sabato 26 novembre 2016

Appunti per una riflessione. Tra morale ed etica: l’io e l’altro

di Pietro paolo Piredda (pietropaolo.piredda@istruzione.it)

Nessun atto è neutro se messo in rapporto con l'umanità di chi lo compie e di chi lo vive e, di pari passo, con il concetto (ma non la concettualizzazione) che lo comprende e sottende. Nel momento in cui un atto, che possa dirsi significativo (non parlo di usare una forchetta piuttosto che un cucchiaio mentre si mangia), è posto in essere, ciascuno non è più solo se stesso, ma è se stesso moltiplicato all'infinito. Ciò ci permette di definire o giudicare qualsiasi atto come umano, inumano, disumano, anti-umano. E siamo nella dimensione negativa del rapporto.
In un rapporto positivo possiamo allora dire che un atto, moltiplicandosi all'infinito, oltre che umano, è solidale, costruttivo, formativo ed edificante (non però nel senso comune pietistico attribuito a questa parola – con buona pace di Kierkegaard) se inerente al concetto di umanità in senso etico, prima ancora che morale. Non ogni morale, mi sentirei di dire, è veramente etica (si pensi a de Sade).
Pur accettando il fatto che ogni atto singolo compiuto non è alieno alla natura umana (hominem pagina nostra sapit..., e poichè è stato posto in essere dall'Uomo, al di là di ogni distinzione di genere), lo scarto tra l'umanità morale ed etica è ciò che fa la differenza. Messa così la cosa può apparire innocua, ma non lo è. Il campo valoriale che permea l'umanità (quindi il concetto e non la concettualizzazione), sia esso esigenza di verità, libertà o giustizia, è soggetto alla prova della confutazione ironica che può espletarsi esclusivamente in una dimensione dialogica e discorsiva. L'io si definisce di fronte al tu, e nei casi più fortunati al tu essenziale. Potrebbe sembrare una logica pesante ma se si pensa alla dimensione infantile e alla serietà con cui vengono stabilite le regole del gioco tutto sembrerebbe essere più comprensibile ed accettabile. Ed inoltre la questione fondamentale posta dall'ironia è il rovesciamento delle parti nel gioco stesso (considera l’Uomo sempre come fine e mai come mezzo, recita Kant). La prudenza (che sostiene il diritto  juris-prudentia  e viene definita non a caso ciò che si pone come proportio regolativa e normativa) è ciò che non permette di essere "giocati" dal gioco stesso; di per sé si pone già come phronesis.
La serietà è cosa diversa dalla seriosità. Nella serietà dell'approccio etico all'alterità non è escluso, per restare nel gioco, il sorriso, la risata, lo scherzo, fintanto che l'integrità della mia umanità, moltiplicata all'infinito, non dileggia né degrada quella del mio interlocutore. L’uomo non ha diritti: è diritto; l’uomo non ha valori: è valore. Intrinsecamente parlando! Certo è che l'umanità (Uomo) contiene in sé il "deinòs" e il "sublime", secondo la lezione che parte da Soflcle per arrivare a Kant e oltre: la questione fondamentale resta quindi la scelta e la capacità di scelta secondo pressupposti valoriali positivi. La "drammaticità" della scelta sta nel fatto che si sarà nel domani quello che nell'oggi si decide di essere.
                                                                                             
Il punto che taglia una linea non è una parte della linea... il momento in cui tagli il corso della vita e fai una nuova divisione non è parte della tua dimensione temporale... (Schleiermacher)

La temporalità (o storicità) pertinente all'essere, e più ancora il carattere attivo (o passivo ) di essa, implica e coinvolge la dimensione etica dell'individualità, dal momento che questa è – e ha il dovere di essere  se stessa in rapporto ad un'alterità, in un rapporto responsabile e responsivo.
Questo rapportarsi continuo, significhi incontro o scontro, determina sempre una forma di comunicazione e, allo stesso tempo, comporta il richiamo al campo etico della moralità, ossia l'estensione di essa. In parole povere, è in gioco il mio essere con il mio simile non ancora riconosciuto nella prossimità. In quanto dover essere, ossia nel divenire, necessità e possibilità, diventano dialogo alla ricerca di vita coerente in un rapporto positivo, tra le sollecitazioni empiriche e gli instabili contenuti affettivi delle condizioni di vita.
La bellezza della comunicazione dialogica richiede che il contenuto della comunicazione sia il bene ad oltranza. È la natura di ciò che riconosciamo come bene – proprio e altrui  che fa la differenza nella riuscita della comunicazione instaurata. La questione effettiva è quanto di noi siamo disposti a mettere da parte e quanto di noi mantenere nell'accostarci all'altro nella forma dialogica della comunicazione.
Ciò che determina l'interruzione discorsiva è quel punto enigmatico esterno alla linearità data al dialogo. Ciò determina inoltre spesso il crearsi di campi settoriali di comunicazione che vanno indagati per discernerne la cogenza, differente dalla coerenza. La coerenza del discorso non ne implica né la cogenza né la correttezza né la veracità, se lo spazio in cui si crea non è sgombro dai pregiudizi che pongono il mio essere in posizione di sopraffazione dell'altro, sino all'eventuale suo annientamento. Il frutto della comunicazione è la misura che determina la bontà del rapporto instauratosi. Se il nostro pre-giudizio sull'altro è negativo a priori non ci si può aspettare un buon frutto a posteriori. Se il nostro pregiudizio è poi talmente forte è meglio rispettare il mistero dell'altro che a noi appare come l'enigma insoluto. Ci vuole intelligenza e capacità comprensiva che esuli dal porre in atto la forza distruttiva che il nostro essere, come quello dell'altro, può contenere in sé.

(Rielaborazione dell'autore di parte della propria Tesi Istanze di lettura nell'opera letterario-giuridica di Salvatore Satta)

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