di Francesco Barresi (ruutura@hotmail.it)
Ci sono libri che non vengono capiti subito, che hanno bisogno di tempo per essere compresi nel loro insieme, nella loro portata rivoluzionaria. Iconografia dell’arte italiana. 1100-1500: una linea appartiene a questo genere: venne pubblicato nel 1979 con scarsissimo successo per poi essere rivalutato nella sua interezza.
È un libro che scardina le basi di una metodologia crociana troppo abbarbicata nel suo idealismo, troppo “poetica”, che preferiva valutare l’opera dell’artista nel suo “sentimento elevato a fantasia”, elevare l’animo ad sublimia, ma tale impostazione ha stabilito un approccio romantico con l’opera d’arte, come se il cuore del critico dovesse esaminare le epifaniche rivelazioni dell’arte, trascurando dettagli e movimenti. La critica crociana ben separava la storia dell’arte dalla storia della cultura, come due sorelle splendide e riottose, quando già la critica europea (pensiamo agli studi anglosassoni di Aby Warburg) era incamminata su ben altre strade, proponendo un’interpretazione globale dell’opera d’arte, esaminando quei fattori che hanno contribuito alla sua creazione. L’opera d’arte, certo, ma il pubblico? Una categoria difficile da definire, ma è indispensabile? Che un’opera d’arte non sia semplicemente il prodotto del genio solitario, ma il frutto di valutazioni “d’attesa”, questo non era considerato da Croce. E la committenza? Può un committente influenzare in itinere il procedimento artistico, dettare correzioni, suggerire anche in maniera invasiva? Ed ecco un aspetto peculiare della novità di Settis: la triade “pubblico-artista-committenti”, perché l’opera d’arte non è solo il frutto dell’abilità dell’artista, ma l’arrivo di un concorso di forze (e non sono le celebri “linee-forze strutturali” di Argan) che hanno determinato il suo svolgimento in cursu. E come guarderà il pubblico? Dove sposterà lo sguardo? Sarà facilmente impressionato? Cosa vuole vedere e come lo vuole vedere? Ecco le possibili domande, ad esempio, che un artista del calibro di Giotto, dipingendo il superbo ciclo della Cappella degli Scrovegni, penserà prima che il pennello sia intinto nel colore. Ed è anche l’esempio più riuscito di Settis, interpretando le splendide figurazioni alla luce di un possibile perché. Ogni opera d’arte è un “caso”, un fenomeno da valutare a partire dai suoi percorsi più intimi e segreti, da ricollegare e confrontare con altri esempi, per riuscire a capire quali dinamiche abbiano partecipato. E sarà solo lì che l’interpretazione dell’opera d’arte sarà veramente compiuta: quando si riuscirà a descriverla come si voleva che si vedesse, che si capisse in quel preciso tempo, con tutti i messaggi e le citazioni, in un formidabile viaggio nel tempo con gli occhi e la sensibilità degli antichi. Così non sarà un caso che il Giuda degli Scrovegni abbia un sacchetto in mano, con una mano demoniaca sul braccio, proprio in prossimità della sua impiccagione nel Giudizio Universale; non è un caso che l’architettura della mangiatoia si ripeta nelle scene successive, non è un caso l’atteggiarsi dei Magi, l’affetto della Madonna: guardiamo le figurazioni sottostanti e troveremo Gesù sempre nel medesimo posto (a sinistra), circondato dall’affetto degli apostoli (nel riquadro di sopra era della Madonna) e la genuflessione dei Magi riprende la lavanda dei piedi. Tutto è chiaro quindi: l’artista ha creato dei nessi tra le singole figurazioni affinché l’occhio del pubblico vagasse e facesse raffronti, aiutando la memoria. E l’Allegoria dell’invidia? Cosa c’entrano quelle orecchie di asino, le corna di bue, il sacchetto, la lingua di serpente? Non sono forse dei caratteri tipici dell’avarizia? E cosa c’entra con Giuda, mercator pessimus, che ha venduto il suo maestro? Questi i misteri dell’opera d’arte, questo il terreno d’indagine del critico, che si asterrà da altre possibili complicanze come “il colore ambientale, l’armonia coloristica, la leggerezza delle tinte, la pittoricità, la gentilezza dei volti”, il nostro occhio è abbastanza consapevole dell’effusione tonale della Cappella, è la prima impressione che ne riceviamo, ma la nostra mente esige di capire cosa abbia determinato i caratteri, la posizione, i luoghi delle singole figurazioni e come si accordino alle altre, quale il messaggio, le possibili influenze “esterne” (che poi diventeranno tanto interne quanto intrinseche alla struttura dell’opera d’arte).
