di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
(Il presente articolo è stato inizlamente pubblicato su «La chiave di Sophia», diviso in due parti, rispettivamente il 14 e il 24 febbraio 2016)
In parole povere stiamo dicendo che non possiamo fare a meno della storia della filosofia (...) allora questo non potere fare a meno diventa una domanda su questo non potere fare a meno, diventa la richiesta che ci sia esibito come tutto ciò si è dato. E là dove non c'è questa domanda, dove non è suggerita, sollevata, ricordata, non c'è esperienza filosofica, non c'è esercizio filosofico, c'è solo esercizio di cultura. Ma se la cultura è infine libertà, la mera cultura storiografica non è esercizio di libertà, perché è l'esercizio di essere soggetti alla cultura e non soggetti della cultura, soggetti alla pratica, senza nemmeno essere consapevoli di esserlo.
C. Sini, La verità pubblica e Spinoza
Ormai il sapere occidentale ha un suo orientamento ben preciso, che emerge con particolare evidenza nei luoghi del sapere istituzionalizzato: le università. Chiunque abbia un minimo di confidenza con queste, infatti, sa bene che ciò che avviene là dentro è una trasmissione di dati. Cosa che è comprensibile nel caso di quei saperi direttamente finalizzati alla realizzazione di qualcosa di pratico – anche se questo non li esonera da una riflessione sulla loro stessa essenza, che è invece quasi sempre assente. Cosa che però avviene anche per quelle discipline che avrebbero il proprio fine in se stesse, quindi essenzialmente in una riflessione su se stesse, non nella ricerca di un utile esterno, e che invece diventano sempre più un archivio di dati trasmissibili e verificabili, nozioni soggette ad una metodologia unica, universale e predeterminata.
Nel caso della filosofia (che per mia disgrazia mi ha fatto suo, avrei potuto vivere molto più serenamente e comodamente se non fossi stato toccato da questa mania) questo si mostra con evidenza nella riduzione della stessa ad un esercizio filologico e storiografico, al punto tale che i dipartimenti universitari di filosofia dovrebbero a rigore essere rinominati come dipartimenti di filologia della filosofia e storia della filosofia, anziché continuare a indugiare nell’equivoco di fare filologia e storiografia, nominandole però come filosofia. Non ci vuole poi molto a discriminare tra un soggetto e un complemento, e sulla base di questa semplice distinzione si potrebbero creare dipartimenti ad hoc – fermo restando che non esiste una storia della- e una filologia della- che non sia già una filosofia, tuttavia, se lo storico e il filologo ci tengono ad essere annoverati come scienziati che maneggiano dati, anziché come pensatori che in quanto tali hanno come primo problema quello di problematizzare la natura del proprio stesso pensare, allora si potrebbe ricorrere ad una divisione anche istituzionale. Di pari passo, si dovrebbe con chiarezza e onestà evitare di usare l’appellativo di filosofo per chiunque si interessi di filosofia, differenziando invece tra storici, filologi, cioè studiosi, e filosofi – cose che a volte possono anche coincidere nella stessa persona, ma restando pur sempre cose diverse.
Sia chiaro che con questo non voglio stabilire una gerarchia tra la figura dello storico, del filologo, e del filosofo tout court. Vorrei però metterne in evidenza le differenze, che a guardarsi intorno sembrerebbero essere meno ovvie di quel che invece sono.
Ora, a quali conseguenze porta questa indistinzione? Ne richiamo di seguito alcune.
Primo. Ritenere che si possa fare filosofia solo dopo averla studiata. Ritenere quindi che si possa essere filosofi solo dopo essere stati filologi e/o storici della filosofia.
Eppure è la stessa storia della filosofia a fornirci esempi di filosofi che sono stati tali senza essere stati studiosi di filosofia. Un esempio su tutti: Wittgenstein. E se si hanno buone orecchie si potrà sentire che spesso c’è più filosofia nel cosiddetto uomo della strada (perlomeno, in quelli di un passato non così omologato) che nell’accademico scientificizzato.
