di Antonio Cecere (antoniocecere@live.it)
La nostra tesi di fondo si basa sull’idea che il Contratto sociale garantisce la libertà e l’uguaglianza grazie a un sistema di leggi giuste. La legge è l’espressione della volontà generale dei cittadini in uno Stato, e da questa dipende la libertà individuale di tutti.
Nel Manoscritto di Ginevra troviamo la più ampia trattazione di ciò che Rousseau intende per legge: “Abbiamo detto che la legge è un atto pubblico e solenne della volontà generale, e poiché col patto fondamentale ciascuno si è sottomesso a tale volontà, ogni legge trae la sua forza solo da questo patto. Ma cerchiamo di dare un’idea più netta alla parola legge presa nel senso proprio e ristretto di cui tratta questo scritto. La natura delle leggi è costituita da una materia e da una forma; la forma è nell’autorità che statuisce, la materia nella cosa statuita”1.
In questa definizione notiamo che con Rousseau, studiando la legge, viene presa in considerazione non soltanto l’autorità che la emana, ma anche l’oggetto a cui fa riferimento. E Rousseau aggiunge: “poiché la cosa statuita si riferisce di necessità al bene comune, ne consegue che l’oggetto della legge deve essere generale come la volontà che la detta, e il vero carattere della legge è costituito da questa duplice universalità”. La legge deve, contemporaneamente, essere universale nell’oggetto e anche nel soggetto che la emana. Questo comporta che non vi saranno oggetti particolari ad essere regolamentati, ma, soprattutto, non vi saranno uomini particolari a esercitare la sovranità. La soluzione a questa impostazione è che la legge deve partire da tutti, per essere applicata a tutti.
Il rapporto è fra la collettività politica e ognuno dei suoi membri, cioè gli stessi soggetti che fanno le leggi sono soggetti alle deliberazioni dell’assemblea legislativa. In questa visione materia e forma sono indistinguibili, e Rousseau considera in realtà il popolo sotto i due aspetti. Da una lettura attenta possiamo evincere che, il Contratto sociale, promette di sostituire, con la sottomissione alle leggi civili, la sottomissione dell’uomo ad un altro uomo. In poche parole la dipendenza dalle leggi assicura l’indipendenza da un padrone. Per ottenere questo risultato il potere di fare le leggi deve esser demandato a tutto il popolo, e questi può deliberare solo su oggetti generali e non su un oggetto o un uomo in particolare. La sovranità resta legittima, in questo senso, solo quando si occupa di provvedimenti generali. Rousseau esclude che possa bastare che il soggetto legiferante sia tutto il popolo per stabilirne la correttezza. La generalità va rispettata sia come origine che come contenuto delle leggi.
L’idea roussoiana non si preoccupa che la legge fornisca ai cittadini dei benefici in un regime di legalità, ma si preoccupa, soprattutto, che il popolo intervenga a titolo di volontà e attraverso regole generali per tutte quelle prescrizioni che disciplinano le attività delle autorità subordinate. Il fatto che le leggi possono avere solo un oggetto generale si connette all’idea che la legislazione mira alla conservazione dell’ordine, cioè dell’intera comunità. Chi rispetta le leggi è l’uomo virtuoso, che ha saputo superare la propria particolarità ed elevarsi alla generalità delle leggi che proteggono l’ordine civile. La virtù, definita in relazione all’atteggiamento del cittadino, viene vista come ogni azione che mira alla promozione del bene pubblico. Nasce così una vera e propria etica della generalità dove non basta più valutare la maturazione della coscienza dell’uomo virtuoso, ma bisogna anche misurare le azioni che quest’uomo compie in quanto cittadino.
Il cittadino dovrà essere coerente con la virtù sia nel deliberare in ottemperanza alla forma generale della legge, ma anche nel rispetto dell’obbedienza che alle proprie leggi deve. Nel momento della socializzazione l’uomo virtuoso era quello che riusciva a trasformare, tramite la ragione, l’amor di sé in amor dell’ordine. L’essere virtuoso riguarda un aspetto della coscienza che sente l’ordine civile come un desiderio. Ora nella veste di cittadino, integrato nell’ordine, la virtù consiste nell’identificarsi con la volontà generale sia che si trovi nell’atto deliberante sia che si trovi nel momento dell’obbedienza. L’elevazione del cittadino alla virtù è l’eliminazione di ogni eteronomia rispetto alla natura e all’oggetto delle leggi.
Se ripensiamo da quali principi, per Rousseau, nasce il processo di socializzazione, verifichiamo che la pietà forniva all’uomo di natura quel sentimento spontaneo di compassione che gli permetteva quel minimo di prudenza e rispetto del proprio simile per una sopravvivenza tra esseri comunque isolati fra loro. Questa definizione della pietà può essere ricompresa come una definizione di diritto naturale. Per Rousseau, infatti, la vita nello stato di natura è senza razionalità, e l’unico strumento per quel minimo di convivenza è il sentimento di pietà. Nello stato politico, invece, quando l’uomo non ha più la preoccupazione di difendere la propria incolumità fisica, può elevarsi, tramite la ragione, purché la società politica offra leggi giuste che ne garantiscano una vita virtuosa2. Soltanto sotto leggi giuste il processo di socializzazione si stabilizza in un ordine che permette l’educazione del cittadino alla virtù politica.
