di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it; II di 3)
3. Le due svolte antropologiche fondamentali e le loro conseguenze
L’era attuale è, secondo Gehlen, il risultato della seconda “cesura” o “svolta rivoluzionaria” che si sia realizzata nella storia della civiltà. Per l’Autore, infatti, due “svolte” hanno sinora caratterizzato l’evoluzione del genere umano: il passaggio, nella preistoria (durante il Neolitico), dal nomadismo alla vita sedentaria, ed il passaggio, nella modernità (durante l’Ottocento), dal lavoro manuale al lavoro meccanizzato; Gehlen descrive questa seconda svolta con il termine di “industrializzazione”, derivante dalla rivoluzione scientifica che aveva caratterizzato la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo e che tra il XVIII ed il XIX secolo ha dato luogo alla organizzazione capitalistica della produzione. Tali cambiamenti innescano un così radicale rivolgimento di tutte le componenti vitali, da richiedere necessariamente un periodo di transizione per il raggiungimento di una nuova condizione di stabilità. Ad esempio, a seguito del passaggio dal Paleolitico al Neolitico, I’uomo si trasformò da cacciatore in allevatore, le divinità persero il loro aspetto demoniaco e/o animalesco per assumerne uno antropomorfico, cambiarono le dinamiche e le gerarchie interne alle famiglie ed ai gruppi, si svilupparono popolazioni più numerose, divenne cronico ed inevitabile uno stretto legame con l’elemento atmosferico al punto tale da avviarne un primo tentativo di comprensione, e nacquero nuovi diritti e doveri(20) poiché la «popolazione sedentaria vive [...] in condizioni che costringono a sviluppare nel lavoro il senso del dovere e del servizio»(21). Ma, soprattutto, nella società agricola chi si prende cura della natura lo fa per poter usufruire, poi, dei suoi frutti: si assiste così alla nascita della proprietà privata.
Il carattere sacrosanto della proprietà privata è uno dei contrassegni delle società basate sull’agricoltura, perché l’ambito delle cose entro cui un uomo agisce e dispone direttamente, e che delimita la sfera della sua responsabilità anche morale per la prosperità di tutto quanto vive e vegeta in tale ambito, deve rimanere riservato alla sua persona(22).
Ma la proprietà privata necessita di uno strumento che la tuteli, uno strumento che diviene «la quintessenza della civiltà tradizionale: l’ordinamento giuridico»(23). Tali mutamenti, giunti compiuti e sovrapposti alla nostra epoca, contribuiscono ad un nuovo orientamento morale. L’uomo è costretto a ricercare la propria stabilità nel mondo esterno trovandola nelle istituzioni giuridiche che gli consentono di essere esonerato dal dovere continuamente scegliere tra ciò che è possibile fare e ciò che è vietato, tra giusto e sbagliato. L'esonero è tanto più efficace e potente quanto più il singolo è inserito in un gruppo di simili, al punto che «la morale è un’abitudine ormai familiare»(24) e quest’epoca diviene «1’epoca dei piccoli raggruppamenti particolari, delle relazioni di fiducia per le quali ci si adopera, si fa realmente qualcosa di concreto; l’epoca dei teams che aggregano persone delle stesse idee»(25). Tuttavia, a parere di chi scrive, tale atteggiamento presenta anche un inquietante risvolto: chiudendosi all’interno di gruppi ristretti, dominati da rigorose logiche identitarie, l’uomo limita, “perimetra” il suo contatto con il mondo esterno e, quindi, con gli altri uomini, all’intemo di una sfera nota, conosciuta, abituale, “esonerante” che gli eviti un faticoso confronto con il diverso, l’ignoto. L’esito di un simile atteggiamento è stato già colto e magistralmente esposto da Alexis de Tocqueville.
Vedo una folla sterminata di uomini simili ed eguali, che si girano senza tregua su se stessi per procurarsi piaceri piccoli e banali di cui si colmano l’animo. Ciascuno di loro, ripiegato su se stesso, è come estraneo al destino di tutti gli altri, i suoi figli e i suoi amici privati costituiscono per lui tutta la specie umana. Per quanto concerne i suoi concittadini, egli vive accanto a loro ma non li vede(26).
Se tali sono, in estrema sintesi, le conseguenze della vita stanziale, quali sono quelle relative all’industrializzazione? Il fenomeno dell’industrializzazione ha cambiato del tutto le strutture sociali preesistenti, basti pensare ad esempio alla comparsa dell’urbanesimo, originando delle sovrastrutture sociali talmente complesse da costringere l’uomo a specializzarsi in una qualche funzione, per potersi inserire in esse. Questo nuovo scenario richiede una nuova forma di adattamento mentale e materiale.
