di Fulvio Baldoino (baldoinofulvio@gmail.com)
Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.
E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:
Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l'aratro in mezzo alla maggese.
Se si cerca di sviluppare un discorso in cui i simboli indichino chiaramente in corrispondenza biunivoca di cosa sono simboli, si è imboccata la strada sbagliata.
Intanto, se non ci riesci, sa che i suoi versi lineari, semplici, evocativi, le maestre continueranno ad assegnarli da mandare a memoria agli scolari per la loro concreta, immediata semplicità.
Capire a fondo questo madrigale esige realizzare che le corrispondenze sono transitive e polivalenti.
Cioè se A è uguale a B, e B è uguale a C, anche A è uguale a C... ma qualche volta no.
Cosa quest'ultima che per un verso conferma e per l'altro nega la interpretazione logica del simbolo, e lo inserisce in un travaso onirico.
La poesia, un po' come tutte le altre della raccolta Myricae, si presenta nei termini di un quadretto agreste, un videoclip apparentemente solo descrittivo che con il sapiente richiamo visivo della prima strofa e uditivo della seconda, sa creare nella terza la tonalità emotiva di un haiku pervaso di malinconia.
Tra una parte del campo, nera perché ne sono già state rivoltate le zolle, e una parte grigia, non ancora lavorata, sta un aratro, fermo dacché i buoi non ci sono più.
Il caldo della terra rovesciata dal versoio, a contatto dell'aria fredda crea una leggera nebbia che ci rivela il quadro temporale in cui viene inserito questo retablo: l'autunno.
Perché i buoi non hanno concluso l'aratura? È loro la colpa o del contadino che ha smesso di pungolarli e li ha liberati dal giogo?
Dal canale giunge il canto delle lavandaie che sembrano ritmarlo con i colpi prodotti dai panni sbattuti sulle pietre.
I tonfi sono spessi, cioè frequenti, sordi e pesanti; le cantilene lunghe, ripetute, stanche.
Dalle frasche le foglie staccate dal vento cadono come fossero fiocchi di neve ("nevica" è usato transitivamente) e già troppo tempo è trascorso, come suggerisce l'avverbio "ancora" e il verbo "partisti", l'unico al passato remoto.
Ma chi partì? L'esito più immediato indicherebbe lo sposo o il promesso sposo. Ma è proprio così? È proprio solo così?
Dare risposta a questa domanda retorica vuol dire essere nella prospettiva favorevole per comprendere come vi siano nel testo almeno un paio di ossimori, ovvero contraddizioni apparenti, che possono essere sciolti se si trova la chiave giusta. E in Pascoli non è difficile: la famiglia. Tutto prima o poi, direttamente o indirettamente, porta lì.
Allora cominciamo a notare che il gruppo di lavandaie finisce per divenire, nella singolarità di ogni componente, il portavoce di una sorella dal destino condiviso. E ognuna canta, immedesimandosi in questo alter ego ideale, la sua propria solitudine, il suo proprio dolore.
Le parole sono quelle per tutte, ma la storia che c'è dietro è diversa per ognuna.
Così vediamo in quei buoi che non tirano più l'aratro, i genitori del poeta.
Egli si inserisce con nascosta prepotenza in una fotografia dove il fotografo dopo aver impostato il tempo di scatto, va a posizionarsi tra chi già è in posa, per raccontare con quell'immagine anche la sua parte, attraverso una licenza semantica che si può permettere soltanto chi ordisce le fila della narrazione: lui, uomo, che canta quel bambino che è stato e in larga parte ancora è (aratro) lasciato solo dai genitori (buoi) che, morti (partiti) durante la sua preadolescenza, non sono ovviamente più tornati, e non hanno potuto prepararlo fino in fondo a vivere la vita (il campo dissodato solo a metà).
Però possiamo volgere lo sguardo di nuovo alle lavandaie.
Possiamo immaginare che lo sposo o colui che avrebbe dovuto diventarlo, sia andato lontano (ricordiamoci che Pascoli trae lo spunto per questa lirica da uno stornello del folclore marchigiano il cui tema era la solitudine per la lontananza dell'amato) e che ognuna di loro rivoglia indietro ciò che la vita le ha tolto. Ognuna di loro, cioè lei.
E con lei le valenze vanno riposizionate. Perché se il simbolo dell'aratro resta collegato alla protagonista senza ombra di dubbio: "quando partisti, come son rimasta! / come l'aratro in mezzo alla maggese", a lei ci rimanda anche il campo che l'aratro-fallo (e quindi in ossimoro con l'aratro-donna) non ha solcato ancora o non ha solcato ancora tanto, da renderlo pronto ad accogliere la semina.
Lei è l'aratro abbandonato; e sempre lei la maggese, termine che denota sia il campo lasciato a riposo, sia la pratica agricola atta a rigenerare la fertilità del terreno e, come se non bastasse, che ammette l'uso grammaticale oltreché del maschile pure (e grato il poeta ne approfitta) del più raro femminile.
E perciò lei, l'amato e il poeta, siamo autorizzati a concettualmente tradurli in una sorta di cangiante, metaforico ermafrodita, che non si accontenta di un'unica forma per trasmettere l'intuizione lirica.
Ecco, come si diceva, la transitività e la polivalenza: la lavandaia che si identifica nell'aratro in quanto abbandonato da chi lo trainava; ma anche nella maggese, in quanto abbandonata dall'aratro.
E capiamo che è tutta una storia di abbandoni: chi è abbandonato, abbandona a sua volta.
Ma come l'aratro, oggetto-simbolo della donna lasciata sola, riesce ad assumere la valenza di oggetto-simbolo dell'io narrante abbandonato?
Anche lì in modo del tutto particolare. Chi conosce un po' Pascoli, la sua biografia e la sua sensibilità, senza bisogno di chiedere a Freud, dovrebbe sapere che l'aratro immobile nel campo, sta ad indicare la sua (di Pascoli) sessualità bloccata, impossibilitata a coltivare un futuro in una famiglia o in un amore.
La fatica del vivere (le tante cadute de "i tonfi spessi"), e il tempo della speranza che s'accorcia nella ripetitiva lentezza di una cantilena, sono della donna dello stornello e di ciascuna lavandaia del madrigale; sono del poeta come soggetto e del poeta come oggetto.
Tutto sembra ancora più immobile dentro al vento che soffia.
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