giovedì 10 agosto 2017

Intellettuali antisistema, amministratori culturali e cattivo gusto

di Patrizio Paolinelli (patrizio.paolinelli@gmail.com)

Passaggi d'epoca. Dall'intellettuale antisistema all'amministratore culturale

Gli intellettuali non sono una specie in via di estinzione. Scrittori e docenti universitari pubblicano regolarmente sulle pagine e gli inserti culturali dei quotidiani. Economisti, filosofi, sociologi sono spesso interpellati dai media e gli atenei non stanno affatto chiudendo i battenti. Il libro è senz’altro in crisi, ma sono arrivati gli e-book, si continuano a sfornare best-seller e i dibattiti alle fiere del libro sono seguiti con interesse. Su Internet è tutto un fiorire di blog e riviste telematiche. I premi letterari stabiliscono ancora le loro classifiche, mentre mietono successi di pubblico i festival culturali: della filosofia, della complessità, della letteratura e così via. Certo, se per intellettuale intendiamo il portatore di un dissenso politico antisistema, allora sì, quella categoria è oggi poco visibile. E il motivo è semplice: è finita l’epoca delle rivoluzioni antiborghesi. Con molti chiaroscuri le ultime propaggini di quell’epoca furono il ’68 in Francia e il ’77 in Italia. Dopodiché è partita la rivoluzione conservatrice capitanata da Ronald Reagan, Margaret Thatcher, Bush (padre e figlio). Rivoluzione che ha contaminato la sinistra moderata – basti ricordare Tony Blair – e che continua ancora oggi.

Nonostante il trionfo del neoliberismo gli intellettuali che si fanno carico dei problemi del mondo non mancano. Non sono corteggiati dai media ma risultano vivi e vegeti. Si pensi a Samir Amin e a Noam Chomsky, giusto per citare un marxista e un anarchico noti a livello internazionale. Si pensi a quel laboratorio di idee che è il Forum Sociale Mondiale, nato nel 2001 a Porto Alegre in risposta al Forum Economico Mondiale di Davos. Si pensi alla galassia di autori che pubblicano per case editrici militanti e che fanno sentire la loro voce nei circuiti legati ai movimenti per la globalizzazione alternativa. Rispetto al passato la critica degli intellettuali impegnati soffre di due criticità: si rivolge più all’opinione pubblica che a specifiche classi sociali (trovandosi così in una posizione di debolezza dinanzi alla potenza di fuoco dei media mainstream); agisce in un contesto storico in cui la politica non gode più del primato sociale che le era proprio nel ‘900. Risultato: le idee dei movimenti faticano a intaccare i valori dominanti centrati sull’individualismo e il consumismo. Basti citare per tutte la “decrescita felice” di Serge Latouche.

Un nuovo intellettuale è oggi egemone: l’amministratore culturale. Chi è costui? È un funzionario della rivoluzione conservatrice. Funzionario che si è dimostrato strategico nel far piazza pulita di soggetti collettivi forti quali i partiti, nel ridimensionamento dei sindacati, nel mettere in discussione la scuola di massa, nella demolizione del Welfare State, nella negazione del diritto al lavoro. L’amministratore culturale è un militante che fa politica con strumenti non tradizionali. Lo troviamo all’opera alla LUISS e alla Bocconi, nelle redazioni dei quotidiani e nelle produzioni cine-televisive, negli uffici e nei centri studi della Confindustria, nelle agenzie pubblicitarie e nell’armata di addetti alle pubbliche relazioni. Lo troviamo persino tra gli esperti di marketing. I quali non si limitano solo a trovare il modo migliore per allocare prodotti/servizi e stimolare la domanda. Si interrogano anche sulla coesione sociale, la coscienza collettiva, la struttura delle emozioni, il senso di appartenenza degli individui, i loro bisogni, la loro ricerca di identità. Nella quasi totalità questi professionisti hanno sostenuto il passaggio dal fordismo al post-fordismo e sostengono oggi il fondamentalismo del mercato. Ovvero, la mercificazione di ogni cosa.