Questo passaggio ci dice che la legge è anteriore alla giustizia e non viceversa. Questo dipende dal fatto che le leggi, quando sono espressione della volontà generale, non possono non volere che il bene di tutti. Una legge che parte da tutti, e si rivolge a tutti, vuole certamente il maggior bene per ciascuno. Questo fatto è una garanzia che le leggi, che discendono da questa natura, sono giuste in sé. Pertanto, in Rousseau la giustizia non è vista come l’osservanza di precetti universali, su cui basare il paragone per giudicare la rettitudine di una legge.
Un pensatore, già prima del ginevrino, aveva posto la questione se la giustizia derivasse la propria legittimità dalla volontà del sovrano e non da regole preesistenti la società politica. In Hobbes, infatti, la giustizia non è il fine, né l’origine dell’ordine politico; il potere politico non ha lo scopo di orientare al bene pubblico la società, intesa come dimensione naturale dell’uomo. Per il filosofo inglese l’unico obiettivo della politica è la creazione dell’ordine artificiale. Questa visione hobbesiana discende dalla convinzione che bene e male non esistono in natura, ma sono dei nomi che indicano ciò che ci attira e ciò che ci ispira avversione. Allo stesso tempo in natura non esiste un’idea di giustizia proprio perché, per Hobbes, la giustizia è solo il rispetto dei patti. In natura non vi sono patti validi, e l’ordine politico è una costruzione razionale e artificiale che esclude ogni fondamento trascendentale o tradizionale. Tutto ciò comporta una identità fra giustizia e legge positiva, e il sovrano, che è la fonte delle leggi, determina sempre, con la propria volontà, la legittimità delle norme. Con Hobbes comincia l’affermazione della giustizia secondo un significato di legittimità, che finisce per essere il principio di legalità. Grazie a questa posizione l’analisi si sposta da un piano contenutistico ad un piano formale. Tale posizione inaugura una modello che studia la conformità o la non conformità di ciò che si considera giusto con la norma stabilita dalla legge.
Le differenze fra i due autori, però, sono evidenti proprio in virtù della diversa natura del sovrano e la diversa dinamica della procedura di realizzazione del patto sociale. In Hobbes, il patto si instaura prima tra gli individui che si impegnano a rinunciare a tutti i diritti che avevano nello stato di natura, per poi trasferire il potere a un sovrano che diventa l’unico detentore della volontà e unico legislatore. La pace e la giustizia vengono assicurati dall’esistenza di questo sovrano sopra la legge (legibus solutus).
In Rousseau il sovrano è sì unico, ma coincide con gli stessi individui che sono i destinatari di quella volontà. Per questo motivo la volontà, che, in quanto di ogni contraente del patto, è generale, può garantire la libertà individuale e la giustizia.
Le leggi sono dunque delle regole generali che si applicano all’intera comunità politica senza distinzioni fra un cittadino e l’altro. Altra cosa invece è l’amministrazione dello stato, per la quale invece è necessario che le deliberazioni riguardino oggetti particolari. La volontà generale, come ricordiamo, svolge un’azione solo sulla formazione delle leggi generali, non può, in nessun modo deliberare su questioni particolari e ancor meno su singoli uomini. Siccome la legislazione è diversa e distinta dall’amministrazione ci saranno anche organi diversi, che ne assicurano il funzionamento.
Mentre il legislativo è composto dalla totalità dei cittadini, l’amministrazione dello stato può essere svolta da dei magistrati. Questi magistrati saranno scelti fra il popolo e svolgeranno una funzione intermedia fra i sudditi e il sovrano. Rousseau tiene molto chiara la distinzione fra chi si occupa in esclusiva di tutto ciò che attiene alla generalità, dall’attività dei magistrati che si occupano di tutte quelle questioni che attengono a casi particolari. L’esercizio della sovranità resta dunque distinto dal potere legislativo. Questa netta separazione fra il momento legislativo della volontà generale e l’esercizio che i magistrati fanno delle leggi che ne derivano, sembra contraddire l’idea di unanimità che dovrebbe essere il significato roussoiano di democrazia.
Noi però abbiamo sottolineato come la volontà generale è sorretta dall’unanimità in virtù della sua funzione generatrice del patto sociale, ma ciò è valido solo in questo primo e fondamentale caso. Per questo motivo lo stesso Rousseau esclude che nella pratica amministrativa si possa attuare l’unione fra la totalità del popolo, che ha funzioni legislative, con i magistrati che si occupano delle singole applicazioni della legge. Con grande forza il ginevrino fa notare che nulla è più pericoloso dell’ingerenza degli interessi privati negli affari pubblici. Il rischio è che la commistione particolare/generale oltre a generare abusi da parte del governo può persino corrompere il potere legislativo con il grave pericoo di modificare la natura del patto fondamentale.
