di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
Non si può fare politica senza pronunciarsi su questioni che nessun uomo sensato può dire di conoscere. Si deve essere infinitamente stupido o infinitamente ignorante per avere un’opinione sulla maggior parte dei problemi posti dalla politica.
P. Valéry, Des partis
Sono molti i luoghi in cui Galimberti mette in evidenza come, sotto la spinta dell’iperspecializzazione che lo sviluppo della tecnica (mi permetto di specificare, questo sviluppo di questa tecnica) ci richiede, la democrazia sia destinata ad estinguersi per mancanza delle competenze tecniche necessarie per prendere una decisione su uno specifico tema – sicché, le decisioni vengono poi prese con la “pancia” e i politici diventano affabulatori di masse incompetenti (su questo, una scorrevole e affascinante lettura può essere il suo La morte dell’agire e il primato del fare nell’età della tecnica).
Le implicazioni etiche di un simile scenario sono state individuate dalla Arendt nel suo dirompente La banalità del male dove identifica nella specializzazione, e quindi nello specialista (in quel caso, della “soluzione finale”, amministrata come un qualsiasi indifferente atto specialistico: Eichmann), la fine non solo della possibilità di pensare ma anche della facoltà di giudicare, quindi della responsabilità – tema già anticipato nel’44 da Camus (Eichmann in Jerusalem è del ’63), quando nel suo articolo Non tutto si sistema (pubblicato su Lettres françaises, giornale clandestino del Comité national des écrivains, con un certo imbarazzo), imputa al membro del Governo Vichy, Pucheu, un torto che definisce come “mancanza di immaginazione”; tipica, oggi lo si può constatare ancor più di ieri, dello specialista.