È anche grazie al lavoro quotidiano e ormai trentennale degli amministratori culturali che il mondo è cambiato. Si deve soprattutto a loro se l’ideologia del tramonto delle ideologie è diventata senso comune, se nell’Italia di oggi il termine “comunista” si è trasformato in un insulto e se qualificare come “azienda” l’unità sanitaria locale rientra nel linguaggio corrente. Si deve a loro se l’intellettuale inteso come coscienza critica della società è relegato nell’ombra, se una popstar particolarmente esuberante è considerata “ribelle”, se Steve Jobs passa addirittura per un “rivoluzionario” e se le crisi economiche sono presentate come eventi naturali. È in questa temperie culturale dominata dal pensiero unico che un imprenditore come Diego Della Valle ha potuto recentemente avanzare la proposta di un governo nazionale composto quasi esclusivamente da tecnici. Proposta ritenuta fantascientifica anche solo una decina di anni fa, in pieno berlusconismo. Ma che oggi rientra nel novero delle cose senza sollevare particolari reazioni, neppure dalla comunità politica.
La marginalizzazione di pensatori alla Wright Mills è il risultato delle ristrutturazioni post-fordiste e dell’azione quotidiana esercitata dagli amministratori culturali. Grazie a questo combinato disposto oggi viviamo in una società frammentata in cui gli individui non si riconoscono in un progetto collettivo, fanno parte di specifici target di consumatori e di pubblico, inseguono ideali personali e si sono più o meno ritirati nel privato. Da qui il successo di fenomeni diversissimi tra loro come la Tv commerciale e la New Age. Mancando sia la visione di un progetto comune che un soggetto sociale portatore di tale visione (come potevano essere un tempo i movimenti operaio, studentesco, delle donne) la terra è franata sotto i piedi della critica al neoliberismo. Il grande pubblico è quasi del tutto spoliticizzato, è poco interessato alle idee di eguaglianza e giustizia sociale, ha sempre meno coscienza dei diritti sociali e le rivoluzioni che abbraccia sono tecnologiche o di costume. Esattamente quelle che risultano funzionali al potere economico. A pilotarle ci sono gli amministratori culturali per dare l’illusione di vivere in libertà e tra le cui competenze c’è quella di far passare le politiche neoliberiste in modi surrettizi. Ad esempio, tramite formule oscure come “le riforme strutturali”.
Con la parcellizzazione del pubblico in tipologie di consumatori il pensiero critico si è trovato a fare i conti con la moltiplicazione degli opinion leader. Che sono, in primis, i giornalisti, seguono in ordine sparso cantautori, soubrette, popstar, attori, campioni sportivi, imprenditori, comici, pornodivi. Non solo: gli amministratori culturali agiscono in sintonia con i ritmi dell’industria culturale, spiazzando così il pensiero riflessivo. I tempi della radio e della televisione impediscono infatti lo sviluppo del ragionamento. Nei talk-show si va per accuse, sentenze, botta e risposta. Mentre nelle interviste si procede per frasi brevi e conclusive. Non c’è alternativa: il pubblico ha imparato ad annoiarsi nel giro di pochi secondi e cambia canale. Questo processo di prolificazione, compressione e accelerazione della parola mortifica la maturazione del concetto e tuttavia non impedisce la partecipazione degli intellettuali alla vita dei mass-media. Sia perché acquistano notorietà, sia perché è l’unico modo per accedere a una platea altrimenti irraggiungibile.
L’adattamento alla società mediatizzata ha condotto a un abbassamento qualitativo generalizzato di produzioni culturali un tempo guardate con rispetto e soggezione. È il caso del libro: ormai non c’è personaggio dello spettacolo che non scriva, spesso con grande successo di vendite. È di pochi giorni fa la notizia che Katie Price – ex modella, nota per le generose esibizioni delle sue forme – ha pubblicato più libri di Shakespeare, ben 42. Al di là dei giudizi sulla qualità, dopo aver perso la possibilità di interessare il grande pubblico l’intellettuale alternativo vede stornata la capacità di spesa dei lettori a favore di opere di intrattenimento. E a questo punto si pone una domanda: J. K. Rowling, autrice della saga di Harry Potter, è un intellettuale? Lasciamo aperto il quesito. Certo, la Rowling non rappresenta la coscienza critica della società. Ma d’altra parte un Majakovskij o un Pasolini sarebbero oggi rapidamente inghiottiti dal vortice mediatico. C’è tuttavia un punto da cui forse si può partire per cercare una risposta: ieri si guardava con speranza al futuro, mentre oggi esiste solo il presente. Ecco perché da circa un ventennio la filosofia si è concentrata più sul linguaggio che sulle idee. Ecco perché l’opinione di un giornalista ha una presa assai maggiore di quella di un sociologo. Ciò non toglie che su questioni particolari non esistano intellettuali impegnati che hanno conquistato l’attenzione del grande pubblico. È il caso di Roberto Saviano sul tema della legalità. Non si sogna più di cambiare il mondo, ma almeno un suo spicchio.
(«VIAPO», 22/11/2014)
L'estetica del cattivo gusto
Un libro di Andrea Mecacci sul Kitsch spiega perché il frivolo, il futile, il facile, il pacchiano, il superficiale, lo sciropposo, il vistoso e lo strappalacrime abbiano così tanta presa nella nostra società

