sabato 6 agosto 2016

Sportivizzazione, mentalità americana, cultura e società: tre recensioni

di Patrizio Paolinelli (patrizio.paolinelli@gmail.com)

(Si pubblicano di seguito tre recensioni del sociologo Patrizio Paolinelli)

  • Nicola Porro, Movimenti collettivi e culture sociali dello sport europeo. Le stagioni della sportivizzazione
Il ruolo politico dello sport nella costituzione degli Stati europei

Un libro del sociologo Nicola Porro che si caratterizza per una vocazione interdisciplinare.
La sociologia si è accorta relativamente tardi di quanto lo sport costituisca uno dei principali sensori dei mutamenti politici innescati dai processi di modernizzazione. Da tempo tuttavia si sta cercando di recuperare il terreno perduto. Per quanto riguarda l’Italia, Nicola Porro, professore ordinario di sociologia dello sport all’Università di Cassino, è senz’altro lo studioso che ha dato maggiore impulso a una riflessione scientifica sull’argomento. Il suo ultimo lavoro ha un respiro internazionale e si intitola Movimenti collettivi e culture sociali dello sport europeo. Le stagioni della sportivizzazione (Bonanno editore, 165 pagg., 15,00 euro). Si tratta dei risultati di un’indagine sul rapporto tra nazionalizzazione e formazione dei sistemi sportivi europei condotta da diverse università italiane sotto la direzione dello stesso Porro.
Non si immagini un pesante rapporto di ricerca fatto di numeri, tabelle e scritto con un linguaggio per addetti ai lavori. Il libro si caratterizza invece per un brillante stile narrativo e una vocazione interdisciplinare. In virtù di tale vocazione l’approccio sociologico sfocia in un testo di storia sociale che cattura il lettore pagina dopo pagina permettendogli di osservare i sistemi sportivi come vere e proprie arene politiche. Illuminanti a questo proposito sono due casi esemplari del nesso fra sportivizzazione, nazionalizzazione e costruzione dei movimenti di azione collettiva a cavallo fra XIX e XX secolo: i Turnen tedeschi e i Sokol della Repubblica ceca.
Nonostante l’ottica premoderna i Turnen anticipano le caratteristiche di massa dello sport contemporaneo e, sul piano organizzativo, quelle dei maggiori partiti del ‘900. L’imprinting tradizionalista è dato dal fondatore del movimento: il ginnasiarca visionario di fede nazionalista Friedrich Ludwig Jahn (1778-1852). Figura carismatica, Jahn è pedagogista, seguace della filosofia di Fichte e attivista politico strenuamente impegnato nella causa dell’unificazione tedesca. Ancora oggi in Germania è considerato il Turnvater (Padre della ginnastica).