Circa questa eventualità Rousseau si mostra particolarmente preoccupato: “Una volta ben istituito il potere legislativo, si tratta di istituire allo stesso modo il potere esecutivo; infatti questo, che opera solo per atti particolari, non essendo della stessa essenza dell’altro, ne è naturalmente separato. Se fosse possibile che il sovrano, considerato come tale, esercitasse il potere esecutivo, il diritto e il fatto sarebbero talmente confusi che non si saprebbe più che è legge e che cosa non lo è, e il corpo politico così snaturato sarebbe ben tosto in preda alla violenza contro cui fu istituito”.
La separazione delle funzioni, dunque, ha lo scopo di impedire la corruzione della generalità, insita nell’attività del legislativo. Senza questa accortezza le leggi potrebbero servire a raggiungere scopi particolari tradendo l’idea fondamentale che sorregge il Contratto sociale, che è istituito al fine di mantenere sempre la libertà individuale unita alla giustizia.
Un altro aspetto da approfondire è quello che riguarda il rapporto dei due poteri. Rousseau contesta ai suoi predecessori di aver reso l’esecutivo e il legislativo non due poteri separati, bensì due parti diverse dello stato, che si limitano e che generano una frattura nella sovranità. Secondo il ginevrino invece, la subordinazione dell’esecutivo al legislativo ha una ragione intrinseca al significato stesso di sovranità. Il potere esecutivo è la forza presente nella comunità, mentre il legislativo rappresenta la volontà generale che genera il patto. Ma se tra il potere che fa agire il corpo comune e quello che vuole l’azione comune si crea una scissione, noi abbiamo una forza senza volontà che corrisponde alla violenza cieca. Lo stato politico diviene forza bruta senza più una volontà che decide il modo di agire. Per questo motivo l’esecutivo deve essere una emanazione del legislativo, infatti solo così la forza può essere indirizzata secondo i principi della volontà generale. Da questo poi discende anche la conclusione che il sovrano, cioè il popolo, può farsi rappresentare solo al livello dell’amministrazione ma mai a livello della volontà che è o generale o non è più in grado di esprimere le leggi giuste che garantiscono la libertà civile dei cittadini.
Molti interpreti3 e studiosi di Rousseau si sono chiesti per quale motivo il ginevrino abbia deciso di dividere i due poteri, o meglio subordinare l’esecutivo al legislativo. Per quello che riguarda la nostra interpretazione il motivo ci appare immediato in virtù della diversa natura della volontà, che fonda il patto che è generale, e la natura della forza dell’esecutivo che è particolare sia nell’oggetto che nel soggetto che amministra. La dicotomia generale/particolare resta il nucleo teorico4 del Contratto sociale e confondere i due piani a noi pare sminuire la coerenza teorica all’interno dell’opera roussoiana. Leggendo l’opera di Rousseau si avverte la tensione a differenziare la generalità delle leggi fondamentali del patto dall’amministrazione dello stato. Questo assunto è essenziale alla tenuta della coerenza di tutto l’impianto teorico del Contratto sociale. Senza leggi fondamentali che si possano ritenere valide in virtù della loro origine generale, lo stato politico di Rousseau perderebbe l’assicurazione che si possa pensare a una Repubblica retta dalla virtù con leggi giuste per tutti i cittadini.
1) Jean-Jacques Rousseau, Il manoscritto di Ginevra, in Id., Scritti politici, vol. II, Laterza, Roma 1994, p. 53.
2) Per comprendere fino in fondo l’impianto teorico della nostra posizione è fondamentale chiarire che l’uomo nello stato di natura è si privo di razionalità ed è assimilato alla «bête-machine», ma nella riflessione del Secondo Discorso nell’uomo esiste una qualità originaria: la libertà. Questa precisazione si rende necessaria per comprendere fino in fondo i presupposti teorici essenziali del Contratto Sociale. Per un approfondimento adeguato rimandiamo a M. Reale, Le ragioni della politica. J.-J. Rousseau dal "Discorso sull'ineguaglianza" al "Contratto", Ateneo, Roma 1983, in particolare cap. III, par. I, pp. 185-196.
3) Pur condividendo la subordinazione dell’esecutivo dal legislativo notiamo una vena di rammarico per questa soluzione roussoiana in R. Derathé, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, il Mulino, Bologna 1993, p.374: «l’esistenza del governo costituisce una minaccia perenne per lo stato; con la sua "tendenza a degenerare", finisce col provocare la morte del corpo politico. Date queste premesse, ci si chiederà perché Rousseau si sia rassegnato ad affidare il potere esecutivo a un corpo di magistrati distinto e separato dal sovrano, invece di lasciare che il popolo cumulasse le funzioni governative con l’esercizio della sovranità. L’ha fatto perché, come abbiamo visto, il rimedio gli sembra peggiore del male. L’effetto di un simile cumulo è la corruzione del legislatore e la confusione fra il fatto e il diritto; esso genera la tirannide più sicuramente e più rapidamente di quanto non possa fare l’abuso del governo».
4) Su questo tema M. Reale, Le ragioni della politica, cit., pp. 435-511
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Un articolo magnifico e una tristezza immensa nel dover constatare come ancora questi principi siano da difendere e da applicare...
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