Spesso crediamo di sapere cos’è il cattivo gusto e sorridiamo indulgenti alla vista dei nanetti da giardino che impreziosiscono l’ingresso di villette e seconde case. Ma a farci riflettere sui nostri sbrigativi giudizi estetici è un libro di Andrea Mecacci intitolato Il kitsch (il Mulino, 2014, 162 pagg., 12,50 euro). L’obiettivo del testo è sostanzialmente didattico ed è perfettamente centrato sia per la grande competenza dell’autore che per la sua chiarezza espositiva. In poche parole, Mecacci ha scritto un’introduzione al kitsch utile a chiunque voglia iniziare a comprendere perché il frivolo, il futile, il facile, il pacchiano, il superficiale, lo sciropposo, il vistoso e lo strappalacrime abbiano così tanta presa nella nostra società. Per uscire dall’astratto tutti questi termini si concretizzano in innumerevoli prodotti: dalla gondola in miniatura al comportamento di certi politici, da molte versioni cine-televisive della grande letteratura alle statuette di Padre Pio, da Shakespeare usato per commedie musicali alle arie di Mozart ridotte a jingle, dai mobili finto antico a romanzi come Il vecchio e il mare, dalla villa di Elvis Presley a Memphis al modo in cui tanti turisti guardano monumenti e paesaggi.

Come si può arguire da questi esempi il kitsch è un fenomeno socio-estetico ampio, trasversale e che riflette una precisa antropologia. Infatti, sin dalla prima pagina del suo lavoro, Mecacci problematizza il tema: il kitsch è “un interrogativo culturale che ha investito l’identità del soggetto novecentesco (i suoi gusti, le sue scelte, i suoi comportamenti) e degli oggetti su cui questa identità elaborava se stessa”. A ben vedere dunque il nocciolo della questione non sta tanto nel prodotto kitsch quanto nel fare del kitsch l’unica dimensione estetica. Per qualcuno forse quest’approccio potrebbe apparire come la sopravvalutazione di un fenomeno tutto sommato marginale rispetto all’esistenza di tante, troppe persone oggi alla ricerca di un lavoro e di un futuro. In realtà non è così. Innanzitutto, perché il kitsch è un’iniezione di felicità visiva a buon mercato e fa ormai parte delle nostra vita quotidiana. Tant’è che lo ritroviamo dappertutto: negli oggetti, nelle immagini, nei testi narrativi. In secondo luogo, perché è una dimensione della modernità che cambia nel tempo e dunque siamo dinanzi a un fenomeno culturale tanto sfuggente quanto complesso. Infine, perché rappresenta il gusto, o il cattivo gusto se si preferisce, di una sensibilità estetica che materializza il risultato di numerose trasformazioni sociali intervenute nella sfera della produzione e del consumo.

