di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
Se l’espressione “giovane Lukács” è venuta assumendo una potenza eccessiva ed ideologizzata, come afferma Elio Matassi, autore del volume Il giovane Lukács. Saggio e sistema, Mimesis, 2011 (pp. 187, € 15) nell’”Introduzione” al volume stesso, perché allora fare di questa espressione addirittura il titolo di un libro? Evidentemente, per ridare a quell’espressione una valenza non più ideologizzata, compito che può essere assolto valutando un itinerario intellettuale alla luce della sua fine e non del suo inizio[1]. Un inizio che si pone nel segno del saggismo, che però non deve essere inteso come un qualcosa di frammentario e privo d’unità tematica, ma in maniera prismatica, come una molteplicità di frammenti che dovranno essere tutti riflessi dallo, e quindi contenuti nello, specchio saggistico. Così, la forma saggistica e quella tragica si pongono entrambe nell’ambito del saggismo, come due sue estremità, cosicché il passaggio dall’una all’altra non avviene nel segno dell’esclusione bensì della continuità: esse rappresentano lo stesso discorso declinato in chiave affermativa (la forma saggistica) e negativa (la forma tragica). Per questo il passaggio da un’opera quale A modern dráma fejlődésének története (Storia dello sviluppo del dramma moderno) ad una quale Die Seele und die Formen (L’anima e le forme) non deve essere descritto come un salto da un’interpretazione storico-filosofica del tragico ad una visione pantragica, un metastoricismo ispirato alla filosofia della vita e all’estasi della morte, bensì come un passaggio “fluente” da un approccio storico-filosofico nel quale sono già presenti elementi di ontologia esistenziale metastorico-metafisica ad una piena espansione degli stessi.
Tutto ciò è presente, e riscontrabile, nella particolare fusione che avviene in György Lukács tra l’eredità spirituale ungherese e la cultura tedesca. Agli inizi della sua attività intellettuale infatti Lukács non si sente vicino ai filosofi accademici più influenti della cultura ungherese dell’epoca, quali fra i principali Bernát Alexander, Károly Böhm, Frigyes Medveczky e Ákos Pauler, per lui troppo influenzati dal positivismo comtiano, né ai periodici «Huszadik Század» («Ventesimo secolo») e «Nyugat» («Occidente»), per lui troppo vicini alla società e cultura occidentale[2]; i suoi riferimenti sono invece costituiti da figure quali i poeti Endre Ady, Mihály Babits, Dezső Kosztolányi e i sociologi Oszkár Jászi e Ervin Szabó. Successivamente a questo primo momento formativo (le cui tracce rimarranno per sempre in Lukács) si pone come fondamentale l’incontro con la cultura tedesca, attraverso Georg Simmel[3]. Dai suoi riferimenti ungheresi Lukács mutua (oltre che determinati contenuti ai quali si accennerà in seguito) un approccio storico-filosofico, evidente in opere quali Megjegyzések az irodalomtörténet elméletéhez (Osservazioni sulla teoria della storia letteraria) e Storia dello sviluppo del dramma moderno, che però a ben vedere è una filosofia della storia inerente al dramma ed alla sua evoluzione in quella che ne è la forma specifica ed esemplare, la tragedia. Dall’incontro con la cultura tedesca Lukács assorbe il problema della dialettica e quindi lo spostamento di prospettiva verso la problematica metafisico-esistenziale che comporta una revisione, ma, e questo Matassi lo sottolinea più volte, non una negazione né una confutazione dell’approccio storico-filosofico, come si può desumere da Metaphysik der Tragödie (Metafisica della tragedia). Tutto questo significa che il passaggio dal periodo di Storia dello sviluppo del dramma moderno a quello di Metafisica della tragedia non rappresenta una rottura ma un’evoluzione nella continuità: nella prima opera è già presente il richiamo alla tragedia, nella seconda non viene rifiutata la dimensione storico-sociale. Se non una rottura, cosa è dunque avvenuto? È avvenuto l’inserimento della dialettica nel saggismo da cui deriva la tragedia come genere saggistico.