Secondo. Ritenere che vi sia un’unica modalità corretta di approcciare il pensiero altrui e che tale modalità sia lo studio finalizzato all’estrazione di dati oggettivi.
Ma questo apre (almeno) un problema a due facce. Da un lato, si assiste alla cancellazione di qualsiasi altra modalità di contatto con l’alterità che non sia quella basata sull’estrazione di dati da esibire alla verifica della comunità scientifica. Dall’altro, svanisce, tra le altre cose, quella possibile relazione con l’alterità mossa dall’ascolto disinteressato di ciò che ci affascina – cosa che, per fortuna, rimarrà sempre non misurabile e quindi non “datizzabile”. Conseguenza non da poco di questo problema è che in tal modo un progresso del pensiero si potrà avere solo in termini quantitativi e non qualitativi. Ovvero, nella forma dell’accrescimento aritmetico di dati, tutti collezionati con una metodologia universale, prestabilita, al di fuori dalla quale vi è il nulla (posta quindi come una meta-metodologia), anziché come rottura di un certo ordine epistemico e apertura ad altre possibilità ermeneutiche.
A scanso di equivoci, con questo non voglio aprire alla dimensione della chiacchiera – da cui peraltro non si è al riparo neanche con la conoscenza nozionistica. Intendo invece che la fondatezza argomentativa che non ci fa cadere nella chiacchiera non si trova nel nozionismo, ma nella nostra onestà intellettuale – per fortuna, anch’essa non misurabile.
Terzo. Ritiene che si possa parlare di qualcuno/qualcosa, senza invece avvedersi che ogni parlare è sempre un parlare su qualcuno/qualcosa.
Provo a spiegarmi. Una volta ridotto un autore o un tema a un cumulo di nozioni, ovvero una volta ridotta una vita ad un manuale di conoscenza, va da sé che poi si ritenga di parlare di quelle cognizioni. Questo impedisce di avvedersi che è esattamente il nostro parlarne a determinare quelle nozioni e che quindi un parlare di è in realtà sempre un parlare su, un parlare a partire da, un parlare che sulla base di una sollecitazione iniziale crea concetti che non saranno mai una descrizione esaustiva di quella sollecitazione iniziale, un suo esaurimento nella verbalizzazione – essendo l’origine del pensiero nell’intuizione, come Platone ha magistralmente argomentato, collocando tale intuizione nell’istante, che è atopos, fuori dal tempo cronologicamente misurabile, ed essendo quindi il logos (pensiero/parola) che cerca di dare corpo a tale intuizione, già una forma di reificazione della stessa. Insomma, ogni parlare altro non può essere che un parlare intorno a qualcosa.
Questo apre ad (almeno) due rilevanti conseguenze. Da un lato, poiché neanche il ricorso ad un nozionismo che si pretende oggettivo è esentato dall’essere una costruzione soggettiva, tanto vale assumersi esplicitamente la responsabilità, e la gioia, della costruzione di una relazione col mondo basata sul modo specifico in cui lo interroghiamo, che poi altro non sarebbe che il tentativo di elaborazione di un pensiero consapevolmente autonomo – come dice quel proverbio popolare (testimonianza di come bassa cultura e alta cultura si tocchino, è quella media il problema): se porti un falegname e un poeta in un bosco, non vedono lo stesso bosco. Dall’altro lato, se ogni parlare è sempre un parlare attorno a qualcosa, essendo impossibile afferrarne l’intuizione originaria, allora questo parlare diventa tanto più ricco, quante più traiettorie compie attorno al suo inafferrabile centro. Ne consegue che, diversamente da come la corrente impostazione filologica ci porta a credere, leggere un autore nella sua lingua originale è tutt’altro che un arricchimento del pensiero. In quel modo si andrà infatti ad eseguire sempre la stessa traiettoria attorno a quel centro inafferrabile. Diversamente, leggerlo in una, o diverse, lingue tradotte, oltre a farci abbandonare la pretesa tanto ossessiva quanto irrealizzabile di voler afferrare quel centro, sotto forma di dato filologico, permette di eseguire altre traiettorie attorno a quel centro inafferrabile, unica possibilità per l’arricchimento del pensiero.