Le grandi sovrastrutture della nuova civilizzazione divengono autonome, si alienano (Hegel, Marx), cosicché il contegno dell’uomo, sia nell’ambito teorico che pratico, assume di necessità la forma di un’assuefazione ad esse. Tale processo è solo in parte volontario e controllato, in generale esso è inconsapevole, soprattutto quando consiste in una trasformazione del pensiero, del modo di vedere le cose, delle stesse strutture della coscienza, e non soltanto della necessità di accogliere ed elaborare sempre nuovi contenuti(27).
Nasce così l’uomo specializzato, “intellettualizzato”, che conosce solo il suo frammento, segmento di sapere, e questa tendenza penetra anche all’interno delle cosiddette scienze umane: la psicologia muta in psicotecnica, la sociologia in sociometria, e così di seguito. Ma, se alla crescita delle sovrastrutture sociali corrisponde una specializzazione dei saperi (e delle funzioni), l’inevitabile conseguenza sarà una perdita di contatto con la realtà nella sua interezza, un’impossibilità di conoscenza globale della realtà, difatti «le “grandi costellazioni” della vita economica, politica e sociale divengono incomprensibili all’intelletto e moralmente insostenibili»(28). A questa problematica si tenta di ovviare con dei medium, con delle “istanze intermedie” fra l’individuo e le esperienze (e le conoscenze, e le funzioni) a lui inaccessibili. Nascono così le “esperienze di seconda mano”, diffuse dall’“industria dell’informazione” (il più potente “strumento di penetrazione tra le masse” della modernità), la quale mentre trasmette notizie e fatti, persegue anche dei fini e, quindi, “indirizza” le esperienze di seconda mano, ovvero le “opinioni”.
La sedimentazione di tutti questi processi nel singolo si chiama opinione: ne comprendiamo ora l’inevitabilità, perché siffatti contenuti schematici compaiono là dove il sapere di prima mano, quello proveniente dall’esperienza autonoma e responsabile, non è sufficiente, mentre l’importanza delle questioni e l’impellente necessità di adattarvisi provocano una presa di posizione. A tali opinioni non ci si può sottrarre perché nel mare magnum delle realtà odierne l’unica risorsa sono le fonti secondarie, le quali ci vengono addirittura incontro sotto forma di immagini e di caratteri a stampa, in tutte le gradazioni della veridicità. E ne abbiamo bisogno per procurarci nell’oceano dell’ insicurezza una bienfaisante certitude(29).
Per facilitare la diffusione e la comprensione delle notizie, i media tendono a semplificare le stesse sino a renderle banali, le conseguenti opinioni mediatiche saranno, così, rozze, primitive, proprio perché presentate attraverso schemi interpretativi grossolani e, a volte, di parte. Si registra così un deterioramento culturale in quanto, il grande pubblico, non viene messo in grado di percepire le sfumature di significato che oltrepassano la forma (se non anche il contenuto) delle notizie. Ma, se gli uomini manifestano delle difficoltà nella comprensione delle notizie, ciò non avviene solo per le manipolazioni operate dall’industria dell’informazione, ma anche, e soprattutto, a causa della perdita di un ragionevole senso critico, di una capacità di giudizio; a cosa è imputabile tale perdita?
4. Schematizzazione dei comportamenti e disorientamento sociale
Ogni società è plasmata da una cultura di fondo, da tipici atteggiamenti culturali e la forma mentis peculiare dell’era contemporanea è quella tecnica. Di conseguenza, è oggi constatabile «come forme del pensiero sviluppatesi nella tecnicà si trapiantino in ambienti non tecnici pur essendo qui inadeguate»(30), originando schemi di pensiero tecnico, esemplificati da Gehlen in quattro principi che attualmente, ce ne si renda conto o meno, influenzano le relazioni interpersonali. Essi sono: il “principio del rendimento totale” (consistente nella massimizzazione delle prestazioni lavorative), il “principio degli effetti previsti” (dato da un controllore che indirizza le azioni altrui), il “principio delle misure standard o dei pezzi sostituibili” (in base al quale risultano intercambiabili non solo gli strumenti ma anche gli uomini, nell’esercizio delle loro funzioni sociali) ed il “principio della concentrazione in vista dell’effetto” (nel quale tutti gli sforzi sono finalizzati al raggiungimento di un obiettivo dato). Questi principi, originariamente appartenenti alla sola sfera della tecnica, influiscono ora sull’intera esistenza dell’uomo, al punto tale che «la tecnica in questo senso passa ora in primo piano nelle arti e nelle scienze, e la tendenza allo sperimentale, al metodico-pratico non incontra più limiti di sorta»(31). Difatti, un ulteriore effetto della mentalità tecnica applicata ormai a qualsiasi aspetto dell’esistenza, è quello della ricerca ossessiva del miglior risultato possibile in base alle risorse tecniche disponibili: «sull’uomo della tecnica il pensiero dell’effetto ottimale esercita un’attrazione irresistibile»(32).