Tutto ciò è presente, e riscontrabile, nella particolare fusione che avviene in György Lukács tra l’eredità spirituale ungherese e la cultura tedesca. Agli inizi della sua attività intellettuale infatti Lukács non si sente vicino ai filosofi accademici più influenti della cultura ungherese dell’epoca, quali fra i principali Bernát Alexander, Károly Böhm, Frigyes Medveczky e Ákos Pauler, per lui troppo influenzati dal positivismo comtiano, né ai periodici «Huszadik Század» («Ventesimo secolo») e «Nyugat» («Occidente»), per lui troppo vicini alla società e cultura occidentale[2]; i suoi riferimenti sono invece costituiti da figure quali i poeti Endre Ady, Mihály Babits, Dezső Kosztolányi e i sociologi Oszkár Jászi e Ervin Szabó. Successivamente a questo primo momento formativo (le cui tracce rimarranno per sempre in Lukács) si pone come fondamentale l’incontro con la cultura tedesca, attraverso Georg Simmel[3]. Dai suoi riferimenti ungheresi Lukács mutua (oltre che determinati contenuti ai quali si accennerà in seguito) un approccio storico-filosofico, evidente in opere quali Megjegyzések az irodalomtörténet elméletéhez (Osservazioni sulla teoria della storia letteraria) e Storia dello sviluppo del dramma moderno, che però a ben vedere è una filosofia della storia inerente al dramma ed alla sua evoluzione in quella che ne è la forma specifica ed esemplare, la tragedia. Dall’incontro con la cultura tedesca Lukács assorbe il problema della dialettica e quindi lo spostamento di prospettiva verso la problematica metafisico-esistenziale che comporta una revisione, ma, e questo Matassi lo sottolinea più volte, non una negazione né una confutazione dell’approccio storico-filosofico, come si può desumere da Metaphysik der Tragödie (Metafisica della tragedia). Tutto questo significa che il passaggio dal periodo di Storia dello sviluppo del dramma moderno a quello di Metafisica della tragedia non rappresenta una rottura ma un’evoluzione nella continuità: nella prima opera è già presente il richiamo alla tragedia, nella seconda non viene rifiutata la dimensione storico-sociale. Se non una rottura, cosa è dunque avvenuto? È avvenuto l’inserimento della dialettica nel saggismo da cui deriva la tragedia come genere saggistico.
Ma quali sono i contenuti di cui è informato questo saggismo dialettico? Una chiara rivendicazione anticapitalistica, sia a sfondo sociale, derivante dall’eredità ungherese, sia su base filosofica, derivante dall’incontro con la filosofia tedesca. L’eredità ungherese si potrebbe esprimere con la dicitura “modello-Endre Ady”, ovvero, con l’espressione di una totale opposizione e irriconciliabilità con la realtà data, lo status quo, al punto tale che la rivoluzione, e con essa il socialismo, non ha valore in quanto collegata alla realtà ma proprio perché (e se) ne è scollegata, ponendosi come forma estetica: «la rivoluzione è soltanto uno stato d’animo, l’unica possibilità positiva e (l’unica possibilità) formale, perché l’infinito isolamento causato dalla disperazione riceva pur un’espressione»[4]. La filosofia tedesca si innesta, in Lukács, su questi presupposti, modificandoli sensibilmente ma senza mai determinarne l’abbandono, dando luogo così ad un’interpretazione sui generis di G.W.F. Hegel, come “metafisico dello Stato” che ipostatizza lo spirito oggettivo ad assoluto[5] e di cui si individua la possibile “correzione” in Karl Marx: «la possibilità della conoscenza della vera struttura dello spirito oggettivo deve essere resa in maniera filosofico-storica; qui risiede il significato di Marx»[6]; è da notare come a questa altezza della sua maturazione intellettuale, la lettura di Lukács della Sollensphilosophie hegeliana è filtrata dal “modello-Endre Ady”, il filosofo ungherese non considera quindi come l’hegeliana dissoluzione della morale nel diritto e nello Stato, possa non essere un trionfo di questi ultimi ma della prima. Successivamente all’incontro con la poesia di Ady, Lukács scopre la novellistica di Dániel Jób, considerandola la parafrasi di quella, e ricavandone una sensibile trasformazione delle suggestioni adyiane: anche in Jób è presente l’irriconciliabilità con la realtà, tuttavia, a differenza di Ady, questo non si sostanzia in un j’accuse nei confronti della realtà stessa, ma nella semplice presa d’atto della sua essenza, che non contrasta ma semplicemente rende inutile qualsiasi resistenza: «tutto è qui inutile (..) qui nessuno ha bisogno del loro [degli uomini delle novelle di Jób] ardore e della loro passione (…) qui le loro raffinatezze non troverebbero risonanza da nessuna parte; anche se scrivessero le loro poesie, non ci sarebbe nessuno che le amerebbe, se poi volessero realizzare nella vita i loro sogni, non ci sarebbe materia da cui potrebbero formare qualche cosa. Sono uomini spenti e delusi, guerrieri stancati prima della lotta, guerrieri feriti a morte prima dei combattimenti (…) E allora l’uno cade in basso anche esteriormente, l’altro diventa forse anche uno per bene, ma sarà spento, senza canto, senza ebbrezze, uno caduto dai sogni e dai desideri, un uomo qualunque, un uomo morto»[7], insomma, l’impraticabilità della rivoluzione diviene, con Jób e oltre Ady, l’impensabilità della stessa, che così viene annullata anche come tendenza[8]. Di qui la necessità di recuperare la pensabilità e la praticabilità della trasformazione della realtà, cosa che avviene in Geschichte und Klassenbewusstsein. Studien über marxistische Dialektik (Storia e coscienza di classe), senza però mai tendere alla riconciliazione con essa (con Ady), ma ad un rapporto con il reale non più vincolato ad un preliminare dover essere, ad una idea regolativa (oltre Ady).
