di Maria Giovanna Farina (mg.farina2@alice.it)
La parola e la cura iniziarono un comune cammino tanto tempo fa, inconsapevoli del loro imprescindibile, indissolubile e benefico rapporto di cooperazione nella terapia. Quanto è efficace la parola nella cura della malattia mentale? Questo mio breve percorso di indagine desidera focalizzare il suo punto di origine, la sua evoluzione e i suoi sviluppi per cercare una risposta attraverso il pensiero di taluni studiosi di grande importanza teorica e pratica. Prendo le mosse, partendo dalla contemporaneità, ritornando al passato e poi ancora al presente, dalle considerazioni del filosofo Michel Foucault (1926-1984) circa la condizione di esclusione sociale della follia: le sue riflessioni sono a mio avviso imprescindibili. Chi è folle, alienato, altro da sé, o ritenuto tale, non ha alcun diritto, è escluso e tenuto a opportuna distanza. Dopo l'apertura dei cosiddetti manicomi, la follia avrebbe dovuto farsi epifania: mostrarsi senza alcun velo protettivo, ma non è stato così. Ma siamo certi di cosa sia davvero Follia? Non sarà qualcosa che ancora volutamente viene obliato? Una condizione umana da nascondere agli occhi della presunta normalità?
Nel dicembre del '70, il filosofo Michel Foucault durante la lezione inaugurale al Collège de France di Parigi lesse un discorso, divenuto il famoso testo L'ordine del discorso, dove afferma:
[…] suppongo che in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurare i poteri e i pericoli, di padroneggiare l'evento aleatorio, di schivarne la pesante, terribile materialità.(1)
Il filosofo francese considera come la produzione del discorso sia soggetta ad una sorta di censura che si attua attraverso un certo numero di procedure come quella di esclusione, interessante per la nostra riflessione:
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Disegno di Daniela Lorusso, basato sulla foto di un senzatetto irlandese di Don McCullin (1969) |
Esiste, nella nostra società, un altro principio di esclusione: non più un interdetto ma una partizione (partage) e un rigetto. Penso alla opposizione tra ragione e follia. Dal profondo Medioevo il folle è colui il cui discorso non può circolare come quello degli altri: capita che la sua parola sia considerata come nulla e senza effetto, non avendo né verità né importanza, non potendo far fede in giustizia, non potendo autenticare un atto o un contratto, non potendo nemmeno, nel sacrificio della messa, permettere la transustanziazione e fare del pane un corpo; capita anche, in compenso, che le attribuiscano, all'opposto di ogni altra parola, strani poteri, quello di dire una verità nascosta, quello di annunciare l'avvenire, quello di vedere del tutto ingenuamente quel che la saggezza degli altri non può scorgere.(2)
Nell'antitesi ragione-follia si insinua indisturbato e con un certo grado di prepotenza il potere del divieto. Del divieto ad esprimere il proprio pensiero: sei folle e ciò che dici, in ogni produzione della tua esistenza, rimane inattendibile. Con questo criterio si può far tacere anche una profonda verità. La sua verità, quella visione del mondo reale e concreta che appartiene solo a lui. Se è vero che il folle nella propria alterazione e allucinazione scorge una dimensione altra rispetto a quella condivisa universalmente, è altrettanto plausibile e sacrosanto il suo poter/dover raccontare la propria esperienza di esistenza a qualcuno cui interessi: questa diventa libertà nella e della cura.
[….] per secoli in Europa la parola del folle o non era intesa [….] O cadeva nel nulla – rigettata non appena proferita; oppure vi si decifrava una ragione ingenua o scaltrita, una ragione più ragionevole di quella della gente ragionevole [….] La follia del folle si riconosceva attraverso le sue parole; ma non erano mai accolte né ascoltate.(3)