di Marco Viscomi (marcoviscomi@libero.it)
Oggigiorno, si mostra assai arduo e, in certo senso, avventato impegnarsi nell’edizione critica di un qualsivoglia testo heideggeriano. Per un verso, infatti, risulta fattualmente complesso riuscire a superare illesi l’intricata trafila burocratica, alla quale deve sottostare un editore per poter riuscire a editare, per i propri tipi, un’opera del filosofo di Messkirch. D’altro canto, le temperie – cronachistiche più che realmente filosofiche – nelle quali è stata coinvolta la figura storica di Martin Heidegger, dall’edizione dei Quaderni neri sino ad oggi, sembra gettare discredito su chiunque voglia ancora tornare ad approfondire il lascito heideggeriano. Tuttavia, l’iniziativa di quegli studiosi, che non si arrendono nell’abbandonare l’essenza più profonda del pensiero alla superficialità delle mode, merita sempre incoraggiamento e attenzione. Il desiderio di ritornare continuamente all’essenza più profonda della meditazione attira infatti la più autentica cura per il pensiero filosofico, cioè quella che non esclude il frutto di una speculazione, individuata da un singolo pensatore, facendo leva sulla discutibile personalità di quello stesso filosofo. Quell’attenzione profonda per la verità si pone piuttosto l’intento di considerare anche le più piccole forme della manifestazione del vero, vale a dire quelle che si possono essere date anche in quello che potrebbe sembrarci il più abietto degli esseri umani.
È proprio questo lo spirito di sincero impegno riflessivo che vedo incarnato dalla riedizione degli scritti heideggeriani Die Frage nach der Technik e Wissenschaft und Besinnung, curati dal giovane editore goWare (Firenze 2017). Già raccolti nel volume 7 (Vorträge und Aufsätze, Klostermann, Frankfurt a.M. 2000, pp. 7-65) della Gesamtausgabe heideggeriana curata da F.-W. von Herrmann, questi due saggi vengono riproposti nella traduzione di G. Vattimo edita da Mursia (Milano 2007). I testi delle due conferenze, tenute entrambe da Heidegger nel 1953, vengono introdotti da un saggio di F. Sollazzo, il quale si preoccupa di contestualizzare i due contributi heideggeriani alla luce della proposta di ripubblicazione attuata dall’editore fiorentino.
Ora, non mi pare il caso di ripetere ancora una volta quali siano le posizioni speculative esposte da Heidegger a proposito della questione attinente alla tecnica. Il contributo apportato dal pensatore di Messkirch a questa problematica risulta infatti tanto indubbio, quanto già abbondantemente assimilato sia dalla storia della filosofia contemporanea, sia dall’indagine più essenzialmente teoretica del pensare. Il luogo di una recensione non si mostra d’altronde idoneo ad approfondire una tematica così ampia, come quella dell’indagine filosofica sulla tecnica intesa da Heidegger in rapporto alla storia dell’oblio dell’Essere e al destino dell’Occidente. Estranea ad un simile intento compendiario si mostra del resto anche la stessa Introduzione critica, proposta nella presente riedizione dei due discorsi heideggeriani su La questione della tecnica e sul rapporto fra Scienza e meditazione. Ciò che ci si può limitare a fare nel contesto ristretto e specifico di una recensione a un testo, ben noto ai lettori e semplicemente riedito, mi pare possa essere piuttosto l’intento di dar ragione dei motivi pregnanti di questa ripubblicazione. Problematiche, queste ultime, tra l’altro ben esposte da Sollazzo nella sua prefazione alle traduzioni di Vattimo.
In primo luogo, è bene ribadire una volta di più come le critiche mosse da Heidegger alla tecnica non consistano in una sorta di fobia della tecnica medesima, né in una qualche demonizzazione di quest’ultima. Il filosofo di Messkirch non sviluppa infatti una critica rivolta contro la tecnica, ma una considerazione fondamentale interessata all’essenza della tecnica stessa. Un simile studio non si preoccupa affatto di giudicare positivamente o negativamente l’oggetto della sua investigazione, in quanto esso si mostra interessato a considerare semplicemente il carattere costitutivo di ciò che indaga. Ecco il senso per cui Heidegger parla della tecnica moderna in riferimento alla sua modalità ontologica ed essenziale di presentarsi: alla luce dello sguardo prettamente speculativo adottato da Heidegger, la tecnica coincide con una modalità fondamentale del disvelamento della verità dell’Essere. Vale a dire: un modo in cui l’Essere stesso giunge alla propria verità, nonché un’attitudine in virtù della quale l’esistente umano si pone nell’orizzonte veritativo del proprio esserci.