Tuttavia la nostra epoca è tutt’altro che perfetta, ottimale, anzi essa risulta essere caratterizzata da una marcata e diffusa ambiguità, equivocità, indeterminatezza. Ciò deriva dalla sovrapposizione di due elementi dicotomici, causanti una “interferenza” sociale; nell’epoca moderna infatti, l’attuale livello di civiltà si trova a dover convivere con un processo tecnologico di strutturazione dell’ambiente, ad una categoria derivante dal passato e quindi ad esso legata (la civiltà) si sovrappone una categoria rivolta e proiettata nel futuro (la tecnologia). Di qui
l’interferenza fra uno stadio di civilizzazione (simile a molti altri già comparsi sulla scena del mondo) e un processo (unico nel suo genere) di costituzione del nuovo “ambiente naturale” nel quale l’umanità intende vivere il futuro – cioè quel processo pluridimensionale e trasformatore della coscienza che si chiama “industrializzazione”(33).
L’intuibile conseguenza di tale situazione consiste in un generalizzato disorientamento che porta l’uomo ad interrogarsi su tutto ciò che lo circonda, anche su questioni che, apparentemente, dovrebbero essere talmente nitide ed assodate da non necessitare di ulteriori chiarimenti come, ad esempio, il chiedersi se si sia in guerra o in pace, se si abbia o meno una patria, se quella attuale sia l’era del socialismo o del capitalismo(34). Disperatamente alla ricerca di sicurezze, l’uomo moderno trova rifugio o nelle, già descritte, “opinioni”, o radicalizzandosi all’interno dello spirito scientifico sorto con l’illuminismo e concretizzatosi con l’industrializzazione, da cui deriva un processo di esasperante razionalizzazione dello spirito umano. Quello che ci si deve domandare, allora, è fino a che punto sia lecito, opportuno o comunque possibile spingere tale razionalizzazione. La soluzione a tale questione sembra essere particolarmente ardua in quanto implica una preliminare distinzione tra gli ambiti e i campi potenzialmente razionalizzabili in maniera completa, e quelli che rimarranno sempre parzialmente o del tutto inaccessibili alla ragione; lo stesso Gehlen infatti ammette l’esistenza di settori interamente razionalizzabili (come, ad esempio, la vita dello Stato), e di altri in cui «avrà importanza decisiva mantenere le “diverse distanze che passano tra le cose e il nostro cuore”, se si vogliono evitare conseguenze disumane»(35). Ad ogni modo, ciò che a Gehlen interessa evidenziare, è che le problematiche e i disagi tipici della modernità occidentale, non ne designano il tramonto, non sono gli indicatori di una cultura in declino (come vogliono invece studiosi quali, ad esempio, Arnold J. Toynbee ed Oswald Spengler(36)), essi bensì non indicano altro che la dicotomia fra un modello di civiltà legato al passato, ed una tecnologizzazione energicamente tesa al futuro. In altri termini, questa è agli occhi di Gehlen la prova che la nostra è un’epoca di transizione.
