie: le sostanze da una parte e, dall'altra, l'intensità. Di una sostanza si possono disegnare i confini, definire i temi e l'oggetto, tracciare la cartografia; l'intensità invece non ha un luogo proprio".

Può verificarsi ovunque?
"La filosofia, il pensiero è, in questo senso, un'intensità che può tendere, animare e percorrere ogni ambito. Essa condivide questo carattere tensivo con la politica. Anche la politica è un'intensità, anche la politica, contrariamente a quello che ritengono i politologi, non ha un luogo proprio: com'è evidente non soltanto nella storia recente, di colpo la religione, l'economia, perfino l'estetica possono acquisire una decisiva intensità politica, diventare occasione di inimicizia e di guerra. Va da sé che le intensità sono più interessanti delle sostanze. Se le sostanze e le discipline  come la vita, del resto  rimangono inerti, se non raggiungono una certa intensità, esse decadono a pratiche burocratiche".

Un antidoto allo scadere nella pratica burocratica può essere la poesia. Tu hai spesso ribadito il legame tra filosofia e poesia. Che lo stesso Heidegger pose al centro della sua riflessione. In cosa consiste questo legame?
"Ho sempre pensato che filosofia e poesia non siano due sostanze separate, ma due intensità che tendono l'unico campo del linguaggio in due direzioni opposte: il puro senso e il puro suono. Non c'è poesia senza pensiero, così come non c'è pensiero senza un momento poetico. In questo senso, Hölderlin e Caproni sono filosofi, così come certe prose di Platone o di Benjamin sono pura poesia. Se si dividono drasticamente i due campi, io stesso non saprei da che parte mettermi".

Nota di Federico Sollazzo.

Se a quello che Agamben in questo stralcio di intervista definisce come intensità, si sostituisse il termine evocazione, credo che ne risulterebbe delineato l'orizzonte della condizione umana.
Il vivere avviene infatti necessariamente all'interno di un'atmosfera definita da una certa evocazione. Evocazione ed evocazioni, di cui non si può fare la storia.
Non si può fare la storia di una evocazione, perché essa avviene nell'ambito di un istante che è fuori dal tempo, non è cronologicamente misurabile, è a-topos, è senza passato; semplicemente avviene, improvvisamente, e ti porta altrove.
Non si può fare la storia delle evocazioni, perché ogni punto di vista è situato in un'evocazione e voler fare la storia delle possibili altre significa assumerle in quella in cui il punto di vista è collocato; ma allora non si può dire niente su quelle altre in loro stesse.
L'atmosfera in cui avviene il vivere e che lo dispone in un certo modo anziché in possibili altri, deriva quindi da un'evocazione che è senza storia, senza cronologia, senza passato.
Con questo non si vuole affermare che la misurazione cronologica del tempo, quindi la storia, sia inutile o deleteria e da abbandonare. Si vuole invece dire che questa può essere utile per sbrigare faccende pratiche, ad esempio per concordare un appuntamento con un amico, ma tutto ciò che di essenziale e quindi di grande vi è nel vivere, avviene in e viene da un istante che non è misurabile, né in senso cronologico né in altri termini, e che quindi è senza passato, senza storia, avvenendo in un istante extratemporale che, in quanto tale, non ha un suo prima. La misurazione cronologica, e quindi la storia, è solo la serva di quella evocazione che avviene nell'istante – e che rende possibile anche, ad esempio, il pensare in termini di misurazioni, cronologiche o di altro tipo.
Ecco, noi viviamo in un mondo che ha elevato la serva a padrone. Osserviamo tutto ciò che è, la physis, con lo sguardo della serva. Un mondo in cui tutto appare misurabile, in questo senso servile, perché serve a-, finanche noi stessi di fronte a noi stessi. Ma, come sempre è nelle interpretazioni, il modo in cui si interpreta qualcosa dice poco o niente su quel qualcosa ma molto su chi interpreta. Questa disposizione servile che oggi permea il mondo, è tale non perché tutto ciò che è abbia necessariamente e/o intrinsecamente tale connotazione, ma perché essa è nei nostri occhi. 
Così come tutto è artistico per gli artisti, tutto è servile per i servi.       
    
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