In quanto la tecnica costituisce per Heidegger un modo in cui l’Essere si destina storicamente all’essere umano, essa rappresenta costitutivamente una specifica modalità seguendo la quale l’uomo si pone in relazione all’essere stesso. Tale modalità relazionale, che lega insieme l’essere stesso quale evento (Ereignis) e l’esistente umano in quanto singolo esserci (Dasein), consiste nella riduzione dell’intero essente a fondo (Bestand). Nell’età della tecnica, cioè, ogni realtà risulta funzionale alle disposizioni manipolative dell’essere umano, il quale può così abusare indiscriminatamente, essenzialmente sia degli enti finiti, sia dell’Essere stesso in quanto evento. Soltanto in virtù di questa constatazione dell’oblio del senso dell’Essere, a vantaggio dell’affermazione strumentale dell’essenza della tecnica, si comprende la conclusiva critica mossa da Heidegger alla tecnica: essa non si mostra come un che di neutrale rispetto alla modalità che gli esseri umani hanno di relazionarsi a loro stessi, tra di loro e con il loro mondo. Ciò contro cui si muove il filosofo di Messkirch è, in definitiva, la cieca pretesa per la quale la tecnica rappresenti qualcosa di neutrale, quasi uno strumento inerme in mano al progresso della scienza, e non piuttosto quella prospettiva metafisica che legittima le scienze positive nella loro riduzione del mondo (e del senso) a positum strumentalizzabile.
Ciò di cui rende capaci la prospettiva heideggeriana non è quindi un rigetto indiscriminato delle applicazioni tecniche sviluppate dal sapere scientifico. La meditazione promossa da Heidegger riporta più che altro ad una presa d’atto speculativa essenziale: il fatto cioè che il pensiero umano tenda ad oggettivare le proprie conoscenze, al fine di rendere impiegabili sia queste ultime, sia ciò a cui esse si riferiscono, vale a dire gli enti concreti della realtà. La tecnica consiste quindi nella precisa modalità in cui il raziocinio umano oggettiva tanto gli enti, quanto l’essere, al fine di poter manipolare entrambi secondo l’orizzonte poietico della strumentalizzazione e dello sfruttamento. Non coincidendo con i prodotti sperimentali delle scienze, l’essenza della tecnica si avvicina così pericolosamente al nichilismo. Vale a dire: non a qualcosa che deve essere demonizzato nelle sue implicazioni pratiche, ma piuttosto a una realtà che esige di venir meditata, in quanto inalienabilmente propria del modo d’essere di noi uomini. La violenza che rende possibile la riduzione degli enti all’uso strumentale, tanto della loro essenza intrinseca, quanto dalla loro presenza fattiva, è infatti sostanzialmente correlata al processo di oggettivazione, tipico della capacità umana di farsi rappresentazioni della realtà. Così come queste risultano imprescindibili in ordine alla possibilità che ha la ragione umana di conoscere il mondo, ugualmente la riduzione della realtà a fondo impiegabile rende implicitamente violento l’essere dell’uomo al mondo.
È vero che noi esseri umani possiamo far violenza tanto agli enti, quanto all’Essere stesso. È infatti in nostro potere sia ridurre le realtà esistenti (ivi compresi i nostri simili e noi stessi) a meri strumenti del nostro agire, sia ignorare il senso ultimo dell’essere stesso obliandone il carattere fondamentale e fondativo per tutto il reale. E tuttavia, la meditazione heideggeriana a proposito della tecnica si erge esattamente a baluardo speculativo contro la totale caduta dell’umano nel baratro nichilistico del funzionalismo. Se l’uomo accondiscende pienamente alla propria tensione praticamente portata alla violenza contro l’essere e contro gli enti – sembra voler dire Heidegger in faccia a questa nostra contemporaneità sempre più dimentica del Principio – allora l’esito ultimo a cui condurrà la tecnica non potrà che essere un totale oblio dell’umano. Laddove vengono dimenticate la distinzione tra l’Essere e l’ente, la provenienza essenziale dell’essere umano dall’Essere stesso in quanto evento, e l’orizzonte di senso che è l’eventuarsi dell’Essere, in quanto appropriazione essenziale ed esistenziale di ogni cosa a se stessa; in quel tempo in cui dovesse completamente realizzarsi tale oblio, anche la possibilità stessa del ritorno dell’umano a se stesso verrebbe definitivamente annichilita.