Tuttavia, al posto di quella preliminare idea regolativa, che troppo facilmente si presta ad essere ridotta ad istanze socio-politiche, assistiamo al graduale sorgere di una determinata Geschichtsphilosophie, non presente in opere come L’anima e le forme e Cultura estetica e invece presente a partire da Die Theorie des Romans (Teoria del romanzo), cosa che, afferma Matassi, ha fatto erroneamente ritenere che tra le prime e l’ultima fosse avvenuto un passaggio dal saggio al sistema. Diversamente, ciò che avviene non è un superamento del saggio nel sistema, ma una continuazione del saggio che si fa sistema grazie all’accoglimento in sé di una specifica filosofia della storia, che muove dalla caduta della Totalität greca e si nutre di elementi di Lebensphilosophie e della filosofia dei primi romantici tedeschi (Friedrich Schlegel e Novalis in particolare). Questa chiave di lettura rende ancora più comprensibile perché l’interpretazione lukacsiana di Hegel sia sui generis, essa è infatti intrisa di elementi mistico-irrazionalistici, e come Lukács sia arrivato a considerare il romanzo come una forma di anticipazione storica, che precede la propria epoca, senza per questo perdere il suo carattere realistico. Ma come si concilia questa realisticità con l’universalità che l’opera d’arte pur esprime?
Nel Lukács più maturo l’esperienza estetica si fa esperienza autonoma nella forma della fenomenologia estetica. In altri termini, l’opera d’arte diviene quell’evento (alla cui ricerca Lukács è andato per tutta la vita, gradualmente sempre più consapevolmente) in grado di saldare temporalità e atemporalità. In essa infatti lo storico e l’eterno non si trovano contrapposti ma conciliati: l’opera d’arte è eterna in quanto esprime un valore, e quindi una normatività, universale, allo stesso tempo essa è un valore che è uscito dalla storia, che continua a far parte della storia e che la anticipa (come si è detto, per quanto concerne il romanzo). L’arte insomma «prospetta un valore 'eterno' (l’opera d’arte) che per la sua intima essenza però si colloca nel tempo. Un valore per la cui costruzione categoriale il tempo risulta necessario (sia che si tratti del tempo 'storico' che di quello 'ideale' della raffigurazione artistica nelle sue forme specifiche). L’opera d’arte appare connessa alla temporalità nella sua genesi, nella sua sussistenza come nei suoi effetti» (p. 164). Insomma, l’opera d’arte realizzata è un “universale concreto”, un sistema[9] che contiene in sé non la contrapposizione ma la consustanzialità di momento e eternità. Per questa via, Lukács gradualmente si allontana da una posizione “romantica”, i cui punti di riferimento sono J.G. Fichte, Schlegel, Novalis, Søren Kierkegaard, Emil Lask, Heinrich Rickert, per avvicinarsi all’interpretazione hegeliana della dialettica, con la quale però non verrà mai a coincidere, rimanendo sempre in lui certe istanze acquisite nella sua formazione giovanile.
In conclusione, il volume di Matassi Il giovane Lukács offre un’interpretazione organica (senza dover così ricorrere alle ipotesi di svolte o salti) del pensiero di un autore che, essendo stato legato ad una certa stagione politica, al venire meno di quella è stato troppo frettolosamente archiviato, e con la cui rilettura si può invece, a maggior ragione potendola oggi fare con maggiore serenità e obiettività, ripercorrere il cammino di una significativa parte del pensiero del secolo scorso.