L’ideale ginnico messo al servizio di una divorante passione politica prende forma in Jahn a partire dall’incontro avvenuto nel 1807 con Johann Christoph Friedrich GutsMuths (1759-1839), il primo intellettuale europeo a parlare di educazione fisica come disciplina autonoma e didatticamente codificata. Tre anni dopo, insieme un gruppo di dirigenti nazionalisti, Jahn fonda un’organizzazione segreta per la liberazione dei popoli tedeschi dal giogo napoleonico e la riunificazione della Germania. Nel 1811 prendono il via i Turnen, le esibizioni ginniche all’aperto che mobilitano migliaia di giovani. Agli occhi di Jahn l’addestramento fisico rappresenta un’esperienza etico-patriottica mentre il corpo dell’atleta appartiene al militante di una causa. E la causa è chiara: mobilitazione contro l’occupazione francese e spingere la Prussia ad assumere il ruolo guida nel processo di unificazione del Paese.
L’altro caso esemplare in cui politica e sport si danno la mano in vista del riscatto nazionale è quello della società di ginnastica Sokol (in lingua ceca, “il falco”, ad evocare un simbolo tradizionale di libertà e coraggio). Il movimento nasce a Praga nel febbraio del 1862 ad opera di due intellettuali boemi – Miroslav Tyrš e Jindřich Fügner – e si inserisce nella tradizione ginnica nazionale. Anche in questo caso l’obiettivo è preciso e ambizioso: sostenere la rinascita ceca contro il dominio dell’Impero asburgico in modo da fare della nuova repubblica l’avamposto di un più vasto movimento panslavista. I Sokol trovano nello sport una sigla di comodo per esercitare attività politiche giudicate sovversive dalle autorità e rappresentano un formidabile strumento di aggregazione sociale. Come nel caso dei Turnen, all’esercizio fisico sono associati valori morali ispirati al patriottismo tanto che la diaspora ceca fonda nel 1892 i primi Sokol a Parigi e Chicago. Il successo del movimento è impressionante: nel 1938 i Sokol associano più di 560.000 aderenti (oltre il 4% della popolazione cecoslovacca stimata quell’anno a 13.600.000 abitanti). Seppur ridimensionati a causa della recente separazione fra Repubblica ceca e Slovacchia i Sokol costituiscono ancora oggi un movimento imponente e nel 2012 hanno organizzato praticanti di cinquantasette discipline sportive, anche non competitive.
All’Italia Nicola Porro dedica l’ultimo capitolo del suo libro soffermandosi sul caso della maggiore associazione italiana di sport per tutti: l’Uisp. Una realtà che conosce bene essendo stato presidente nazionale di quest’organizzazione dal 1998 al 2005. Qui l’indagine da diacronica passa a sincronica. Si parla cioè di tempi a noi molto più vicini rispetto alla ricostruzione storica dei Turnen e dei Sokol e il tono si fa preoccupato sin dal titolo del capitolo “La rivoluzione incompiuta dell’Uisp”. Rivoluzione incompiuta perché fra gli anni ’90 e la prima decade del Duemila l’associazione, pur intercettando spinte innovative, non riesce a emanciparsi dal modello competitivo del Comitato olimpico (Coni); né riesce a realizzare appieno l’innovazione politico-culturale dello sport per tutti che invece si è affermata nell’esperienza anglosassone e del Nord-Europa.

