lunedì 5 aprile 2010

Un caleidoscopio di immagini

di Erwin de Greef (erwindegreef@libero.it)

Where shall we adventure, to-day that we’re afloat,
Wary of the weather and steering by a star?
Shall it be to Africa, a-steering of the boat,
To Providence, or Babylon, or off to Malabar?

R. L. Stevenson, Pirate Story

Il racconto e il raccontarsi per Stevenson si riassumono nella capacità di intrattenere il pubblico. Questo aspetto rilevante dell’atto narrativo gli ha permesso di scrivere storie affascinanti, che ancora oggi sanno comunicare al lettore la passione per la lettura. Si tratta di opere che hanno coperto diversi generi: dalla saggistica, a cui questo breve scritto deve un tributo, alle short stories di cui è stato un maestro indiscusso; dal romanzo in ogni sua sfaccettatura, alla poesia e al teatro.
La sua avventura di narratore, se così possiamo dire, ha radici assai lontane in quanto fin da piccolo, pur non sapendo leggere – imparerà a otto anni – si diverte a raccontare strane storie a Cummy, la governante che i suoi genitori hanno assunto per aiutarlo nella gestione di un quotidiano, fatto di terribili malattie e una consequenziale gracilità, che lo minerà nel fisico fino alla morte, prematura.
Nell’infanzia dorata e tradita, il suo letto – così come scrive nella poesia My bed is like a little boat – diventa un veliero in cui lui con gli abiti del nocchiero salpa nel buio della notte. Davanti alla banchina del porto saluta tutti gli amici (immaginari) e anche Cummy, poi chiude gli occhi e tutto è perduto, non vede più, non sente più. Naviga solo. Si dà fiducia questo bambino, che durante il giorno guarda gli altri dalla finestra di casa giocare per strada o nelle loro stanze. Nel viaggio porta con sé qualcosa da mangiare, proprio come farebbe ogni buon marinaio. Infine, dopo una notte di navigazione, sano e salvo fa ritorno nella camera, dove il suo veliero è di nuovo attraccato.
È in questo contesto che il giovane Stevenson dà forma alla sua fantasia. Gioca in casa ai soldatini, da Cummy ascolta le storie di fantasmi e le letture dalla Bibbia e, quando il tempo e la salute lo permettono, va dal giornalaio per comprare gli allora famosi teatrini di Skelt. Più avanti negli anni scriverà: “Che cosa sono io? Che cosa sono la vita, l’arte, le lettere, il mondo, se non ciò che il mio Skelt ha plasmato?... ”. Il teatrino diurno di Skelt e quello notturno dei sogni sono alla base della sua incredibile creatività.
Fin da piccolo, l’impegno di Stevenson è di intrattenere il pubblico, allora, per non rimanere del tutto solo, da adulto, per fare sognare i suoi lettori. È questa la sua pietra angolare. Prende spunto non dai libri che ritiene scritti meglio, ma proprio da quelli che allungano il suo desiderio verso la lettura, i romanzi di Dumas, Robinson Crusoe, Il Visconte di Bragelonne, Le Mille e una notte e così via. Il suo modello sarà quello tanto amato e ripreso da Italo Calvino, ossia il romanzo che comincia con: “Era una notte buia e tempestosa”.
Questa urgenza nel coinvolgere il lettore la spiega nel saggio A Gossip on Romance, pubblicato nel 1882 sul “Longman’s Magazine” in cui scrive: “… nel procedimento stesso della lettura dovrebbe esserci qualcosa di voluttuoso e travolgente; davanti al libro dovremmo sentirci esaltati, rapiti, praticamente svuotati di noi stessi; e quando smettiamo di leggerlo e lo mettiamo da parte, la nostra mente dovrebbe ancora essere piena di un vero e proprio caleidoscopio di immagini, dense e fluttuanti, tanto da impedirci di prendere sonno o di pensare ad altro”.
È la poetica della circostanza che crea l’interesse intorno al racconto. Il lettore è affascinato non tanto da quel che il protagonista della storia sceglie di fare ma piuttosto dal modo in cui riesce a metterlo in atto. I turbamenti appassionati, le esitazioni della coscienza, le aspettative morali sono dei limiti alla fruizione della narrazione. Quel che il lettore vuole sentirsi raccontare sono le robuste e linde avventure all’aria aperta, il cozzo delle armi o gli intrighi della vita di relazione.
Il narratore Stevenson si fa forte del mondo misterioso dell’infanzia e dell’adolescenza, della passione dei giovani per quelle sfaccettature della vita che sono da intendersi come un gioco, dove il ribelle, il pirata e il bandito sono il piatto forte dell’avventura. L’attenzione è rivolta verso quei segreti e quelle goliardie – la mitopoietica infantile – che affascinano il lettore nel momento più libero e denso di significato. Per realizzare questo obiettivo per lui sarà uso comune leggere a voce alta a familiari, amici e operatori del mondo editoriale le sue storie e, tra queste, alcune tra le più famose le scriverà a quattro mani con il figlio adottivo Lloyd Osbourne o addirittura ispirandosi alla sua fantasia.
