di (nota iniziale) Afrodita Carmen Cionchin (info@afroditacionchin.ro) e (domande) Maria Giovanna Farina (mg.farina2@alice.it)
Fenomeno universalmente riconosciuto come epocale, anche le migrazioni si inquadrano in quel più ampio quadro di questioni sociali ed etiche che solo un robusto approccio riflessivo può adeguatamente accostare. «Di fronte al fenomeno delle migrazioni – segnala Federico Sollazzo, ricercatore di Filosofia Morale e Lettore presso l’Università di Szeged (Ungheria) – ci si divide in favorevoli e contrari, con varie sfumature (come chi caritatevolmente professa il motto "aiutarli a casa loro", o chi vorrebbe applicare un filtro per selezionare solo "utili risorse umane"). Dirsi favorevoli o contrari significa però, da un lato, imporre la propria volontà sulle vite altrui, e dall’altro, ragionare nei termini di interessi politico-economici costituiti, che di volta in volta, a seconda delle loro necessità e spesso in conflitto fra loro stessi, incoraggiano, scoraggiano ed applicano griglie discriminanti alle migrazioni. Per uscire da simili problematiche, si deve allora uscire da prospettive giudicanti, favorevoli e contrarie, e lasciare che le migrazioni possano avvenire esclusivamente in base alla volontà dei migranti, rimuovendo quindi quei fenomeni che trasformano una possibile volontà in una stringente necessità, e pretendere che le strutture del mondo in cui viviamo siano calibrate per consentire ciò. Anche la Romania è un Paese, come altri dell'Est Europa, interessato da fenomeni migratori. Le migrazioni però oggi, su scala mondiale, non appaiono più "lineari" come in passato, quando erano divise in Paesi caratterizzati quasi esclusivamente da emigrazioni ed altri quasi esclusivamente da immigrazioni, essendosi oggi prodotto un nuovo fenomeno, quello di Paesi, come l’Italia, caratterizzati allo stesso tempo da un flusso in entrata (nel caso italiano, composto perlopiù da manodopera) ed uno in uscita (nel caso italiano, composto perlopiù da lavoratori intellettuali)».
Nel suo recente libro Totalitarismo, democrazia, etica pubblica. Scritti di Filosofia morale, Filosofia politica, Etica, recentemente uscito per i tipi della Aracne Editrice di Roma, Sollazzo delinea un più ampio quadro di questioni – totalitarismo e democrazia, il rapporto tra cultura ed etica, il posto dell’etica nella convivenza sociale e la sacralità della vita – brevemente riprese nell’intervista realizzata da Maria Giovanna Farina.
Come scrivi nel primo capitolo del tuo nuovo libro Totalitarismo, democrazia, etica pubblica. Scritti di Filosofia Morale, Filosofia Politica, Etica, Aracne Ed., molti pensatori del ‘900 individuano all’interno della società contemporanea "la degenerazione della capacità di pensare autonomamente". Ci spieghi cosa significa?
Mi riferisco al fatto che nella modernità cambiano le modalità del controllo sociale (il cosiddetto dominio dell’uomo sull’uomo) passando da pratiche che disciplinano la dimensione fisica, esteriore a modelli che amministrano quella coscienziale, interiore; in questi termini l’autonomia e l’autenticità del pensiero vengono meno e si può parlare di transizione dalla società della disciplina a quella del controllo.
Cosa intendi con coscienza falsamente felice?
Quello di coscienza falsamente felice è un concetto marcusiano (a me caro) che sta ad indicare come nella modernità i modelli di dominio siano stati introiettati al punto tale che, non solo non vengono riconosciuti come tali, ma vengono identificati come dei desiderata che producono quelle che il sistema (altro termine marcusiano a me caro, che ritengo però debba essere rielaborato) ci induce a chiamare gratificazioni (che sono altro dalle soddisfazioni); da qui, l’inautenticità di quest’ultime e la conseguente inautenticità, e quindi falsità, di una felicità su di esse basata.
Nel tuo libro parli di Etica, quale posto occupa l’Etica nella convivenza sociale?
Quello di etica è un termine talmente vasto che prima di iniziare dei ragionamenti su di esso basati, bisognerebbe definire con precisione cosa intendiamo quando lo nominiamo. Se, ad esempio e in via approssimativa, la volessimo considerare come l’insieme dei comportamenti finalizzati alla realizzazione del bene, dovremmo allora interrogarci sulla natura del bene, sul modo in cui lo intendiamo, sulle condizioni della sua pensabilità e realizzabilità, su coloro che se ne considerano i rappresentati e depositari, ecc…
Quale filosofo, a tuo avviso, mostra la posizione più originale e proficua a livello concettuale, nel saggio che hai scritto?
Non riesco a rispondere a questo, tutti gli autori che ho citato sono per me, ciascuno a suo modo, determinanti; credo che a un certo livello non vi siano differenziazioni gerarchiche, ma di merito.
