sabato 8 giugno 2013

La lingua tra proprio ed estraneo. In ascolto dell’altro

di Moira De Iaco (moiradeiaco@libero.it)

(Si pubblica di seguito il testo giunto al primo posto nella sezione Articoli filosofici della VII edizione del Premio Nazionale di Filosofia Le figure del pensiero dell'Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche)

Si potrebbe immaginare il risveglio coscienzioso del parlante, illuso proprietario irretito nella lingua, come una metamorfosi kafkiana: il parlante inconsapevole ora divenuto parlante consapevole che pensa la lingua stando già sempre inevitabilmente nella lingua, si rende improvvisamente conto di non poterla possedere come un oggetto a lui contrapposto o contrapponibile giacché essa da sempre lo abita ed è, a sua volta, irrimediabilmente abitata dall’estraneo. Quando pensiamo il linguaggio lo pensiamo infatti già sempre nel linguaggio, più precisamente nella lingua storica in cui pensiamo; compiamo dunque un’operazione metalinguistica per la quale è impossibile ridurre il linguaggio a oggetto. Il linguaggio si manifesta solo nel linguaggio serbando un’irriducibile resto d’estraneità. Ciascuna lingua attraversa i parlanti dando loro un senso di appartenenza su uno sfondo di non appartenenza, di estraneità. Come Gregor Samsa risvegliatosi scarafaggio, spogliato improvvisamente della sua identità, incapace in quella forma estranea di vivere secondo quella che era la sua presunta identità, ma nella quale egli tuttavia quotidianamente esperiva sotto forma di alienazione l’estraneità, il parlante divenuto consapevole della forma cangiante e plurivoca della lingua, si ritrova incapace di fondare la propria identità sull’identità della lingua. Ciascuna lingua non fonda infatti l’identità della nazione o del singolo parlante, nella misura in cui essa è radicalmente intaccata dall’estraneo. Potremmo perciò dire con Waldenfels che la lingua straniera è una qualità di ciascuna lingua. Non esiste una lingua pura. La prima lingua straniera per ciascuno di noi è la lingua madre, la quale viene appresa dai genitori come fosse per l’appunto una lingua straniera. Ciascuno di noi si sente a casa nella lingua materna e si illude che essa sia propria. Ci sentiamo, per così dire, irrimediabilmente abitati da questo monolinguismo, poiché siamo inconsapevoli delle voci che in esso parlano, dell’alterità che attraverso di esso ci abita. Ciò che è identico ci rende sicuri, ci fa sentire protetti, ci induce alla difesa dall’estraneo. Nel monolinguismo tuttavia c’è solo l’illusione del dominio dell’identità; a voler ascoltare bene, infatti, non parliamo mai la lingua dell’identico, bensì quella dell’estraneo, nella misura in cui le parole, siano anche quelle della lingua a noi più familiare, ossia della madrelingua, non sono mai “nostre”, non sono mai una proprietà privata: sono già sempre dell’altro, sono venute dall’altro. La lingua ci pone dunque da sempre in relazione con l’estraneo consentendoci in tal modo di prestare ascolto all’altro. Essa gode di un interno plurilinguismo[1] ed è plurivoca. Nella lingua, come sottolinea Bachtin, si sentono le voci dei diversi linguaggi e delle altre lingue che la costituiscono compromettendone l’identità. Nella madrelingua non siamo mai del tutto situati. Essa ci attraversa e resta per noi impossibile abitarla come fissa dimora, nella misura in cui è impossibile spiegarla, coglierla una volta per tutte in modo univoco, concettualizzarla. Lo sguardo-attraverso la lingua, è sempre perciò uno sguardo al limite: uno sguardo in esilio.
Riprendendo le parole con cui Goethe caratterizza la natura, possiamo dire che «viviamo in mezzo» alla lingua «e siamo stranieri. Essa parla continuamente con noi e non ci tradisce il suo segreto. Agiamo continuamente su di lei e non abbiamo alcun potere» (Goethe 1962: 21). La lingua, come dice Leopardi, «dentro la stessa nazione, e nelle sue proprie viscere, si divide e si diversifica» (1976: 935). Allo stesso modo, all’interno del parlare con le stesse parole, la lingua si diversifica per via della pluridiscorsività dei differenti contesti linguistici, contesti di gruppo, di professione, di genere discorsuale e politico-sociale. L’idea di una purezza identitaria della lingua su cui fondare l’identità nazionale, oltre che a essere fortemente perniciosa, è dunque impossibile. Pensiamo