Quarto. Poiché, nonostante la trionfale avanzata delle scienze, l’uomo non sarà mai scientificizzabile in toto (altrimenti, paradossalmente, la stessa scienza dovrebbe arrestarsi, essendo invece il suo motore, come in tutte le attività umane, una costante spinta al trascendimento di ciò che è dato), ci sarà sempre un resto che avanza. E in un mondo in cui l’unica alternativa alle scienze, comprese quelle cosiddette umane, è la religione, questo resto sarà preso in carico dalle religioni. Ed ecco che la scientificizzazione dell’uomo ha come esito paradossale l’esplosione delle religioni. È così che i due fenomeni oggi convivono.
Per riprendere e avviare verso una possibile conclusione un discorso che forse è inconcludibile (e che ho aperto qui) [qui inizia quella che originalmente era la seconda parte dell’articolo], credo che ci si debba ora chiedere come si sia arrivati alla sostituzione della filosofia con la sua filologia e storiografia. Le linee di riflessione attorno alle quali propongo di andare alla ricerca di una possibile risposta, sono essenzialmente due.
Primo. Un costante accrescimento del fenomeno della reificazione, introdotta forse, e forse involontariamente, nel pensiero occidentale dalla logocentrizzazione operata da Platone. Dialettica che è diffusamente descritta da diversi autori, ciascuno nei suoi propri termini ma tutti accomunati dal fil rouge della riduzione dei margini del pensare: dall’heideggeriano oblio dell’Essere all’unidimensionalità marcusiana, dalla francofortese dialettica dell’illuminismo alla benjaminiana riproducibilità tecnica dell’arte, dalla andersiana antiquatezza dell’uomo alla pasoliniana omologazione e mutazione antropologica – sia chiaro, en passant, che nessuno di questi autori è un passatista antimodernista critico di ogni cambiamento e della modernizzazione in sé, la critica è invece verso una certa, questa, modernizzazione.
Secondo. Eppure, il filone di riflessione qui sopra accennato non assume quel certo sviluppo come una necessità, ma come una possibilità – almeno fino ad un eventuale punto di non ritorno. Resta quindi da dar conto del fatto per cui tra quella possibilità ed altre, abbiamo imboccato proprio quella – che stiamo vivendo. E qui si devono fare i conti con un tema troppo trascurato: la brama di potere. Infatti, chi vuole detenere un potere può farlo solo se e quando lo stesso può esercitarsi su cose. Il potere è infatti potere di disporre delle cose, ma per disporne bisogna poterle afferrare e per poterle afferrare devono essere oggetti. Un sovrano come può disporre della popolazione se non riducendola prima ad oggetto, pertanto impersonale, del potere – si noti che la legge designa sempre individualità impersonali? Un medico come può disporre di corpi se non riducendoli prima ad una somma di leggi che lui sa gestire? Un accademico che sia interessato ad amministrare le decisioni dell’accademia come può legittimarsi se non riducendo il sapere ad una somma di nozioni che lui sa amministrare? E possono costoro accettare che una possibile diversa ermeneutica metta in discussione quella certa epistemologia che serve loro per essere legittimati nel possesso del potere? Evidentemente no. Ecco che una certa forma della conoscenza, reificata, nozionistica, si impone come l’unica forma possibile, rappresentando il necessario fondamento epistemologico per il possesso del potere.
Fino a quando non faremo i conti anche con le miserie dei singoli individui, oltre che con la descrizione delle marco-dialettiche in cui viviamo, continueremo a stare nell’equivoco di scambiare per dato di fatto oggettivo quella che invece è una certa modalità di interrogare il mondo – e sia chiaro che il mondo risponde in base a come è interrogato.