La Cappella è solo un caso, perché Settis passa in rassegna numerosi casi e li accosta secondo relazioni precise. E’questo il fascino del libro: porre una metodologia tipica di un archeologo (Settis è principalmente un archeologo) alle opere d’arte, quasi per poter “scavare” la verità, e solo un archeologo potrà dire, guadandolo, che il portale di Bonanno Pisano a Monreale è stato spedito da Pisa, senza bisogno di consultare le carte. Ma la bellezza di questo libro non cessa qui, perché un lettore attento si stupirebbe di non trovare le categoriche partizioni “architettura-scultura-pittura”, come di trovare un titolo tradizionale che escluda l’anno mille, un periodo importantissimo per la storia dell’arte italiana. La portata rivoluzionaria di questo testo sta proprio qui: nel superare le convenzioni per proporre novità, anche di metodo, qualora occorra per superare il passato. Le singole “trasformazioni” della croce dipinta, ad esempio, non sono soltanto un tentativo di superare l’ingombrante presenza bizantina nell’arte italiana: c’è di più, c’è il desiderio mondano di frate Elia, che vuole apparire vicino al suppedaneo del Crocifisso di Giunta Pisano, perché vuole “emulare” il gesto di S. Francesco, come la volontà di dipingere più realisticamente il dolore del Cristo, e da qui la curva epigastrica di Cimabue e gli occhi chiusi, da vero patiens, di una sofferenza che porterà alla gloria dell’abside della Cattedrale di Pisa, giacché l’iconografia parrebbe identica a quella del Crocifisso di Giunta Pisano del 1250, con la Madonna e S. Giovanni Evangelista. Ma se prima c’era il Battista, perché ora un evangelista? E perché un libro in mano? E quel suo atteggiarsi, così distaccato e dolce nel volto?
Queste e altre domande stuzzicanti per chi voglia intraprendere un vero viaggio nel cuore dell’arte italiana, per preparare la mente e sviluppare il fuoco della vista, così da interpretare l’opera d’arte nel suo insieme, “saziati” da tutti quei possibili dubbi, i rovelli di ogni critico acuto, per chi non si accontenta della prima lezione.
Ci sono libri che non vengono capiti subito, che hanno bisogno di tempo per essere compresi nel loro insieme, nella loro portata rivoluzionaria. Iconografia dell’arte italiana. 1100-1500: una linea appartiene a questo genere: venne pubblicato nel 1979 con scarsissimo successo per poi essere rivalutato nella sua interezza.
È un libro che scardina le basi di una metodologia crociana troppo abbarbicata nel suo idealismo, troppo “poetica”, che preferiva valutare l’opera dell’artista nel suo “sentimento elevato a fantasia”, elevare l’animo ad sublimia, ma tale impostazione ha stabilito un approccio romantico con l’opera d’arte, come se il cuore del critico dovesse esaminare le epifaniche rivelazioni dell’arte, trascurando dettagli e movimenti. La critica crociana ben separava la storia dell’arte dalla storia della cultura, come due sorelle splendide e riottose, quando già la critica europea (pensiamo agli studi anglosassoni di Aby Warburg) era incamminata su ben altre strade, proponendo un’interpretazione globale dell’opera d’arte, esaminando quei fattori che hanno contribuito alla sua creazione. L’opera d’arte, certo, ma il pubblico? Una categoria difficile da definire, ma è indispensabile? Che un’opera d’arte non sia semplicemente il prodotto del genio solitario, ma il frutto di valutazioni “d’attesa”, questo non era considerato da Croce. E la committenza? Può un committente influenzare in itinere il procedimento artistico, dettare correzioni, suggerire anche in maniera invasiva? Ed ecco un aspetto peculiare della novità di Settis: la triade “pubblico-artista-committenti”, perché l’opera d’arte non è solo il frutto dell’abilità dell’artista, ma l’arrivo di un concorso di forze (e non sono le celebri “linee-forze strutturali” di Argan) che hanno determinato il suo svolgimento in cursu. E come guarderà il pubblico? Dove sposterà lo sguardo? Sarà facilmente impressionato? Cosa vuole vedere e come lo vuole vedere? Ecco le possibili domande, ad esempio, che un artista del calibro di Giotto, dipingendo il superbo ciclo della Cappella degli Scrovegni, penserà prima che il pennello sia intinto nel colore. Ed è anche l’esempio più riuscito di Settis, interpretando le splendide figurazioni alla luce