Cosa dovrebbe essere la sacralità della vita?
Come ci dice la Arendt, quello della sacralità della vita è un concetto cristiano che si è radicato a tal punto in Occidente da sopravvivere alla secolarizzazione arrivando intatto sino ai giorni nostri. Quello che io mi chiedo è se tale concetto continui ad essere propedeutico al raggiungimento di una soddisfacente esistenza, motivo per il quale il concetto stesso nacque, o se oggi esso sia diventato un ostacolo al raggiungimento di quello stato; in tal caso esso dovrebbe essere, non abbandonato, ma de-assolutizzato, inserito in un orizzonte concettuale nel quale esso non sia il fine ma un mezzo al servizio di uno scopo ulteriore alla sopravvivenza e al quale quest’ultima è subordinata.
Qual è la forza delle emozioni?
Questa prospettiva la traggo dalla Nussbaum, che attribuisce alle emozioni (ovvero all’ambito dell’emozionalità e non a quello dell’emotività) una valenza etica normativa, saldando così la dimensione delle emozioni (ciò che si prova) con quella della razionalità (pensieri e atti derivanti da ciò che si prova) ed evitando il pericolo del solipsismo (ogni emozione è fondamentalmente una compassione, un patire con-, il ché ricorda le considerazioni arendtiane sul pensare a partire dal punto di vista del prossimo).
Che rapporto esiste tra cultura ed etica?
Anche in questo caso ci riferiamo a termini talmente vasti che occorrerebbe fare una preliminare taratura linguistico-concettuale. Propedeuticamente si potrebbe dire che la cultura rappresenti l’insieme dei valori di una certa società, e l’etica l’insieme dei comportamenti legittimati da quei valori.
Che cos’è il biopotere?
E’ uno dei concetti più preziosi lasciatici in eredità da Foucault, che sta ad indicare come, in maniera del tutto innovativa rispetto al passato, nella modernità il potere attui una presa in carico della vita, del biologico, del bios, sintetizzata nella celebre frase foucaultiana secondo cui: «Si potrebbe dire che al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte». Personalmente ritengo che questa prospettiva, unitamente al marcusiano concetto di sistema ed alle visioni di Pasolini sul potere, produca una sorta di articolato unicum indispensabile alla decifrazione della modernità.
Il totalitarismo come ha condizionato l’uomo?
Come scrivo nel libro, vorrei distinguere tra un’accezione di totalitarismo come evento politico-sociale ed una come categoria concettuale. Nel primo caso i condizionamenti riguardano l’esteriorità, tramite l’inserimento dei comportamenti in determinate pratiche disciplinatorie (che però non è affatto detto, come nel caso del fascismo italiano, che producano un’introiezione di tali modelli disciplinatori). Nel secondo caso il condizionamento consiste nell’indurre le persone ad indossare una sorta di identità preconfezionata, quindi inautentica, divenendo così dei personaggi, dei gehleniani "titolari di funzioni", dei marcusiani "uomini ad una dimensione", dei foucaultiani "normalizzati".
Come si può realizzare una società giusta e che non "distrugga" la persona?
Per rispondere bisognerebbe preliminarmente definire dei criteri di giustizia, a loro volta, basati su una certa idea di persona. Se, semplificando, definissimo l’uomo come un insieme di potenzialità, facoltà e bisogni psico-fisici, potremmo dire che una società giusta sia quella che permette la soddisfazione di tali bisogni e l’espansione di tali facoltà.
Alla luce dei tuoi studi, pensi che la democrazia sia davvero la miglior forma di governo? O esiste un’alternativa più consona?
A mio parere, questa è una delle questioni più urgenti da affrontare, a partire da una chiarificazione linguistco-concettuale del termine democrazia, sempre più citato a sproposito, abusato e strumentalizzato. Credo, e su questo vorrei lavorare prossimamente, che le istituzioni e i meccanismi politici siano sempre storici, e che derivino gravi problemi dal confondere un mezzo, gli automatismi politici, con il fine, la tensione alla giustizia (o meglio, alla giustezza), in quest’ottica credo che i meccanismi politici occidentali di oggi necessitino di essere profondamente ripensati e radicalmente riconfigurati (è evidente, ad esempio, come essi non assicurino nessun filtro qualitativo – essendo basati sulla falsa sinonimia tra quantità e qualità – e come riproducano quei privilegi per combattere i quali nacquero), in direzione della comprensione in essi di criteri qualitativi (che non degradino in gerarchizzazioni despotizzanti); ma per far questo, è necessario partire da una preliminare riflessione antropologica.
Per ordinare il libro: http://www.aracneeditrice.it/aracneweb/index.php/pubblicazione.html?item=9788854840515
(come Intervista a Federico Sollazzo, in «L'accento di Socrate», n. 14, 2011, e come Totalitarismo e democrazia a confronto. In dialogo con Federico Sollazzo, con nuova nota iniziale non titolata, in «Orizzonti culturali italo-romeni», VIII, 2011)
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