ai tentativi di accentramento linguistico messi in atto dal regime fascista così come da quello nazista, i quali bandirono ogni forma di esotismo linguistico affinché il potere accentrato potesse omogeneamente imporsi sull’intero territorio. L’accentramento del potere si costituisce mediante l’accentramento linguistico, così come mostra il romanzo di Orwell, nel quale il potere viene appunto imposto mediante un controllo serrato del linguaggio e l’istituzione di una lingua univoca e semanticamente povera, svuotata di ogni plurivocità. L’accentramento linguistico fa poi il paio con l’etnocentrismo, con l’affermazione di un’identità etnica, con una chiusura identitaria nella quale si coltivano pericolosi atteggiamenti prevaricatori nei confronti delle minoranze. Una comunità, anche quella linguistica, si fonda sempre su un ordine selettivo, esclusivo ed escludente. I singoli parlanti  che ne sono parte, perciò, oltre a dover restare consapevoli della singolarità che li distingue, che li rende stra-ordinari, fuori da qualsiasi ordine omologante, devono conseguire la consapevolezza della radicale estraneità che intacca l’ordine della lingua rendendolo un ordine tra i molteplici possibili ordini, determinato da mutevoli condizioni spazio-temporali, storiche e culturali. Vi sono molteplici ordini, più o meno organizzati, differentemente strutturati: nessuno di questi potrà mai ergersi come l’ordine.
Facendo riferimento all’idea di Wittgenstein del linguaggio come gioco, possiamo dire che siamo in balìa del linguaggio nella misura in cui si può strutturare e manifestare la peculiare singolarità di ciascuno e quella del mondo solo nel linguaggio. Così come giocare è già sempre essere giocati, parlare è già sempre essere parlati. Parlare una lingua significa perciò essere già sempre “fuori ruolo”, “fuori identità”, significa lasciarsi dire, lasciarsi trasmutare, farsi attraversare dall’alterità. Parlare è prendere parte al gioco comune, pubblico, del linguaggio, nel quale il singolo diviene cosciente di sé e del mondo solo nella parola dell’altro. Ciascuna lingua «è tanto più una tale trasmutazione che non lascia più sussistere per nessuno l’identità di chi gioca» (Gadamer 2000: 246). Nel linguaggio, nella pubblicità dei segni, ciascun parlante articola se stesso e il mondo già sempre nei segni dell’altro, nelle parole di altri: l’estraneo è radicalmente prioritario rispetto a ciò che consideriamo proprio, al punto che si potrebbe dire, riprendendo un gioco linguistico di Rimbaud che “JE est un autre”, che l’io è un altro. L’estraneo è già qui, dunque, in me stesso. Solo violando ciò che è pubblico, rendendo forzatamente “proprio” ciò che è anche già sempre dell’altro, si può fingere di possedere la lingua e avanzare la pretesa di imporla all’altro. Il parlante non può mai dominare la lingua che articola, così come non può dominare né se stesso né l’altro. Nel gioco della lingua ogni segno viene di volta in volta rigiocato, reinventato, e allo stesso modo viene giocato ogni io nel dialogo con il tu, ogni tu nel dialogo con l’io. Il dialogo in cui ciascuno si trova coinvolto in quanto parlante di una data lingua è espressione dell’impossibilità dell’indifferenza all’altro, è il contatto con l’irriducibile radicale estraneità. Quella che noi riteniamo parola propria è già sempre parola estranea, straniera nel senso di venuta da un altro luogo, da un altro. Quando parliamo perciò già sempre rispondiamo all’altro e dell’altro: parlare significa infatti disporsi in un atteggiamento responsivo. L’altro, occorre dire, si impone a noi senza possibilità di scelta. Lo scopriamo essere parte di noi stessi: l’alterità ci abita. Scoprire l’altro vuol dire dunque scoprire sé nel rapporto autentico con l’alterità; scoprirsi squarciati, denudati dall’alterità; scoprirsi essere già sempre altro. L’altro si rivela nel linguaggio e rivelandosi ci rivela. Questa rivelazione non è conoscenza né comprensione nel senso di com-prendere, ossia di prendere con sé, di possedere una volta per tutte l’altro così come pensiamo di possedere il “nostro io”. Nella rivelazione dell’altro nel linguaggio viene meno il dominio della relazione padronale soggetto-oggetto: l’altro si rivela inaspettatamente nell’impossibilità di concettualizzarlo, di conoscerlo. Nel momento stesso in cui l’altro rivela all’io