mercoledì 22 maggio 2013

Genealogia della violenza e ideocrazia in Walter Benjamin

di Libero Federici (federici.libero@virgilio.it; III di 3)

Ma la violenza affermata che ha fondato il diritto, e che di questo è monopolio nelle vesti di violenza conservativa, deve guardarsi dalle non sopite Gewalten degli altri individui perché in esse pulsano spinte che possono scardinare gli ingranaggi della macchina giuspolitica. Infatti se vi sono fini naturali che singole persone possono perseguire con un grado di violenza più o meno grande, allora è l’intero ordinamento giuridico, e la realtà sociale che esso disegna, ad essere a rischio. Benjamin sostiene l’esigenza di riconoscere che “la violenza, quando non è in possesso del diritto di volta in volta esistente, rappresenti per esso una minaccia, non a causa dei fini che essa persegue, ma della sua semplice esistenza al di fuori del diritto”[1]: è il monopolio che il diritto ha della Gewalt ad essere messo in discussione, non la Gewalt in quanto tale. La violenza sanzionata teme le violenze non sviluppate dei singoli perché, dualisticamente analoghe ad essa, si situano fuori dal perimetro giuridico, potrebbero dispiegare la loro caratteristica di creare diritto proprio a partire dalla loro estraneità al riconoscimento della Gewalt e del Macht affermati: topografia dell’etero-nomia. La Gewalt dominante deve piallare le asperità delle sue gemelle dotate di minore intensità, non devono rimanere spazi che non siano stati levigati. Le alterità vanno depotenziate per garantire la salvaguardia degli istituti posti e dell’Identità da cui essi hanno preso forma “poiché il potere che conserva il diritto è quello che lo minaccia”[2].
Tuttavia nel plesso giuridico c’è un elemento in cui è permesso ad una Gewalt altra di manifestarsi: è il diritto di sciopero come espressione della lotta di classe[3]. Afferma Benjamin: “Per quale funzione la violenza possa apparire, a ragione, così pericolosa al diritto, ed esserne così temuta, apparirà proprio là dove le è ancora permesso di manifestarsi anche secondo l’ordinamento giuridico attuale. Ciò si verifica anzitutto nella lotta di classe, nella forma del diritto di sciopero ufficialmente garantito agli operai. La classe operaia organizzata è oggi, accanto agli Stati, il solo soggetto giuridico a cui spetti un diritto alla violenza”[4]. Il diritto di sciopero[5] viene concesso dallo Stato per ritardare ed allontanare il portato violento della lotta di classe, ma esso può divenire un fenomeno dirompente per il quadro etero-coattivo, può imporre un mutamento dell’esistente ordine giuridico-sociale in quanto estrinsecazione di tutta la Gewalt della classe operaia organizzata: “Poiché nello sciopero lo Stato teme, più di ogni altra cosa, quella funzione della violenza che questa indagine si propone appunto di determinare come unico fondamento sicuro della sua critica. Poiché se la violenza, come sembra a prima vista, fosse semplicemente il mezzo di assicurarsi direttamente di quella cosa qualunque a cui si mira, essa potrebbe assolvere al suo scopo solo come violenza di rapina. E sarebbe affatto inetta a fondare o modificare rapporti in modo relativamente stabile. Ma lo sciopero mostra che essa può farlo, che è in grado di fondare e modificare rapporti giuridici […]. Soggetti giuridici sanzionano poteri i cui fini restano – per quelli che li sanciscono – fini naturali”[6]. Nel dispositivo del diritto d’Identità, mirante ad isolare la Gewalt dell’alterità, può annidarsi ed ispessirsi il potere della contraddizione di quest’ultima. Una particolarità importante è costituita anche dalla polizia. Questa viene definita “spettrale” in quanto