Il discorso heideggeriano, come osserva esattamente Sollazzo, non si lascia imbrigliare alla sola dimensione pratica, sulla quale si pone invece la voce della Arendt a proposito del male e delle sue implicazioni fattuali. Il respiro che assume l’osservazione critica di Heidegger mantiene infatti un che di «concettuale, spirituale, ontologico, insomma di metafisico, che solo come sua conseguenza produce esiti fisici» (p. 22). Quella mossa dal filosofo di Messkirch non è infatti un’esclusione a priori né a posteriori dello sviluppo tecnico del sapere o del vivere umani. L’obiettivo speculativo dell’indagine heideggeriana sulla tecnica rimane piuttosto l’essenza di ciò che accade nella storia dell’oblio dell’Essere in rapporto all’unità fondamentale dell’evento, che l’Essere stesso è. Proprio per questa ragione, così come Heidegger non può essere apostrofato come un semplice nemico della tecnica, egli non si lascia neppure additare troppo immediatamente come un puro avversario della modernità, né quale antisemita tout court. La comprensione della sua ambigua personalità deve infatti fare i conti con la predominanza speculativa, che assume l’essenza del suo pensato rispetto ai modi in cui il pensatore Martin Heidegger ebbe a vivere la sua conclusa esistenza.
Le lucide osservazioni, alle quali ci conducono le suggestioni del filosofo dell’Ereignis, convergono finalmente in una presa d’atto essenziale: la tecnica può essere, contemporaneamente, sia un modo del disvelamento della verità dell’Essere, sia il totale annichilimento del senso che l’Essere stesso è in quanto Verità. Se, per un verso, la distinzione tra queste due modalità essenziali della tecnica coesistono all’interno dell’unitario evento dell’Essere, la possibilità di protendere per l’una o l’altra di queste due tensioni è, per altro verso, responsabilità stringente di noi esseri umani. Riproporre all’attenzione dei lettori odierni i due contributi heideggeriani su La questione della tecnica e sul rapporto fra Scienza e meditazione, significa compiere un atto di coraggiosa politica editoriale di invito alla riflessione. Questa operazione richiama, in definitiva, ancora una volta l’essere umano contemporaneo – cioè colui che noi stessi siamo – a rispondere personalmente su quale lascito epocale intendiamo realizzare oggigiorno per le future generazioni dell’era ventura.
***
Marco Viscomi, dottore di Ricerca in Filosofia con una tesi dal titolo I “venturi” e “l’ultimo Dio”: il sacro in Martin Heidegger, è Cultore della materia presso la cattedra di Filosofia Teoretica dell’Università degli Studi di Perugia, Dipartimento di Filosofia, Scienze Sociali, Umane e della Formazione. Oltre a vari articoli sul pensiero heideggeriano in rapporto ad autori quali Hegel, Schelling, Sartre, Marion, Lévinas, Bonaventura e Böhme, ha pubblicato la monografia La formazione di un concetto. Temporalità autentica e tempo originario in Martin Heidegger, edita da Città Nuova.