[1] Su questo, mi sia concessa una digressione: «noi sapremo che cosa è stata la nostra vita soltanto quando saremo morti. Noi non ci esprimeremmo se fossimo immortali. Così come la realtà non si esprime che nel momento in cui è finita; diventa espressione nel momento in cui finisce (…) Prendiamo l’esempio di Manfredi “in co del ponte presso a Benevento”; la “lacrimuccia” di cui parla Dante: tutta la vita di Manfredi sarebbe stata un’altra se, alla fine, proprio all’ultimo minuto, “in co del ponte presso a Benevento”, non fosse uscita dai suoi occhi quella lacrimuccia, che cambia completamente prospettiva sulla sua vita. Lancia retrospettivamente sulla sua vita un’altra luce e la trasforma, ne fa un’altra, fa quella che è la sua vita (…) essere immortali e non esprimersi, o essere mortali ed esprimersi», P.P. Pasolini, Pasolini rilegge Pasolini, Milano, 2005, p. 32.
[2] «una certa visione del mondo, che io consideravo allora come rivoluzionaria, mi opponeva alla rivista «Nyugat», mi isolava all’interno di «Huszadik Század», e mi assegnava un ruolo a parte – quello di un “outsider” – nell’ambiente dei miei futuri amici tedeschi», G. Lukács, Magyar irodalom – Magyar kultúra (Letteratura ungherese – Cultura ungherese), Budapest, 1970, p. 9. Ciononostante Lukács pubblica diversi articoli su tali riviste, fra i quali, su «Occidente», Jegyzetek a romantikus életfilozófiáról. Novalis (Sulla filosofia romantica dell’esistenza: Novalis), e su «Huszadik Század», A konservativ es progresszív idealizmus vitája (Dibattito sull’idealismo conservatore e l’idealismo progressista).
[3] In Storia dello sviluppo del dramma moderno Lukács mostra di conoscere le opere di Simmel Soziologie (Sociologia), Philosophie des Geldes (Filosofia del denaro) e Die Großstädte und das Geistesleben (La metropoli e la vita dello spirito).
[4] G. Lukács, Esztétikai kultúra (Cultura estetica), tr. it Roma, 1977, p. 47.
[5] «Sì, lo Stato è un potere, ma deve essere riconosciuto come esistente nel senso utopico della
filosofia: nel significato essenzialmente attivo dell’autentica etica? Io non lo credo. E spero di poter
protestare energicamente contro ciò nelle parti non estetiche del mio libro su Dostoevskij» G. Lukács, Paul Ernst und Georg Lukacs. Dokumente einer Freundschaft (Paul Ernst e Giorgio Lukacs. Documenti di un’amicizia), tr. it., Roma, 1984, pp. 66-67, il progetto lukacsiano di un libro su Fëdor Dostoevskij rimase purtroppo solo tale, di esso restano l’indice ed alcuni appunti frammentari ritrovati in un baule presso una banca di Heidelberg, da cui lo steso Lukács non li ritirò mai, essi costituiscono il cosiddetto Manoscritto-Dostoevskij custodito presso il “Lukács-Archivum” di Budapest; cfr. anche G. Lukács, Taktika és etika (Tattica e etica).
[6] Cfr. G. Lukács, Notizen Dostoevskij (Dostoevskij).
[7] G. Lukács, Jób novellái (Le novelle di Job), pubblicato prima in «Ventesimo secolo» e poi in Cultura estetica, tr. it. cit., pp. 56-58.
[8] Cfr. G. Lukács, Sulla filosofia romantica dell’esistenza: Novalis, e A lelki szegénységről (Sulla povertà di spirito).
[9] «con il termine sistema deve intendersi una totalità concreta e adempiuta e non un insieme di forme astratte, bisognose di adempimento», G. Lukács, Heidelberger Ästhetik (Estetica), tr. it Torino, 1975, p. 172.
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Finalmente una rilettura che dà il giusto rilievo a un pensatore e critico necessari per una lettura della realtà, dell'esistenza e del suo manifestarsi nell'opera letteraria. Forse non ci si ferma a Lukacs, ma non si può non attraversarlo. Mi sono permesso di condividere il post sul blog http://www.nellocchiodelpavone.blogspot.it/
RispondiEliminaFrancesco Filia