in essa sono mescolate insieme la violenza fondativa e quella conservativa: “Essa è bensì un potere a fini giuridici (con potere di disporre), ma anche con la facoltà di stabilire essa stessa, entro vasti limiti, questi fini (potere di ordinare). L’aspetto più ignominioso di questa autorità […] consiste in ciò che, in essa, è soppressa la divisione fra violenza che pone e violenza che conserva la legge. Se si esige dalla prima che mostri i suoi titoli nella vittoria, la seconda è soggetta alla limitazione di non doversi porre nuovi fini. La polizia è emancipata da entrambe le condizioni. Essa è potere che pone – poiché la funzione specifica di quest’ultimo non è di promulgare le leggi, ma qualunque decreto emanato con forza di legge – ed è potere che conserva il diritto, poiché si pone a disposizione di quegli scopi”[7]. Nella sua penetrazione in ogni dove la polizia è presenza che pone e impone, indeterminata determinazione che si insinua in ogni ambito forzandolo alla propria volontà. Il suo profilo non prevede demarcazione tra setzen ed erhalten, è gestaltlos, privo di forma in quanto le sue frange possono indistintamente arrivare dappertutto con effetti compositivi o de-compositivi. Pur non essendo organo di emanazione legislativa la sua prassi è fatta di provvedimenti che producono situazioni e realtà, la sua attività si svolge come tecnica di individuazione di spazi da svuotare e da formare-informare con il meccanismo del comando incontrastabile. La Polizeigewalt può essere talmente elevata da diventare addirittura paradossale se pensata nel suo rapporto con la propria istituzione di riferimento, ossia lo Stato: “Il <<diritto>> della polizia segna proprio il punto in cui lo Stato, vuoi per impotenza, vuoi per le connessioni immanenti di ogni ordinamento giuridico, non è più in grado di garantirsi – con l’ordinamento giuridico – gli scopi empirici che intende raggiungere ad ogni costo. Perciò la polizia interviene, <<per ragioni di sicurezza>>, in casi innumerevoli in cui non sussiste una chiara situazione giuridica, quando non accompagna il cittadino, come una vessazione brutale, senza alcun rapporto con i fini giuridici, attraverso una vita regolata da ordinanze, o addirittura non lo sorveglia”[8]. Il diritto della polizia, la sua Gewalt, può travalicare gli spazi dell’ordine giuridico, il dislocamento della sua implacabile spettralità può eccedere lo stesso plesso legislativo per garantire l’esistenza di quest’ultimo: eterotopia della coercizione in funzione dell’universalizzazione dell’Identità stessa.
Il quadro giuridico delineato da Benjamin sottende, pertanto, un principio di necessità. Infatti la legge del diritto, pur nella varietà delle Rechtsformen, è ogni volta un continuum di alternanza tra violenza fondativa e violenza conservativa; ogni volta l’ideologia/ideocrazia della violenza diventa violenza dell’ideologia-ideocrazia, tautologia che esprime il violento (enunciativo-storico e dispositivo) dell’Identità. La costante è sempre la violenza, il diritto non è che un suo stadio, sistema meccanico che ripete la prospettiva mitico-destinale: incessante progressione della violenza, ribadito è ogni volta il termine-elemento violento. Perciò “la critica della violenza è la filosofia della sua storia. La filosofia di questa storia, in quanto solo l’idea del suo esito apre una prospettiva critica, separante e decisiva, sui suoi dati temporali. Uno sguardo rivolto solo al più vicino può permettere tutt’al più un’altalena dialettica tra le forme della violenza che pone e che conserva il diritto. La legge di queste oscillazioni si fonda sul fatto che ogni violenza conservatrice indebolisce, a lungo