Martin Heidegger, La questione della tecnica, goWare, Firenze 2017
(«Filosofia e nuovi sentieri», 19/04/2017)
Volume pubblicato in edizione ebook e cartacea
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In primo luogo, è bene ribadire una volta di più come le critiche mosse da Heidegger alla tecnica non consistano in una sorta di fobia della tecnica medesima, né in una qualche demonizzazione di quest’ultima. Il filosofo di Messkirch non sviluppa infatti una critica rivolta contro la tecnica, ma una considerazione fondamentale interessata all’essenza della tecnica stessa. Un simile studio non si preoccupa affatto di giudicare positivamente o negativamente l’oggetto della sua investigazione, in quanto esso si mostra interessato a considerare semplicemente il carattere costitutivo di ciò che indaga. Ecco il senso per cui Heidegger parla della tecnica moderna in riferimento alla sua modalità ontologica ed essenziale di presentarsi: alla luce dello sguardo prettamente speculativo adottato da Heidegger, la tecnica coincide con una modalità fondamentale del disvelamento della verità dell’Essere. Vale a dire: un modo in cui l’Essere stesso giunge alla propria verità, nonché un’attitudine in virtù della quale l’esistente umano si pone nell’orizzonte veritativo del proprio esserci.
In quanto la tecnica costituisce per Heidegger un modo in cui l’Essere si destina storicamente all’essere umano, essa rappresenta costitutivamente una specifica modalità seguendo la quale l’uomo si pone in relazione all’essere stesso. Tale modalità relazionale, che lega insieme l’essere stesso quale evento (Ereignis) e l’esistente umano in quanto singolo esserci (Dasein), consiste nella riduzione dell’intero essente a fondo (Bestand). Nell’età della tecnica, cioè, ogni realtà risulta funzionale alle disposizioni manipolative dell’essere umano, il quale può così abusare indiscriminatamente, essenzialmente sia degli enti finiti, sia dell’Essere stesso in quanto evento. Soltanto in virtù di questa constatazione dell’oblio del senso dell’Essere, a vantaggio dell’affermazione strumentale dell’essenza della tecnica, si comprende la conclusiva critica mossa da Heidegger alla tecnica: essa non si mostra come un che di neutrale rispetto alla modalità che gli esseri umani hanno di relazionarsi a loro stessi, tra di loro e con il loro mondo. Ciò contro cui si muove il filosofo di Messkirch è, in definitiva, la cieca pretesa per la quale la tecnica rappresenti qualcosa di neutrale, quasi uno strumento inerme in mano al progresso della scienza, e non piuttosto quella prospettiva metafisica che legittima le scienze positive nella loro riduzione del mondo (e del senso) a positum strumentalizzabile.
Ciò di cui rende capaci la prospettiva heideggeriana non è quindi un rigetto indiscriminato delle applicazioni tecniche sviluppate dal sapere scientifico. La meditazione promossa da Heidegger riporta più che altro ad una presa d’atto speculativa essenziale: il fatto cioè che il pensiero umano tenda ad oggettivare le proprie conoscenze, al fine di rendere impiegabili sia queste ultime, sia ciò a cui esse si riferiscono, vale a dire gli enti concreti della realtà. La tecnica consiste quindi nella precisa modalità in cui il raziocinio umano oggettiva tanto gli enti, quanto l’essere, al fine di poter manipolare entrambi secondo l’orizzonte poietico della strumentalizzazione e dello sfruttamento. Non coincidendo con i prodotti sperimentali delle scienze, l’essenza della tecnica si avvicina così pericolosamente al nichilismo. Vale a dire: non a qualcosa che deve essere demonizzato nelle sue implicazioni pratiche, ma piuttosto a una realtà che esige di venir meditata, in quanto inalienabilmente propria del modo d’essere di noi uomini. La violenza che rende possibile la riduzione degli enti all’uso strumentale, tanto della loro essenza intrinseca, quanto dalla loro presenza fattiva, è infatti sostanzialmente correlata al processo di oggettivazione, tipico della capacità umana di farsi rappresentazioni della realtà. Così come queste risultano imprescindibili in ordine alla possibilità che ha la ragione umana di conoscere il mondo, ugualmente la riduzione della realtà a fondo impiegabile rende implicitamente violento l’essere dell’uomo al mondo.
