di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
“Mi annoio”. Espressione che sentiamo e diciamo sempre più spesso.
Il tema della noia, variamente declinato, attraversa gran parte della filosofia occidentale: da Lucrezio a Seneca e a Marco Aurelio, da Pascal a Kierkegaard, da Schopenauer a Bergson, da Sartre a Camus, a Heidegger, e della letteratura, da Leopardi a Flaubert, da Baudelaire a Moravia.
In poche battute, se la noia è un modo per nominare un vuoto può ben capitare che il mondo che ci circonda rappresenti tale vuoto. In tal caso, il “mi annoio” è un j’accuse contro l’inconsistenza del mondo. E tuttavia in tal caso, se il mondo esterno è vuoto si può sempre trovare solidità in quello interiore, e magari da lì iniziare a (ri)costruire quello esterno – a scanso di equivoci, non mi riferisco a nulla di animistico o di spirituale, ma “semplicemente” al piacere della coltivazione fine a se stessa del proprio talento. Eppure, il “mi annoio” continua a riecheggiare in giro, e sempre più forte. Ma allora, a ben vedere, esso non è un j’accuse contro il mondo ma un’ammissione (per quanto negata e/o inconsapevole) della propria vuotezza.