di Giacomo Pezzano (giacomo.pezzano@binario5.com)
Non
è forse esagerato dire che ci sono tanti “anarchismi” quanti anarchici: perché in
fondo l’anarchia è il rifiuto di qualsiasi “etichetta” che venga impressa dal
di fuori dunque dal di sopra, è il
rifiuto dell’idea per cui sia possibile fare di tutta l’erba un fascio, di
tante singolarità un qualche “-ismo”. Certo, è per esempio possibile parlare di
un anarchismo a sfondo maggiormente “sociale”, particolarmente vivo in Italia,
in cui la solidarietà e la condivisione sono valori altrettanto profondi della
libertà, o di un anarchismo dal taglio più spiccatamente “individualista” e in
senso “economico”, particolarmente accentuato negli Stati Uniti d’America, in
cui il rifiuto dell’invadenza del potere politico fa tutt’uno con l’affermazione
della libertà di iniziativa imprenditoriale. Simili esempi potrebbero
facilmente essere moltiplicati, ma segnalano a loro volta la difficoltà – se
non l’impossibilità – di incasellare l’anarchismo in una categoria univoca, sia
rispetto agli individui anarchici che ai tipi di anarchia. Per questo gli
anarchici – in tutte le loro forme – sono stati, sono e saranno i più invisi al
potere – in tutte le sue forme.
Insomma,
il centro propulsore dell’anarchia sta forse proprio nel rifiuto di qualsiasi
“in nome di” superiore e predeterminato, come Stirner ha affermato con tanta
forza e radicalità. Anzi, come ha vissuto
con forza e radicalità.
Qui
sta il grandissimo pregio delle pagine incalzanti e vigorose di Mackay e con
ciò il merito della traduttrice e dell’editore italiani: mostrare che L’unico di Stirner non è soltanto un
libro unico, in fondo anche perché l’unico libro davvero scritto da Stirner, ma
la testimonianza di una vita. Di una vita unica,
verrebbe da dire. L’unico è quasi una
biografia, profetica nella misura in cui mette al centro quel nulla su cui
Stirner fonda la propria causa e al quale resta così sempre esposto, sino al
rischio di precipitarvi, come in effetti accadrà e come Mackay ricostruisce nel
proprio testo, figlio di appassionate e costanti ricerche, che conservano
ancora oggi intatta la loro importanza. La loro unicità.
Ho
visto persone a cui L’unico ha sconvolto
la vita, la cui esistenza è stata davvero trasformata, persino in modo “sproporzionato”:
persone che sono arrivate a fare di un libro unico addirittura l’unico
libro mai davvero letto, rendendolo così Libro
Unico. Come, d’altro canto, Machay aveva persino vaticinato:
il libro immortale di Stirner
eguaglierà soltanto quello della Bibbia
in quanto a importanza. Così come questo libro “sacro” sta all’inizio del
calendario cristiano e avrà i suoi effetti devastanti per due millenni quasi
fino all’ultimo angolo della Terra abitata dagli uomini, questo egoista
cosciente di sé e non sacro, sta all’ingresso della nuova era, all’insegna
della quale viviamo, per esercitare un’influenza, altrettanto benefica, quanto
è stata deleteria quella del “libro dei libri”.
Simile
enfasi ha portato alcuni a parlare di Mackay come del primo “evangelista”
stirneriano (K. Joël) e della sua opera come costellata di esaltazione persino
pomposa e patetica, ai limiti del culto sprovveduto e ridicolo (R. Calasso).
Giudizi ingenerosi, non tanto perché imprecisi rispetto al punto mirato, quanto
piuttosto perché fuori mira rispetto al punto da focalizzare.
Se
l’energia di Mackay e degli “adepti” stirneriani da un lato contraddice certo
l’intero senso dell’opera e della vita di Stirner, dall’altro lato ne rivela
nondimeno l’irruenza delle idee, la capacità di attrazione e ridestamento che
colpisce soprattutto chi aveva davvero vissuto di certi ideali di “divinità” e
“umanità”, chi era davvero stato educato in riferimento a certi “valori”.
Coloro, soprattutto, che sino a qualche anno fa potevano ancora essere chiamati
“borghesi”.
Parrebbe
quasi da questo punto di vista che le pagine stirneriane, riempite di ulteriore
colore e sostanza da quelle di Mackay, serbino un tratto anacronistico, come se
l’opera di Stirner avesse esaurito la propria carica propulsiva nel ’68,
culmine di un movimento di idee e pratiche che aveva come perno la messa in
discussione di qualsiasi autorità “paternalistica”, di qualsiasi “in nome di”
che pretendesse di esaurire la ricchezza dell’unicità nella chiarezza
dell’univocità. A ben vedere, però, a uscirne vittorioso non è stato affatto
l’Unico.