Ma prima di analizzare tale transizione è opportuno vedere quali siano, anche dal punto di vista comportamentale, gli effetti della dicotomia sopraesposta. Disorientato, privo di “immobili culturali” che ne possano guidare l’agire, l’uomo moderno affida il proprio comportamento a degli schemi stereotipati che rappresentano unicamente delle funzioni sociali. Le conseguenze di tale “schematizzazione del comportamento” sono molteplici. Innanzi tutto, l’individuo diviene un mero “titolare di funzioni”, perde la sua unicità ed irripetibilità e viene riconosciuto (e si riconosce) non in base a chi esso sia, ma solamente tramite il ruolo che ha e la mansione che svolge. «È ormai evidente che la società di oggi, razionalizzata al massimo e burocratizzata fino in fondo, pretende la trasformazione quasi completa della persona in un ‘titolare di funzioni’»(37). Inoltre, il fatto che gli individui esistano gli uni per gli altri solo in base all’attività che esplicano, rende gli stesi interscambiabili: al sistema interessa unicamente lo svolgimento di una funzione, indipendentemente da chi ne sia il “titolare”. Ed ancora, questi schemi standardizzati si manifestano nell’ambito delle azioni esteriori, ma penetrano sin negli atteggiamenti interni, generando un “automatismo interiore” per cui non solo i comportamenti, ma anche i ragionamenti, i giudizi, le decisioni, le valutazioni, i valori, si appiattiscono sulla posizione sociale occupata. Il pensiero di una persona dipende ormai, in massimo grado, non dalla persona stessa ma dal suo ruolo svolto nella società. Gehlen non manca perè di notare come la schematizzazione del comportamento comporti anche una funzione di “esonero sociale” che consente all’uomo di superare agevolmente parecchie situazioni, abbandonando le valutazioni schematiche solo di fronte a questioni eccezionali. Tuttavia, la sola esistenza dei “titolari del rendimento”(38) e la liquidazione, sotto l’etichetta di geniali o asociali, degli individui che non rientrano in tale categoria, è una chiara dimostrazione di come la società attuale abbia estremizzato le caratteristiche negative dell’industrializzazione, originando delle collettività totalmente razionalizzate, descrivibili come un “apparato” che
richiede prestazioni limitate, standardizzate e assegnate secondo le capacità; esige e produce, dunque, esistenze che si intersecano con le macchine e i titolari di funzioni, il cui ethos sta non nell’altruismo, ma nella rinuncia alla personalità (nasce così) un gigantesco congegno in continua espansione, lo spauracchio cli una macchina pseudo-vivente(39)
all’interno della quale l’individuo non ha la possibilità di espandere le proprie facoltà, di vivere il proprio spirito, ma solo il dovere di specializzarsi in una data funzione. Ma, nonostante la presenza di tali problematiche, Gehlen non si scaglia contro la civiltà della tecnica (al contrario, ad esempio, del già citato Ortega y Gasset). Egli ritiene infatti che l’uomo non possa prescindere dalla tecnica, poiché essa fa parte della nostra costituzione antropologica: il progresso tecnologico è un qualcosa di cui l’uomo non può fare a meno; facoltative sono le modalità di tale progresso, non il progresso stesso.
Dall’universo della tecnica e delle istituzioni non si può e non si deve uscire. Del resto esso costituisce un “mondo culturale”, quello stesso che l’uomo, “essere incompiuto”, si è costruito, si costruisce, proprio per compiersi. Non si può e non si deve uscire dalla propria casa, abbandonare il proprio “posto nel mondo”(40).
20) Cfr. A. Gehlen, L’uomo delle origini e la tarda cultura, cit.
21) A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 98.
22) Ivi.
23) Ivi.
24) Ibidem, p. 100, corsivo mio.
25) A. Gehlen, Mensch trotz Masse, in «Wort und Wahrheit», 8, 1952, p. 584.
26) A. de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, in Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1951, tomo l, vol. II. p. 234, trad. it., La democrazia in America, Bologna, Cappelli, 1957.
27) A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 64.
28) Ibidem, p.64.
29) Ibidem, p.75. Inoltre, cfr. M. T. Pansera, La specializazione e la perdita di contatto con la realtà, in L’uomo progetto della natura, cit.
30) A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 61.
31) Ibidem, p.54.
32) Ibidem, p.61.
33) Ibidem, p. 116, corsivo mio.
34) Il sentimento della perdita di un baricentro si trova, per Gehlen, alla base delle opere letterarie di Samuel Beckett, Franz Kafka e Robert Musil, nonché dei dipinti di Paul Klee.
35) A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 120.
36) Cfr. A. J. Toynbee, A study of History, London, D. C. Somervell. 1956-57, e O. Spengler, Der Untergang des Abendlandes, München, C. H. Beck, 1950, trad. it., Il tramonto dell’Occidente, Milano, Longanesi, I 954.
37) A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, cit., p. 136. La scienza che studia il grado di efficienza con cui il singolo può andare a prendere possesso di una determinata funzione sociale è, per Gehlen, la “psicotecnica”; per tal via le persone diventano risorse umane e le caratteristiche personali si riducono ad idoneità di adattamento al sistema sociale esistente.
38) Ibidem, p. 137.
39) Ibidem, pp. 139-140, parentesi mia.
40) A. Negri, A. Gehlen: antropologia elementare e psicologia sociale, in A. Gehlen, L'uomo nell'era della tecnica, Milano, SugarCo, 1984, p. XXVIII.
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