È vero che noi esseri umani possiamo far violenza tanto agli enti, quanto all’Essere stesso. È infatti in nostro potere sia ridurre le realtà esistenti (ivi compresi i nostri simili e noi stessi) a meri strumenti del nostro agire, sia ignorare il senso ultimo dell’essere stesso obliandone il carattere fondamentale e fondativo per tutto il reale. E tuttavia, la meditazione heideggeriana a proposito della tecnica si erge esattamente a baluardo speculativo contro la totale caduta dell’umano nel baratro nichilistico del funzionalismo. Se l’uomo accondiscende pienamente alla propria tensione praticamente portata alla violenza contro l’essere e contro gli enti – sembra voler dire Heidegger in faccia a questa nostra contemporaneità sempre più dimentica del Principio – allora l’esito ultimo a cui condurrà la tecnica non potrà che essere un totale oblio dell’umano. Laddove vengono dimenticate la distinzione tra l’Essere e l’ente, la provenienza essenziale dell’essere umano dall’Essere stesso in quanto evento, e l’orizzonte di senso che è l’eventuarsi dell’Essere, in quanto appropriazione essenziale ed esistenziale di ogni cosa a se stessa; in quel tempo in cui dovesse completamente realizzarsi tale oblio, anche la possibilità stessa del ritorno dell’umano a se stesso verrebbe definitivamente annichilita.
Il discorso heideggeriano, come osserva esattamente Sollazzo, non si lascia imbrigliare alla sola dimensione pratica, sulla quale si pone invece la voce della Arendt a proposito del male e delle sue implicazioni fattuali. Il respiro che assume l’osservazione critica di Heidegger mantiene infatti un che di «concettuale, spirituale, ontologico, insomma di metafisico, che solo come sua conseguenza produce esiti fisici» (p. 22). Quella mossa dal filosofo di Messkirch non è infatti un’esclusione a priori né a posteriori dello sviluppo tecnico del sapere o del vivere umani. L’obiettivo speculativo dell’indagine heideggeriana sulla tecnica rimane piuttosto l’essenza di ciò che accade nella storia dell’oblio dell’Essere in rapporto all’unità fondamentale dell’evento, che l’Essere stesso è. Proprio per questa ragione, così come Heidegger non può essere apostrofato come un semplice nemico della tecnica, egli non si lascia neppure additare troppo immediatamente come un puro avversario della modernità, né quale antisemita tout court. La comprensione della sua ambigua personalità deve infatti fare i conti con la predominanza speculativa, che assume l’essenza del suo pensato rispetto ai modi in cui il pensatore Martin Heidegger ebbe a vivere la sua conclusa esistenza.
Le lucide osservazioni, alle quali ci conducono le suggestioni del filosofo dell’Ereignis, convergono finalmente in una presa d’atto essenziale: la tecnica può essere, contemporaneamente, sia un modo del disvelamento della verità dell’Essere, sia il totale annichilimento del senso che l’Essere stesso è in quanto Verità. Se, per un verso, la distinzione tra queste due modalità essenziali della tecnica coesistono all’interno dell’unitario evento dell’Essere, la possibilità di protendere per l’una o l’altra di queste due tensioni è, per altro verso, responsabilità stringente di noi esseri umani. Riproporre all’attenzione dei lettori odierni i due contributi heideggeriani su La questione della tecnica e sul rapporto fra Scienza e meditazione, significa compiere un atto di coraggiosa politica editoriale di invito alla riflessione. Questa operazione richiama, in definitiva, ancora una volta l’essere umano contemporaneo – cioè colui che noi stessi siamo – a rispondere personalmente su quale lascito epocale intendiamo realizzare oggigiorno per le future generazioni dell’era ventura.
***
Marco Viscomi, dottore di Ricerca in Filosofia con una tesi dal titolo I “venturi” e “l’ultimo Dio”: il sacro in Martin Heidegger, è Cultore della materia presso la cattedra di Filosofia Teoretica dell’Università degli Studi di Perugia, Dipartimento di Filosofia, Scienze Sociali, Umane e della Formazione. Oltre a vari articoli sul pensiero heideggeriano in rapporto ad autori quali Hegel, Schelling, Sartre, Marion, Lévinas, Bonaventura e Böhme, ha pubblicato la monografia La formazione di un concetto. Temporalità autentica e tempo originario in Martin Heidegger, edita da Città Nuova.
Martin Heidegger, La questione della tecnica, goWare, Firenze 2017
(«Filosofia e nuovi sentieri», 19/04/2017)
Volume pubblicato in edizione ebook e cartacea
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