Voglio
dire che la società che aveva davanti agli occhi Stirner e al cui interno
prende forma l’Unico era caratterizzata dal nesso produzione-scambio-utilizzo, mentre la società in cui ci muoviamo,
figlia anche se non soprattutto del ’68 (penso in particolare alle analisi di
Boltanski-Chiapello e Preve), si basa su quello commercio-finanza-consumo:
la prima ruota attorno alla soggettività
del bisogno limitato, mentre la
seconda all’impersonalità del desiderio illimitato. A dire: quello di
Stirner era un anarchismo dei bisogni, quello contemporaneo è un anarchismo del
consumo. Quello di Stirner era l’anarchismo della misuratezza, insieme pacata
ma risoluta (la stessa pacatezza e risolutezza che ritroviamo nello stile di
vita stirneriano); quello contemporaneo è un anarchismo della smisuratezza,
insieme irrequieta e indecisa. O anche: quello di Stirner era l’anarchismo di
chi fonda la propria causa sul nulla per costruire la propria unicità; quello
contemporaneo è l’anarchismo di chi affonda nel nulla senza giungere ad
affermare la propria unicità.
L’unico
stirneriano – insisto – era un individuo che mirava all’autarchia, all’autosufficienza
e all’indipendenza anche e soprattutto in senso produttivo: un individuo né
indolente né pigro ma sempre pronto a “lavorare per vivere”, dallo stile di
vita sobrio e modesto, capace di darsi una misura da sé senza che sia nessuno a
imporgliela. Tratti con cui Mackay non a caso dipinge la vita e i comportamenti
di Stirner, un unico capace di iniziativa, anche in senso economico (un esempio
su tutti: il tentativo di aprire una latteria). L’unico contemporaneo è invece
un individuo rapito da una costitutiva insufficienza, che si traduce in consumo
solipsistico, la cui soddisfazione al contempo però dipende radicalmente da
altri: un individuo indifferente, persino a tratti apatico se non preso dai
rimbalzi euforia-depressione.
Certo,
questa rappresentazione fa leva su una schematizzazione eccessiva se non
ingenerosa, soprattutto perché c’è chi non ha mai smesso di fare dell’anarchia
una cosa seria e non un esercizio di finta ribellione (da Deleuze a Graeber in
senso teorico, passando per la pulsante esistenza di migliaia di unici); eppure consente di capire bene
in che senso l’opera e la vita di Stirner non rappresentano un semplice invito
alla rivolta fine a se stessa o ancora meno un richiamo a farsi i fatti propri.
Rappresentano un ben più penetrante invito
alla libertà, un pungolo alla libertà, alla non sottomissione a
qualsivoglia potere “sacrale”.
Se
c’è un motivo per cui, come ci ricorda Mackay in un anno significativo come il
1914, Stirner è stato davvero un «grande annientatore» di quella retorica che
porta i popoli «alla morte e all’alienazione» in quanto «più acerrima nemica
della vita», questo va proprio individuato nella forza con cui ha denunciato
l’inganno di ogni forma di “in nome di” che pretendesse di dare norma e forma dall’esterno
alla potenza individuale. Stirner ha cioè indicato con insuperata chiarezza che
“il nemico” non è tanto lo Stato, bensì la struttura stessa di qualsiasi
sistema “padronale” e “sacrale”, di qualsiasi «idea fissa» che porta con sé la
codifica di un “peccato originale” da espiare per adeguarsi alla santità e
liberarsi dell’imperfezione. Tutto ciò indipendentemente dalle svariate forme
di cristallizzazione assunte da tale meccanismo, come il potere politico, la
moralità, l’ideale di umanità, ma anche – come oggi ben vediamo o dovremmo
vedere – l’efficienza del mercato, il denaro-merce e via di seguito.
Con
una formula splendida su cui insiste Machay, Stirner ha esplicitato con lucida
rudezza che «siamo diventati atei, ma siamo rimasti “persone devote”».
Non
c’è dubbio che la radicalità di Stirner sia totale ed esuberante, tanto da
parere eccessiva, come la sua complessa fortuna d’altronde testimonia: verrebbe
da dire che come è andato a fondo con la comprensione e la denuncia, così è
andato a fondo nella propria vita, anche per via di quella riservatezza e
persino solitudine, mancanza di bisogni e compostezza, assenza di passioni e
imperturbabilità che lo contraddistinguevano. E che Machay descrive e
restituisce così vividamente, arrivando per esempio a ricordare che
poiché aveva fondato la sua
causa sul nulla, non ha mai legato il suo cuore a qualcosa che avrebbe potuto
distruggere la sua vita o gliela avesse anche soltanto potuta stressare fino
all’insopportabile: né a un essere umano, né alle piccole cose della vita
quotidiana. E se non ha direttamente reso felice nessuno, non lo ha però
neanche, e meno che mai di proposito, reso infelice.