Il libro si articola in rapidi ed efficaci capitoli finalizzati a presentare i tratti distintivi e i mutamenti interni al kitsch, dalla sua comparsa in Germania, tra il 1860 e il 1870, alle sue incursioni nella cultura pop e alle sue proiezioni nel citazionismo postmoderno. Lo scopo è quello di tracciare le linee evolutive di una categoria storica che muta se stessa col mutare dei processi sociali. Mecacci individua la genesi del kitsch nel dibattito settecentesco sul gusto. Dibattito che si iscrive sia nel campo dell’estetica che in quello politico col passaggio di potere dall’aristocrazia alla borghesia. Gli illuministi separano nettamente il gusto dal cattivo gusto. Da una parte riposa la semplicità, l’equilibrio e la misura del classicismo, dall’altra strilla l’eccesso, il superfluo, l’artificio. Voltaire: “Come il cattivo gusto consiste nell’essere attirati solo da condimenti piccanti e ricercati, così, nelle arti, il cattivo gusto consiste solo nell’apprezzare ornamenti manierati e nel non capire la bella natura”.

Nell’800 il kitsch si intreccia col Romanticismo da cui mutua il primato del sentimento trasformandolo però in sentimentalismo. In altre parole, il kitsch fagocita le istanze romantiche metabilizzandole all’interno della propria sensibilità: “Tutti gli oggetti del sentimento romantico (la natura, l’amore, la patria) nel kitsch si sono rovesciati nel proprio contrario: non più dimensioni inquietanti dell’interiorità, ma pratiche consolatorie”. Insomma, il sentimento non rappresenta la premessa dell’esperienza estetica ma costituisce il suo fine; non è apertura del sé alla pluralità dell’esistenza ma si trasforma in un’aspettativa interiore già codificata: è il mondo di Emma Bovary.
Nel Novecento il kitsch è interpretato come un effetto delle crisi che hanno segnato quel secolo. Norbert Elias lo definisce come il “sogno di evasione di una società che lavora”. Si tratta di un bisogno di compensazione imposto dalla coercizione esercitata dal capitalismo industriale sul corpo e lo spirito degli individui. Hermann Broch osserva invece il kitsch da un punto di vista etico arrivando a concludere che è il modo in cui il male si dà esteticamente. Inevitabilmente il kitsch finisce per entrare nel dibattito sulla cultura di massa proprio perché si è incardinato nella coscienza della piccola e media borghesia fissando i suoi principi estetici: azione, immedesimazione, godimento, emozione. Brecht e la Scuola di Francoforte tenteranno inutilmente di rovesciare questo modello culturale denunciandolo come una forza che cela le disuguaglianze sociali.
Oggi il kitsch è un fenomeno connotativo della nostra contemporaneità. Secondo Abraham Moles si è diffuso a macchia d’olio grazie a tre macrofattori: “il feticismo (l’esclusiva centralità dell’oggetto nella civiltà industriale), l’estetismo (l’affermazione della bellezza come fine in sé) e il consumo (la struttura di fondo del capitalismo)”. Questa analisi suggerisce che kitsch non è solo la miniatura della torre di Pisa in alabastro, ma anche il soggetto che si riconosce in quell’oggetto. Ed è tramite questo riconoscimento che l’inautentico, il surrogato e la volgarizzazione diventano dimensioni tipiche del nostro tempo. Per di più il raggio d’azione del kitsch si è parecchio allargato: dal suo territorio tradizionale fatto di ninnoli, souvenir e gadget è arrivato a investire intere aree urbane precipitandole nell’iperrealtà: la copia di Venezia che si può vedere in un casinò di Las Vegas è più reale, più autentica dell’originale. Siamo così giunti al neokitsch e alla sua capacità di nidificare in sensibilità limitrofe come il camp e il trash. Ubiquo, camaleontico, imprevedibile il kitsch fa ormai parte del nostro ordine visivo e delle nostre abitudini socio-estetiche. Possiamo sorridere dei suoi prodotti ma non possiamo fare a meno di interrogarli.
Il Bibliomane», 15/12/2014)

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