(«Il Bibliomane», 12/06/2014)

  • Francesco Antinucci, Cosa pensano gli americani (e perché sono così diversi da noi)
Le differenze di mentalità tra europei e statunitensi

L’immaginario collettivo degli italiani è fortemente influenzato dalla cultura di massa made in USA: da Hollywood a Playboy; dai jeans alla Coca Cola; dalla leggenda imprenditoriale di Steve Jobs alle spregiudicate esibizioni della popstar Madonna. Questo stretto legame con i marchi di fabbrica d’oltreoceano ci rende simili agli statunitensi? Di primo acchito sembrerebbe di sì, dato che condividiamo miti e riti, mode e spettacoli. In realtà siamo profondamente differenti. E’ quanto dimostra Francesco Antinucci in un tascabile di appena 102 pagine (12,00 euro) pubblicato da Laterza: Cosa pensano gli americani (e perché sono così diversi da noi).
Antinucci è un esperto di scienze e tecnologie della cognizione, per motivi professionali frequenta gli USA da molti anni e la sua testimonianza non ha pretese esaustive né sociologiche. E’ l’osservazione del modo d’essere degli statunitensi da parte di uno studioso che si trova davanti a comportamenti individuali e collettivi assai sorprendenti per un italiano. Ma la spiegazione c’è. E Antinucci la individua essenzialmente nella formazione dello Stato. Essendo una nazione costituita da immigrati l’identità americana non si è formata su base etnica come nel Vecchio Continente, ma su un credo ideologico, politico e istituzionale espresso dalla Dichiarazione di indipendenza (1776) e dalla Costituzione (1787). Aderire a questo credo significa lasciarsi alle spalle il passato e attuare un processo di riconversione di se stessi professando i valori contenuti nei testi fondanti della nazione. In poche parole: essere cittadini americani, significa diventare cittadini americani. Tanto è così che Antinucci definisce gli USA una “teocrazia laica”.
Nella vita quotidiana la religione civile a stelle e strisce si manifesta attraverso quelle che a noi europei appaiono delle stranezze. Ad esempio misurare tutto e tutti: dalle attività di una persona alle performance di un istituto universitario. Ma per gli americani stilare e aggiornare continuamente classifiche non è un modo per stabilire delle differenze. Al contrario, è un metodo per garantire l’equità sociale. Si comprende questo meccanismo se si tiene conto che negli Stati Uniti uguaglianza significa semplicemente uguaglianza delle opportunità. Ossia: ogni individuo vale per quello che è in grado di fare, gli USA sono la terra in cui è possibile rifarsi una vita e non importa da chi si è nati. In virtù di questa concezione è necessario misurare ogni azione umana per stabilire un criterio di giudizio. Ovviamente la valutazione deve essere oggettiva, imparziale e affidabile. Se così non fosse si tradirebbe il principio meritocratico sancito dai padri fondatori.
Le donazioni sono un altro capitolo che segna la distanza tra statunitensi e italiani: 233 miliardi di euro contro 3,5. In rapporto alla popolazione dovremmo versare 46 miliardi, mentre in rapporto al Pil 33. Perché questa sproporzione? Eppure da noi le donazioni possono essere dedotte dalle tasse esattamente come negli USA. La differenza si spiega in termini politico-culturali. Per un americano donare è un obbligo morale nei confronti dello Stato e della nazione. Tanti Paperoni donano la metà dei loro immensi patrimoni e anche oltre. Il vantaggio fiscale dunque non rappresenta la molla principale: si restituisce gran parte della fortuna accumulata alla società che ha premesso di realizzarla. Un senso di responsabilità inimmaginabile in Italia, dove in media gli imprenditori dichiarano al fisco un reddito di 18mila euro annui contro i 19mila dei lavoratori dipendenti. Gli americani donano 66 volte più degli italiani non perché sono più buoni di noi ma perché i cittadini si identificano con lo Stato. Ci sono poi altri motivi. Ad esempio è utile abbassare i grandi patrimoni perché altrimenti i figli dei capitalisti non sono stimolati ad accumulare nuova ricchezza e si inibisce la loro capacità di farcela da soli. Insomma, un’eccessiva eredità favorisce troppo i beneficiari e va contro il principio costituzionale delle uguali opportunità. Bill Gates ha dichiarato che lascerà ai propri figli una quota insignificante del suo patrimonio.
Altri fattori che distinguono la coscienza collettiva americana dalla nostra sono: la condanna morale nei confronti di chi mente (l’evasore fiscale è oggetto di riprovazione da parte della collettività), l’ottimismo nei confronti del futuro (non potrebbe essere altrimenti in una società di immigrati), l’amore per le innovazioni tecnologiche (per rispondere alla carenza di manodopera, che invece da noi abbonda).
La testimonianza di Antinucci ha lo scopo di spronare il lettore italiano ad aprirsi agli epocali processi innescati dalla globalizzazione. E’ tuttavia troppo sbilanciata a favore dell’american dream e chiude gli occhi dinanzi alle spaventose contraddizioni della società statunitense. Ma è interessante perché se affrontata con le dovute precauzioni offre l’occasione per riflettere. Ad esempio: dopo aver letto Cosa pensano gli americani sorgono molti dubbi sul tramonto delle ideologie e la fine dello stato-nazione.

(«VIAPO» 02/06/2013)