di un possibile perché. Ogni opera d’arte è un “caso”, un fenomeno da valutare a partire dai suoi percorsi più intimi e segreti, da ricollegare e confrontare con altri esempi, per riuscire a capire quali dinamiche abbiano partecipato. E sarà solo lì che l’interpretazione dell’opera d’arte sarà veramente compiuta: quando si riuscirà a descriverla come si voleva che si vedesse, che si capisse in quel preciso tempo, con tutti i messaggi e le citazioni, in un formidabile viaggio nel tempo con gli occhi e la sensibilità degli antichi. Così non sarà un caso che il Giuda degli Scrovegni abbia un sacchetto in mano, con una mano demoniaca sul braccio, proprio in prossimità della sua impiccagione nel Giudizio Universale; non è un caso che l’architettura della mangiatoia si ripeta nelle scene successive, non è un caso l’atteggiarsi dei Magi, l’affetto della Madonna: guardiamo le figurazioni sottostanti e troveremo Gesù sempre nel medesimo posto (a sinistra), circondato dall’affetto degli apostoli (nel riquadro di sopra era della Madonna) e la genuflessione dei Magi riprende la lavanda dei piedi. Tutto è chiaro quindi: l’artista ha creato dei nessi tra le singole figurazioni affinché l’occhio del pubblico vagasse e facesse raffronti, aiutando la memoria. E l’Allegoria dell’invidia? Cosa c’entrano quelle orecchie di asino, le corna di bue, il sacchetto, la lingua di serpente? Non sono forse dei caratteri tipici dell’avarizia? E cosa c’entra con Giuda, mercator pessimus, che ha venduto il suo maestro? Questi i misteri dell’opera d’arte, questo il terreno d’indagine del critico, che si asterrà da altre possibili complicanze come “il colore ambientale, l’armonia coloristica, la leggerezza delle tinte, la pittoricità, la gentilezza dei volti”, il nostro occhio è abbastanza consapevole dell’effusione tonale della Cappella, è la prima impressione che ne riceviamo, ma la nostra mente esige di capire cosa abbia determinato i caratteri, la posizione, i luoghi delle singole figurazioni e come si accordino alle altre, quale il messaggio, le possibili influenze “esterne” (che poi diventeranno tanto interne quanto intrinseche alla struttura dell’opera d’arte).
La Cappella è solo un caso, perché Settis passa in rassegna numerosi casi e li accosta secondo relazioni precise. E’questo il fascino del libro: porre una metodologia tipica di un archeologo (Settis è principalmente un archeologo) alle opere d’arte, quasi per poter “scavare” la verità, e solo un archeologo potrà dire, guadandolo, che il portale di Bonanno Pisano a Monreale è stato spedito da Pisa, senza bisogno di consultare le carte. Ma la bellezza di questo libro non cessa qui, perché un lettore attento si stupirebbe di non trovare le categoriche partizioni “architettura-scultura-pittura”, come di trovare un titolo tradizionale che escluda l’anno mille, un periodo importantissimo per la storia dell’arte italiana. La portata rivoluzionaria di questo testo sta proprio qui: nel superare le convenzioni per proporre novità, anche di metodo, qualora occorra per superare il passato. Le singole “trasformazioni” della croce dipinta, ad esempio, non sono soltanto un tentativo di superare l’ingombrante presenza bizantina nell’arte italiana: c’è di più, c’è il desiderio mondano di frate Elia, che vuole apparire vicino al suppedaneo del Crocifisso di Giunta Pisano, perché vuole “emulare” il gesto di S. Francesco, come la volontà di dipingere più realisticamente il dolore del Cristo, e da qui la curva epigastrica di Cimabue e gli occhi chiusi, da vero patiens, di una sofferenza che porterà alla gloria dell’abside della Cattedrale di Pisa, giacché l’iconografia parrebbe identica a quella del Crocifisso di Giunta Pisano del 1250, con la Madonna e S. Giovanni Evangelista. Ma se prima c’era il Battista, perché ora un evangelista? E perché un libro in mano? E quel suo atteggiarsi, così distaccato e dolce nel volto?
Queste e altre domande stuzzicanti per chi voglia intraprendere un vero viaggio nel cuore dell’arte italiana, per preparare la mente e sviluppare il fuoco della vista, così da interpretare l’opera d’arte nel suo insieme, “saziati” da tutti quei possibili dubbi, i rovelli di ogni critico acuto, per chi non si accontenta della prima lezione.
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