Si
potrebbe, in altre parole, pensare che tanta coerenza intellettuale ed
esistenziale abbia portato a una liberazione «dalle catene degli uomini» così
profonda da desiderare la recisione di ogni forma di legame sincero e profondo,
da ogni forma – come si usa dire nel lessico filosofico contemporaneo – di munus. Come se Stirner desiderasse
insomma immunizzarsi dagli altri a prescindere, come se la passione
fondamentale dell’imperturbabile Unico fosse la tristezza, o addirittura il
timido, silenzioso e autistico ripiegamento su di sé. «Vive nell’uomo tutto ciò
che vive nella sua opera: l’incrollabile conoscenza di ciò che tiene in vita –
la conoscenza dell’autodifesa!». Sembrerebbe così che, a conti fatti, Stirner
scrivesse e vivesse sulla difensiva,
cercando di liberarsi di ogni forma di debitorietà nei confronti degli altri.
Si potrebbe persino arrivare a dire che l’imprigionamento per debiti e la
dimenticanza cui è andato incontro non hanno rappresentato altro che il conto
estremo da pagare per chi conti non voleva nemmeno aprirne («ci ha soltanto
ricordato che siamo in debito con noi stessi!»).
Eppure…
Eppure,
l’autodifesa dipende da un attacco in corso, la radicalità dipende dal coraggio
di annunciare con forza qualcosa che non è stato sinora visto o non si era
avuto il coraggio di rivelare con tanta fermezza, la timidezza e non
aggressività dipendono dal bisogno di sottrarsi alla logica di sopraffazione e
competizione che ormai ben conosciamo o dovremmo conoscere, l’apparente
richiusura su di sé dipende dall’imperativo a «non cercare la salvezza al di
fuori e al di là di se stessi». È ormai banale affermare che si è di fronte a
qualcuno che mette in discussione ogni idolo, che smaschera ogni menzogna, che
fa scricchiolare ogni solida certezza precostituita, che non si ferma davanti a
nulla per perseguire coerentemente la verità: ma Stirner è davvero tutto
questo. Anzi, è forse (anche) grazie a lui che tutto ciò appare come banale, è
forse lui il vero Socrate dell’età moderna. Il che non significa, certo, che sia come Socrate, che le due unicità
possano in qualche modo combaciare; significa piuttosto che Socrate sta al mondo
antico come Stirner a quello moderno: esercita una funzione di costante scossa
dal torpore. Stirner ancor prima e ancor più di Nietzsche, dunque – come lo
stesso Nietzsche d’altronde ben sapeva.
Eppure,
ancora, abbiamo davvero molto da imparare anche dal modo travolgente in cui
Stirner ha messo davanti agli occhi il ruolo che il debito, il munus, gioca nelle nostre esistenze. Se
la politica per come la intendiamo comunemente nasce nel momento in cui Solone
rende impossibile la schiavitù individuale per debiti, la posta in palio
politica nel tentativo – sinora per larghi versi scellerato – di costruire una
Unione Europea è il suo analogo a livello collettivo-nazionale, vale a dire
impedire la schiavitù per debiti di interi popoli. Certo, da una parte la lezione
stirneriana consente di riconoscere che questa “idea di Europa” rappresenta il
nuovo feticcio, la nuova “sacertà” in nome della quale gli unici vengono piegati
dal giogo dell’univocità; dall’altra parte la lezione stirneriana vale però anche
rispetto al riconoscimento del bisogno di sottrarsi a un legame che ha la forma
di una catena, alla nuova forma di “sovranità” – quella del debito.
Ancora
una volta, insomma, non basta essere atei per cessare di essere devoti, ed è
forse questo il maggior lascito dell’immortale Johann Caspar Schmidt. Immortale perché, come Mackay ha voluto
testimoniarci con formidabile acume, «immortali sono non i forti clamori
quotidiani, i beniamini della folla, bensì i ricercatori solitari e
instancabili, che, lavorando in silenzio, indicano le vie al destino
dell’umanità».
Ma
l’immortalità è tale solo se attivamente tramandata: per questo, in
conclusione, questa traduzione della sferzante opera di Mackay va accolta con attenzione
e partecipazione.
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