andare, indirettamente, attraverso la repressione delle forze ostili, la violenza creatrice che è rappresentata in essa […]. Ciò dura fino al momento in cui nuove forze, o quelle prime oppresse, prendono il sopravvento sulla violenza che finora aveva posto il diritto, e fondano così un nuovo diritto destinato a nuova decadenza. Sull’interruzione di questo ciclo che si svolge nell’ambito delle forme mitiche del diritto, sullo spodestamento del diritto insieme alle forze a cui esso si appoggia (come esse ad esso), e cioè in definitiva dello Stato, si basa una nuova epoca storica. Se l’impero del mito è già scosso qua e là nel presente, quel nuovo non è in una prospettiva così lontana e inaccessibile che una parola contro il diritto debba condannarsi da sé”[9]: siamo ad un nodo assiale del pensiero filosofico e giuspolitico benjaminiano, ovvero quello in cui Benjamin tematizza, in maniera densissima, una “violenza pura immediata”. Questa non è in relazione con il diritto e con le violenze che lo fondano e conservano, sta oltre essi, è altro da essi[10]. La violenza pura immediata, che Benjamin chiama anche “violenza divina”, può arrestare il corso delle successioni violento-giuridiche e della sottesa mythische Gewalt, ogni relazione strumentale del creazionismo giuridico e ogni necessità mitica vengono da essa dissolte[11]: “Se la violenza mitica pone il diritto, la divina lo annienta, se quella pone limiti e confini, questa distrugge senza limiti, se la violenza mitica incolpa e castiga, quella divina purga ed espia, se quella incombe, questa è fulminea, se quella è sanguinosa, questa è letale senza sangue”[12]. Alla dóxa della naturalizzazione mitica e al Grunddogma giuridico, per cui fini giusti possono essere raggiunti con mezzi legittimi così come mezzi legittimi possono essere adoperati a fini giusti, si oppone la violenza pura che immediatamente non sta in quella relazione, immediatamente non è mezzo per uno scopo; anzi essa, e qui si avvertono gli echi dello scritto “Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen”, recide ogni nesso di strumentalità e, con esso, depone quel legame tra violenza fondativo-conservativa e diritto che la storia ha conosciuto come esclusivo: il discorso si chiude destituendo quel classico e identitario rapporto tra Gewalt e Recht, “la critica della violenza è la filosofia della sua storia”. Impossibile per gli uomini riconoscerla[13], la violenza pura immediata destruttura l’ugualità mitico-normativa in quanto differentemente nuova e completamente altra: “Riprovevole è ogni violenza mitica, che pone il diritto, e che si può chiamare dominante (schaltende). Riprovevole è pure la violenza che conserva il diritto, la violenza amministrata, che la serve. La divina, che è insegna e sigillo, mai strumento di sacra esecuzione, è la violenza che governa (waltende)”[14]. La reine unmittelbare Gewalt è transito di una nuova dimensione disarticolante i legami tra significati e significanti ideocratici che hanno indissolubilmente segnato “questa storia”.  La “nuova epoca storica” è il tempo di questa violenza pura immediata che nel suo essere novum diventa l’abisso della fittività infinita e delle sue validificazioni, del diritto d’Identità e dei suoi contaminanti dispositivi: fine del regno della necessità e inizio svincolato-svincolante di quello della libertà.


[1] Ivi, p. 9.
[2] Ivi, p. 14.
[3] Su ciò si veda l’interessante saggio di W. HAMACHER, Afformative, Strike: Benjamin’s ‘Critique of Violence’, in A. BENJAMIN, P. OSBORNE, Walter Benjamin’s Philosophy. Destruction and Experience, London-New York 1994, pp. 110-138.
[4] W. BENJAMIN, Zur Kritik der Gewalt, cit., pp. 9-10.
