di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
Sempre più spesso ci si affida alla politica per la risoluzione di problemi essenziali (addirittura a volte non semplicemente chiedendo ma pretendendo tale risoluzione) – sintomo di uno spaesamento generale che innalza la richiesta di pater familias. Ma una simile richiesta, pretesa, supplica è giustificata? La politica può e/o deve soddisfarla?
Innanzi tutto, per avere almeno una chance di soddisfarla i politici dovrebbero essere degli uomini di cultura e pensiero, cosa oggi sempre più rara, basti notare la pochezza culturale e la piattezza argomentativa di molti di loro.
Ma soprattutto, i politici non possono e non devono soddisfare quella questua di senso, perché la politica – che evidentemente prendo qui in termini istituzionali – è mera amministrazione dell’esistente.
L’amministrazione
è il tratto distintivo della politica. Esattamente a questo si riferiva la
Arendt in Vita Activa quando comparava
il modello politico antico con quello moderno. La teorica della politica notava
infatti come nelle poleis la vita
domestica, da lei definita come “sfera privata”, era nient’altro che gestione
delle necessità biologiche per la sopravvivenza, oikonomia nel senso di amministrazione della casa, mentre la vita
pubblica, che si esercitava in quello che lei definiva come “spazio pubblico”,
era la sede deputata al perseguimento dell’eccellenza, e l’eccellenza non è
amministrabile, è al di là di qualsiasi amministrazione – en passant, ecco il perché del disprezzo per gli schiavi
nell’antica Grecia: essi preferiscono aver salva la vita rinunciando al
perseguimento dell’eccellenza, possibile solo per gli uomini liberi, anziché
rischiare di perdere la vita nel ricercare quella libertà che è conditio sine qua non per il perseguimento
qualcosa di eccellente, e in quanto tale degno di essere ricordato dalle future
generazioni. Successivamente (attraverso uno sviluppo per la Arendt imputabile
sostanzialmente al cristianesimo ed al marxismo), la politica ha assunto i
caratteri che erano in precedenza della sfera privata, trasformandosi in ciò
che la pensatrice tedesca chiama il “sociale”, divenendo così mera
amministrazione dell’esistente; ed ecco che scompare dal mondo un luogo
deputato al perseguimento dell’eccellenza.
A questo punto possiamo chiederci: perché mai la politica come amministrazione non è in grado di affrontare le questioni essenziali?
In sintesi, per almeno due ordini di motivi, uno generale ed uno particolare.
In generale, perché l’amministrazione delle cose lascia le cose essenzialmente come sono: non inserisce fratture nel divenire, non muta l’ordine stabilito delle cose, essendo anzi essa stessa a definirlo, non permette che si diano deviazioni, anomalie, differenze, anormalità ma le riconduce a sé amministrandole; invece, perseguire un’eccellenza, ovvero mettere al mondo il proprio talento, significa proprio eccedere l’ordine stabilito delle cose.
Nel particolare, perché la specifica forma di amministrazione di oggi è dettata dalla razionalità strumentale, esito di un certo rapporto che intratteniamo con la tecnica. Ovvero, è un’amministrazione informata dal criterio della pura efficienza, dell’efficienza per l’efficienza – che in quanto tale, si badi, è efficienza cieca. Prova ne sia il fatto che i politici si vantano di essere efficienti, ad esempio nell’amministrazione di una città o di un Paese, e criticano chi appare non tale.
Eppure, di un’amministrazione c’è pur sempre bisogno. Infatti, cercando di integrare il discorso della Arendt, si può affermare come anche l’antico spazio pubblico fosse retto da un certo tipo di amministrazione. E allora come si può uscire dalla problematica di un’amministrazione senza la quale non si può stare e che però al tempo stesso tende ad impedire l’eccellenza che si dà nella messa al mondo del proprio talento?
Con un tipo speciale di amministrazione, che sia finalizzata alla creazione di luoghi e tempi, contingenze, propedeutici alla realizzazione del proprio talento. Ma come sviluppare un simile tipo di amministrazione?
Assolutamente non chiedendo, pretendendo o implorando che i politici facciano ciò (e così mi ricongiungo all’inizio di questo breve articolo). La politica si può orientare alla realizzazione di talenti solo se e quando le persone, in primis, vivono il proprio talento. Nel Simposio Platone afferma che tutti gli uomini nascono gravidi ma che solo alcuni riescono a sbloccare la propria gravidanza. Bene, coloro i quali partoriscono il proprio talento non vi riescono certo perché un politico, o chi per lui, lo ha fatto in loro vece. Il parto di qualcosa che è dentro di sé avviene sempre in prima persona, o non avviene affatto. E se ciò avviene su larga scala, la politica si adeguerà a tali circostanze: l’amministrazione amministra quel che trova da amministrare.
Invece che questuare la politica, dunque, ci si dovrebbe dedicare alla coltivazione di se stessi. I problemi che emergono nella politica odierna non sono altro che il frammento terminale di una mancanza ben più originaria: artisti e pensatori che accettano di non essere tali, poeti che non poetano, filosofi che non filosofano…
Ma per riuscire a realizzare ciò per cui si è nati – quindi, tanto per farlo quanto per non illudersi che lo si stia facendo solo perché i risultati sociali possono essere buoni e/o perché si sta facendo qualcosa di eccentrico – l’inaggirabile punto di partenza resta sempre il socratico gnothi seauton, conosci te stesso.
Impresa ardua sempre, soprattutto nell’epoca della dismisura strumentale e mediatica.
(«La chiave di Sophia», 13/01/2016)
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