un’identità, lo espropria dell’identità negandogli la possibilità di possedersi solipsisticamente, prescindendo appunto dal faccia a faccia con l’altro. L’altro non può essere colto sul piano comune, o meglio, sul piano dell’identità: l’altro trascende l’identico nel senso che non si lascia afferrare nel concetto, non si lascia qualificare con attributi che lo ridurrebbero a ciò che lo accomuna agli altri esseri. Egli è altro, vale a dire presenza irriducibile. Quando pensiamo di poter assimilare ciò che simile non è, non ci rendiamo conto dei concetti e pre-concetti che guidano il nostro guardare limitando la capacità di abbandono all’alterità. Scoprirsi sé come un altro nell’altro, scoprire l’altro di me nell’altro da me e l’altro da me nell’altro di me, implica l’impossibilità di considerare se stessi e l’altro come oggetti o soggetti della riflessione; implica l’impossibilità di rifarsi alle categorie soggetto-oggetto. L’altro non può essere rappresentato, ossia non può essere assunto come oggetto contrapposto a un soggetto, bensì può essere solo partecipato in quanto presenza. È nell’intima presenza dell’altro che l’io si dà a un tempo stesso a sé e al mondo oltrepassandosi al di là dell’identità. Nel faccia a faccia con l’altro l’io non conosce se stesso e il mondo, nella misura in cui non può contrapporsi a essi in una relazione soggetto-oggetto, bensì li incontra nella loro presenza, li partecipa come altri. Emerge qui, dunque, l’impossibilità di una conoscenza oggettivante. Comprendere l’altro, comprendere il sé come un altro, potremmo dire, è sempre anche non comprendere, nella misura in cui non si può mai instaurare una relazione di possesso, di dominio. L’altro deve essere per noi presenza di un’irriducibile alterità. Si corre altrimenti il pericolo che com-prenderlo significhi oggettificarlo, sottometterlo, possederlo, quindi rivelarlo e al tempo stesso rifiutarlo. Occorre disporsi all’ascolto dell’altro con cui già sempre ci pensiamo. Stiamo al mondo pensando altro da noi in una lingua che non sarà mai nostra, in quanto parlata già sempre dall’altro, con l’altro[2]. Chi non ascolta la voce dell’altro si chiude in un pernicioso monoculturalismo, monolinguismo, nazionalismo, negando così le molteplici particolari singolarità per affermare l’identità.
La parola dell’altro commuove, nel senso che tocca, che muove: ci pone davanti a una responsabilità. Accogliere il commovente plurilinguismo della lingua significa disporsi all’ascolto dell’altro, significa muovere se stessi a partire dall’altro, per l’altro, nell’altro. Nella trappola tesa dall’identità l’altro non è mai accolto, partecipato, in quanto la supremazia dell’identità celata nell’ospitalità dispone già sempre all’ostilità nei confronti dell’estraneo. Nel monolinguismo non c’è mai l’abbandono di sé nell’altro e manca la consapevolezza della negazione dell’alterità. L’altro deve essere accolto non nel senso di ricevuto. Si riceve, infatti, ciò che in un certo senso già si conosce, ciò che è previsto, ciò che appartiene al proprio. Mentre si accoglie l’imprevisto, l’ignoto, l’estraneo. L’estraneo ci invita all’abbandono. Occorre lasciarsi abitare dall’estraneità, accettare l’abbandono a essa, giacché solo nell’abbandono alla plurivocità linguistica sarà possibile ascoltare l’altro che già sempre ci abita e a partire dal quale soltanto ciascuno di noi si pensa e si dà in una singolarità.


[1] Leopardi sostiene che «la diversità de’ linguaggi sia naturale e inevitabile fra gli uomini […]. La confusione de’ linguaggi, che dice la scrittura essere stato un castigo dato da Dio agli uomini, è dunque effettivamente radicata nella natura […] e fatta proprietà essenziale delle nazioni» (Leopardi 1976: 12-13).
[2] Il pensiero ha inizio con la possibilità di concepire una libertà esterna alla mia. Pensare una libertà esterna alla mia è il primo pensiero. Esso contraddistingue la mia prima presenza al mondo. Il mondo della percezione manifesta un volto: le cose ci colpiscono in quanto possedute da altri (Lévinas 1998: 44).

Bibliografia
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(Interculturalità tra universalismo e particolarismo. Prospettive interdisciplinari, a cura di G. Cacciatore, K. A. Lindhal, G. Sander, Mimesis, Milano, 2013, ISBN 9788857509303)

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