  • Gilbert Keith Chesterton, William Blake
Se Chesterton scrive di William Blake

Tra i suoi numerosi scritti Gilbert Keith Chesterton ci ha lasciato la monografia intitolata William Blake. Monografia pubblicata in inglese nel 1910 e tradotta quest’anno in italiano dalle Edizioni Medusa. Correttamente Alessandro Zaccuri, curatore e prefatore del libro, segnala quanto lo scrittore e l’artista siano persone estremamente differenti tra loro. Chesterton, cattolico ortodosso; Blake, teista anarcoide. Eppure qualcosa li unisce.
L’immaginazione intesa come principio vitale, come ricomposizione del reale frantumato dai processi di industrializzazione, come contatto tra l’umano e il divino. L’immaginazione insomma “non è soltanto accensione della fantasia o fuga nel fantastico, ma la più alta e drammatica forma di realismo che l’uomo moderno possa praticare”.
E’ noto che William Blake di immaginazione ne avesse da vendere sia come pittore e incisore che come poeta. Sin da bambino era ossessionato da visioni mistiche – che gli procuravano bei ceffoni dai suoi genitori, nella maturità vedeva schiere di angeli posati sugli alberi delle pianure del Sussex e sul finire della sua vita realizzava uno dei suoi disegni più celebri: L’Antico dei giorni; disegno in cui rappresenta l’Onnipotente chinato in avanti, colto in una imponente prospettiva, mentre traccia il cosmo con un compasso.
Durante la sua vita (e anche dopo) c’è chi considera Blake uno squilibrato, oppure, più benevolmente, un irrazionalista. Per Chesterton, il grande illustratore non è né l’uno né l’altro. E da intellettuale estremamente dotato qual è non si sottrae alla domanda più comune: Blake è un pazzo? La risposta di Chesterton è molto articolata e prende parecchie pagine della sua breve monografia. Pagine che non sono solo un pezzo di bravura, di inconsueta sensibilità umana e di straordinaria capacità di immedesimazione. Sono anche un esaltante esercizio di stile capace di realizzare la metamorfosi della forma in contenuto. Un esercizio in cui la scrittura sembra dotata di una propria autonomia, una propria capacità di astrazione, un’intelligenza terza che offre al lettore qualcosa di più di una spiegazione ben congegnata o di un ragionamento strategicamente difeso dall’inoppugnabilità della razionalità.
Quel che convince, meglio, quel che prende il lettore nell’intera monografia di Chesterton, è il riflesso multiforme delle parole, parole che vanno al di sopra del loro significato. Mai al di sotto, mai al lato del linguaggio. Sempre al di sopra, pagina dopo pagina. E’ il trionfo dell’immaginazione. Un trionfo più forte del piacere di leggere e meno arrogante delle seduzioni della comprensione. E’ in questa dimensione extraterritoriale, extramondana e non necessariamente spirituale che Chesterton e Blake si incontrano. Affermazione forte, ce ne rendiamo conto, trattandosi di due credenti. Ma i lettori potranno verificare da soli la bontà del nostro azzardo. Resta il fatto che nessuno, credente o non credente che sia, può restare insensibile dinanzi alla prosa di Chesterton e ai disegni di Blake. Ed è proprio questo “non restare” che ci conduce verso un altrove. L’altrove della parola, l’altrove dell’immagine, l’altrove della mente.
Ma ancora non abbiamo lasciato Chesterton rispondere alla domanda: Blake è un pazzo? L’autore di Padre Brown non si sottrae alla sfida. Anzi rilancia. Non è alle immagini che rivolge il suo sguardo, ma alle parole di Blake, le parole contenute nei testi meno letterari come i Libri Profetici e nelle sue poesie. E allora, se si intende Blake come inetto a occuparsi di se stesso certamente non abbiamo a che fare con un pazzo. Nel corso della sua vita si destreggiò fra quattro principali committenti: due sinceri mecenati, un editore imbroglione e un gentiluomo di campagna con velleità poetiche, ma che comunque gli fece del bene. E’ vero, Blake sostiene di intrattenersi con i profeti dell’Antico Testamento. Ma: “Certamente non possiamo prendere una questione aperta come il soprannaturale e chiuderla sbattendo la porta, girando la chiave del manicomio su tutti i mistici della storia… Non sappiano abbastanza dell’ignoto per sapere che è inconoscibile”. Tuttavia è chiaro che la mente di Blake è intaccata da qualcosa. Ma cosa? La consistenza reale delle sue comunicazioni spirituali. Le sue visioni non sono false perché è pazzo. Ma è pazzo perché le sue visioni sono vere.
E’ evidente che Blake non si trova a proprio agio nel tempo in cui vive, come d’altra parte lo stesso Chesterton. Ed è proprio tramite una qualità tipicamente umana come l’immaginazione che entrambi affermano un reale più vero della realtà stessa. Ognuno a modo suo.

(«Il Bibliomane» 12/05/2014)

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