[5] Sulla scia di Sorel Benjmain individua due tipi diversi di sciopero: lo sciopero generale politico (politischer Generalstreik) e lo sciopero generale proletario (proletarischer Generalstreik). Il primo è attraversato dall’idea di rafforzamento dello Stato: di esso non si vuole il superamento ma solo una diversa appropriazione. Lo sciopero generale politico non aspira alla soppressione dello Stato ma ad un cambio di guida al vertice di esso che, anzi, si vuole sempre più solido: siffatto avvicendamento è ciò che vogliono i socialisti moderati nel loro centralismo di fondo. Lo Stato, in tale prospettiva, non deve perdere la sua potenza; l’unico movimento a cui deve assistere è la sostituzione, nell’amministrazione delle leve del potere decisionale, di privilegiati con altri privilegiati: ma i lavoratori vedrebbero soltanto nuovi padroni e non differenti e disalienanti condizioni d’esistenza. Al contrario lo sciopero generale proletario mira alla distruzione del potere statale, autentico compito della classe proletaria; riforme e decreti non sono né il mezzo né il fine bensì scompaiono in quest’ottica che vede nella Vernichtung der Staatsgewalt un gradino necessario all’apertura di una emancipazione umana. Il proletarischer Generalstreik non ha il suo senso nella conquista dello Stato a cui far seguire una fenomenologia del nuovo dominio nella forma del vecchio, piuttosto sottende il motivo di un altro ordo di socialità e relazioni: infatti “Non ha luogo nella disposizione a riprendere, dopo concessioni esteriori e qualche modificazione nelle condizioni lavorative, il lavoro di prima, ma nella decisone di riprendere solo un lavoro interamente mutato, un lavoro non imposto dallo Stato; un rovesciamento che questa specie di sciopero non tanto provoca quanto realizza direttamente. Ne consegue che la prima di queste imprese pone in essere un diritto, la seconda è anarchica”, W. BENJAMIN, Zur Kritik der Gewalt, cit., p. 21. Sul riferimento benjaminiano a Sorel cfr. E. CASTRUCCI, art. cit., pp. 250-253 e M. PALMA, La prima ricezione di Sorel in Germania tra Benjamin e Schmitt<<Quaderni del laboratorio Hans Kelsen>>, II, 2007, pp. 279-301.
[6] Ivi, p. 11.
[7] Ivi, p. 15.
[8] Ivi, p. 16.
[9] W. BENJAMIN, Zur Kritik der Gewalt, cit., p. 29.
[10] Cfr. G. AGAMBEN, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, cit., pp. 72-76.
[11] Cfr. B. HANSSEN, On the Politics of Pure Means: Benjamin, Arendt, Foucault, in H. de VRIES-S. WEBER, Violence, Identity and Self-Determination, Stanford 1997, pp. 236-252.
[12] W. BENJAMIN, Zur Kritik der Gewalt, cit., p. 26.
[13] “Poiché solo la violenza mitica, e non quella divina, si lascia riconoscere con certezza come tale; salvo forse in effetti incomparabili, perché la forza purificante della violenza non è palese a uomini”, W. BENJAMIN, Zur Kritik der Gewalt, cit., p. 29.
[14] W. BENJAMIN, Zur Kritik der Gewalt, cit., p. 30. Il discorso elaborato in Zur Kritik der Gewalt sulla contrapposizione tra il mondo-tempo del mito e del diritto fondato-conservato dalla violenza e quello della reine umittelbare Gewalt è all’unisono con quello svolto nel coevo Theologisch-politisches Fragment. Qui, infatti, Benjamin afferma che “Solo il Messia stesso compie ogni accadere storico e precisamente nel senso che egli soltanto redime, compie e produce la relazione fra questo e il messianico stesso. Per questo il regno di Dio non è il Telos della Dynamis storica; esso non può essere posto come scopo. Da un punto di vista storico, esso non è scopo (Ziel), ma termine (Ende)”, W. BENJAMIN, Theologisch-politisches Fragment, in GS, II, 1, tr. it. Frammento Teologico-politico, in ID, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, Torino 1982, p. 171. L’ordine mondano è caduco, trapassa sia temporalmente che spazialmente; la natura è messianica per la sua eterna e totale caducità: “Tendere a questa, anche per quei gradi dell’uomo che sono natura, è il compito della politica mondiale, il cui metodo deve essere chiamato nichilismo”, ivi, p. 172. Nichilismo come negazione dell’ordine politico per favorire l’approssimarsi dell’irruzione messianica che del mondo è Ende, così come la reine umittelbare Gewalt scardina la relazione tra violenza e diritto ed è alterità rispetto ad essa.

(«Sociologia. Rivista quadrimestrale di Scienze Storiche e Sociali», n. 1, 2011)

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