E tuttavia questo sembra essere il classico cane che si morde la coda: più si accrescono quelle macro-dialettiche, più diminuisce la capacità di leggere il singolo al di fuori delle stesse, ovvero, la sensibilità di percepire l’epistemologia in cui ci si trova e altre possibili.
Per concludere sgombrando il campo da possibili equivoci, in questi due brevi articoli andati sotto il titolo di Se questa è filosofia [questo articolo è stato inizialmente pubblicato suddiviso in due parti], ho cercato di mettere in evidenza la differenza tra il pensare e lo studio del pensato. Differenza particolarmente trascurata in ambito umanistico, arrivando fino alla grottesca indistinzione tra filosofia e sua filologia e storiografia. Con questo però non intendo dire che allora la filosofia sarebbe quella che socraticamente si fa per strada, che necessariamente è al di fuori dell’accademia, oggi prevalentemente nello spettacolo dei mass-media. La differenza che ho cercato di mostrare non ha a che fare primariamente col luogo in cui si fa filosofia, pensiero – da qui poi tutta la retorica della critica alla torre d’avorio, retorica che però si dimentica che anche la strada è una torre d’avorio quando ci si rifugia in essa senza considerare cosa sta avvenendo in essa e tagliando aprioristicamente con tutto ciò che è fuori di essa. Limitandosi alla sola critica della sede, infatti, può benissimo rimanere il peccato originale: il rivolgersi a un’audience, a un pubblico, anziché a un altro se stesso.
La differenza essenziale tra lo studio e/o la divulgazione del già pensato e il pensare, sta nel fatto che la prima cosa ha a che fare con la fruibilità, la spendibilità, mentre il pensare è un discorso per, a se stesso – a cui solo secondariamente accede un altro, potendovi accedere solo perché il modo in cui chi pensa per se stesso si rivolge a se stesso è storicamente simile al modo in cui si rivolge ai suoi contemporanei. Nel primo caso quindi il pensato altrui ed il proprio è ridotto a moduli spendibili, presentabili alla comunità scientifica, per la verifica e l’incremento delle citazioni, o al grande pubblico, per l’applauso e la commercializzazione. Nel caso del pensare invece, il pensiero altrui, lungi dall’essere qualcosa di cui bisogna essere in grado di dar conto, è un suono in cui quel che conta sono alcuni frammenti che risuonano in noi, fertilizzandoci, unendosi al nostro suono interiore, e portandoci così a comporre un altro suono, il cui valore e significato risiedono solo in colui in cui quel suono risuona, non essendo quindi sottoponibile ad alcun tipo di misurazione e valutazione. Questa è la via dell’alta cultura e dell’arte.
Quel che regge questo mio discorso quindi è l’intendere la filosofia non come scienza, ma come arte. Va da sé poi che una cosa è fare arte, e un’altra è studiarla o commentarla o divulgarla. Differenza che si potrebbe con semplicità rendere nella distinzione tra cultura e sapere.
Ora, è certamente ingenuo, infantile, assurdo chiedere che la civilizzazione occidentale si riorienti in direzione di quella che ho qui definito come cultura (quindi arte, di cui la filosofia potrebbe essere una manifestazione), anziché, come è ed è sempre più, in direzione di quello che qui ho definito come sapere (quindi scienza, compresa quella umana, di cui filologia e storiografia della filosofia sono esempi).
Tuttavia, chi si occupa di questi temi, dovrebbe perlomeno aver chiara la distinzione tra cultura e sapere. E chiedersi se nei luoghi deputati alla cultura (siano essi le università, i libri, i giornali, i siti, le associazioni culturali…) non si faccia invece nient’altro che sapere.
E se così è, che fine fa la cultura?
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La differenza fra il pensare e lo studio del pensato fa la differenza fra un intellettuale e un lettore.
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