venerdì 28 febbraio 2014

Questione di antropologia (Appunti sulla democrazia)

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Ragionando sulla democrazia, quasi sempre il ragionamento inizia e finisce considerando solo il livello collettivo, “macroscopico”, della questione, l’ambito politico-sociale. Quasi mai si considera invece il livello individuale, “microscopico”, che è invece quello dove un certo ordine politico-sociale prende corpo, influenzando poi a sua volta il livello microscopico stesso. Non è infatti un caso l’attenzione (rimossa dalla vulgata marxista) che i francofortesi Adorno, Horkheimer e Marcuse riservano al concetto di individuo, né la felice espressione foucaultiana di “microfisica del potere” (insomma, mi si passi la citazione, per dirla con Totò, “è la somma che fa il totale”).
Se una simile impostazione può essere utile per contenere in un’immagine unitaria la complessità dei fenomeni, per avere uno sfondo su cui lavorare, risulta però essere limitata per la comprensione approfondita degli stessi fenomeni che osserva. Ecco perché se si applica questo tipo di sguardo alla questione della democrazia si finirà col farla coincidere con un sistema di comportamenti e regole, con un meccanismo, con un involucro, perdendone di vista il contenuto. E poiché il contenuto sono gli individui, mi sembra che sia opportuno partire dalla considerazione di una questione, latu sensu, di antropologia.   
Certamente il pensiero dell’uomo sull’uomo affonda le sue radici nell’antichità – già Aristotele, ad esempio, ci ha lasciato in eredità la ormai celebre definizione di zoon logon echon, animale dotato di logos: pensiero/parola – anzi, credo si possa dire che nasce con la nascita dell’uomo così come lo conosciamo a tutt’oggi, come quel vivente che problematizza il mondo e dunque anche se stesso. Tuttavia solo in epoca moderna l’antropologia filosofica diventa una disciplina autonoma, con i suoi padri fondatori Gehlen (L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, L’uomo nell’era della tecnica), Scheler (La posizione dell’uomo nel cosmo) e Plessner (I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del comportamento umano) – indicativo, a questo proposito, Scheler: “in quasi diecimila anni di storia, noi siamo la prima epoca in cui l’uomo è diventato completamente e interamente ‘problematico’ per se stesso; in cui egli non sa più che cosa è, ma allo stesso tempo sa anche che non lo sa”. Nel solco di questa moderna antropologia filosofica si colloca anche l’interessante lavoro di Giacomo Pezzano, un’opera sperimentale dal titolo di Tractatus Philosophico-Anthropologicus (Petite Plaisance, 2012). Cito questo libro perché affronta in maniera originale un tema centrale per l’uomo, da cui ne va anche delle forme organizzative della vita aggregata, quello della natura umana. La tesi di fondo del libro è che esista una pluralità di animali umani ma un’unica natura umana la quale non è né genetica, né degenere, bensì generica, ovvero, ogni uomo è in grado di apprendere dalle contingenze in cui si trova a vivere, e che il capitalismo sta ipostatizzando in una sola possibile versione, quella dell’ap-profittare, cancellando di fatto quella genericità umana, cioè la molteplicità dei modi di poter essere uomini. Questa interessante proposta (naturalmente, nel libro, espressa in modo molto più ricco e articolato di quanto in questa sede non appaia; pertanto invito alla sua lettura) ha a che fare con l’annosa questione di una natura umana assoluta versus una natura umana storica.
Ora, a mio parere, porre tale questione nei termini di un versus, di una contrapposizione, significa porla male. L’universalità e la storicità della natura umana stanno infatti tra di loro non nei termini di un aut aut, ma in quelli di un et et. Infatti, un assoluto è tale solo relativamente alle contingenze che lo pongono come tale, non considerare questo significa scivolare in un autoritarismo che forse non è esagerato chiamare fascista: ritenere che un qualcosa (un’idea, una legge, un regime sociale...) sia corretto, ideale, “normale” in assoluto, etichettando tutto ciò (e tutti coloro) che si allontana da quella universale normalità come a/sub-normale, deviato, patologico, sbagliato, anziché come una possibile argomentazione altra.
In breve, la natura umana è universale relativamente alle circostanze che la individuano e circoscrivono come tale, ad essere universale quindi è sempre una certa antropologia. E si badi bene, i cambiamenti storici non coincidono affatto con gli eventuali cambiamenti antropologici: possono esserci innumerevoli cambiamenti storici, tutti contenuti all’interno della medesima antropologia e, d’altra parte, un mutamento antropologico non va confuso con una semplice transizione storica. Non a caso, Pasolini parla in questi termini della “mutazione antropologica” (termine da lui introdotto nel dibattito culturale italiano) in atto in Italia nella seconda metà del Novecento: “Il mondo ha eterni, inesauribili, cambiamenti. Ogni qualche millennio, però, succede la fine del mondo. E allora il cambiamento è, appunto, totale (…) E ciò implica un’estraneità tra noi due che non è solo quella che per secoli e millenni ha diviso i padri dai figli”. Ecco perché, come recita il titolo del presente articolo, il punto non è avere a che fare con possibili questioni di antropologia, al plurale, come se l’antropologia fosse assoluta, universale, univoca e a cambiare fossero semplicemente le sue possibili articolazioni, bensì si ha a che fare con una questione di antropologia, al singolare, col mutare dell’antropologia stessa, dell’uomo stesso, del vivente stesso. E sotto questa luce vanno ascritti come vettori di mutamento non solo il capitalismo (Pezzano) e l’edonismo consumistico (Pasolini) ma anche, e ritengo in misura molto più pervasiva, la tecnica moderna, la tecnologica, con il suo portato di razionalità strumentale con la quale non siamo ancora (e sembra che potremo esserlo sempre meno) in grado di fare i conti, riuscendo ad utilizzare gli strumenti tecnologici senza assorbire il loro Verbo. Nei migliori dei casi, la questione viene indagata dal punto di vista sociologico, ma non da quello ontologico, che è invece la chiave per aprire alla comprensione della modernità – sembra sia purtroppo passata piuttosto inosservata la frase di Heidegger “l’essenza più profonda della tecnica non è nulla di tecnico”.
Ora, se ci troviamo proprio in questo momento sulla soglia di transizione, non semplicemente da un’epoca a un’altra, ma da un’antropologia a un’altra, dunque, da un mondo a un altro, ciò non significa certo che il cambiamento debba necessariamente essere negativo. Ma questo cambiamento lo è perché annichilisce la possibilità di essere uomini in modi diversi, sostituendola con l’unica, standardizzata, omologata dettata dalla razionalità economica e, ancor di più, da quella tecnologica.
Bene, se questo è vero, quale democrazia ci si può aspettare da questo uomo? È ancora possibile e opportuno applicare verso di esso i nobili principi della ricerca dell’autodeterminazione della propria esistenza, o nello scenario corrente, ciò diventa una via per un’autodistruzione o per un regime di falsa libertà? Una libertà, meglio, un’autodeterminazione che per essere autentica non necessita oggi solo e tanto di specifici meccanismi economico-politico-giuridici, ma innanzi tutto di un’opera di comprensione critica dell’esistente, un’ipotesi che sembra però sempre più remota, oscillando tra la rimozione e la riduzione banalizzante delle domande essenziali.

(«Critica liberale», 01/07/2013)

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