Dietro a questo modo di intendere la narrativa c’è in Stevenson il principio calvinista secondo il quale l’individuo non è un agente morale; in altri termini, egli non è in grado di formare il proprio destino, può soltanto replicare le disposizioni del fato. Una cosa ne richiama un’altra e nella costruzione di una scena assumono particolare rilievo i luoghi in cui siamo deputati a vivere quella realtà. La nostra vita, sostiene Stevenson, scorre nella vana attesa del genius loci, un luogo ideale percepibile da chiunque e che ci suggerisce un’idea, un desiderio o un dovere. E’ un luogo nel quale sentiamo che ci accadrà qualcosa, in cui vivremo l’avventura.
In tal senso, Stevenson afferma che il compito del grande scrittore creativo è di mostrare al suo lettore l’apoteosi e la sublimazione dei sogni a occhi aperti dell’uomo comune. I racconti possono essere – e per lo più sono – alimentati dalla realtà della vita, dal quotidiano, ma il loro scopo e caratteristica pregnante consisterà nella vocazione a rispondere ai desideri inconfessati e indistinti di chi legge. La grande qualità del narratore è di dare seguito alla logica ideale del sogno. Interpretato in questo modo, il racconto di avventura non si contrappone al realismo o al romanzo psicologico. Nella storia di Aiace o nell’Amleto abbiamo letteratura e arte al pari di quella di Robinson Crusoe.
Contro il pensiero di Henry James, che trovava gusto nel “poter litigare con l’autore”, per Stevenson il lusso, nella lettura di un romanzo, consiste nel sospendere il giudizio, nel farci sommergere dalla vicenda che stiamo leggendo come da un’onda. Nel momento della lettura, dobbiamo vivere dentro l’avventura. Poi, soltanto dopo, in là nel tempo, possiamo svegliarci e cominciare a fare dei distinguo e trovare dei difetti. In ogni capitolo, paragrafo e frase; il romanzo ben scritto esprime il pensiero che lo ispira e struttura. Ogni vicenda e personaggio – principale o secondario – deve essere funzionale al risultato che il narratore si è prefisso di raggiungere. Se nel testo emerge una parola che si organizza in funzione diversa, il romanzo o racconto è riuscito meno bene di quel che poteva essere se quella parola non ci fosse stata.
Nella letteratura, Stevenson difende il gioco, il divertimento, l’arguzia dei personaggi, il loro porsi in una dimensione che non li fa essere né buoni né cattivi, ma uomini che interpretano la realtà così come si presenta loro di volta in volta. I libri, per lui, sono tali quando permettono di affrontare un viaggio che sia attraverso i mari alla ricerca di un tesoro perduto o nella mente di personaggi che si sdoppiano tra il bene e il male come il Dottor Jekyll o il sublime Long John Silver, a cui lo scrittore Björn Larsonn deve un tributo assoluto.
Per raggiungere questo risultato bisogna conoscere la scrittura, i suoi limiti e anche le giuste proiezioni. La stesura di un racconto – dall’atto narrativo alla sua strategia complessiva – è da intendersi come uno spartito musicale o come una tela da dipingere. In verità, spingendoci oltre, un racconto è l’incontro tra la musicalità lineare delle parole che si susseguono nel testo scritto e – secondo l’organizzazione di queste nella costruzione di una scena come un dipinto – la loro capacità pittorica. Il risultato della combinazione di questi elementi consentirà di ottenere la plasticità della narrazione.
È la capacità di tradurre un concetto, un’emozione, un carattere in un atto concreto, in un atteggiamento esteriore che permetterà al lettore di fissare in modo indelebile la scena nel ricordo. L’esordio – per portare un esempio – dell’Isola del tesoro in cui il pirata Billy Bones si avvicina con passo strascicato alla locanda gestita dai genitori di Jim Hawkins, l’eroe del romanzo, rende benissimo il concetto. L’azione è costruita in modo così magistrale che ci sembra di vedere per davvero quell’uomo alto, forte, robusto e abbronzato. Anche il suo fischiettare, guardando il paesaggio intorno alla baia su cui sorge la locanda per scorgere eventuali nemici, è ancora nelle nostre orecchie.
La scena, che segue la protasi nel secondo capoverso del romanzo, nella traduzione di Lella Maione si apre così: “Lo ricordo come fosse ieri, quando s’avvicinò con passo strascicato alla porta della locanda, e dietro la cassa da marinaio in una carriola; era un uomo alto, forte, robusto, abbronzato, il codino incatramato che gli penzolava sulle spalle del lercio abito blu, le mani ruvide e ricoperte di cicatrici, con unghia nere e spezzate, e sulla guancia sinistra un taglio di sciabola d’un bianco livido e sporco. Lo ricordo quando scrutò la baia tutt’intorno, fischiettando tra sé come era suo costume e intonando quell’antica canzone di mare che tanto spesso avrebbe cantato… ”.
In una scena come questa, è consequenziale che il lettore finisca per essere incantato dal pirata Billy Bones. È come una calamita che si attacca alla fantasia del lettore che, senza rendersene conto, è trasportato dentro la fantasia della storia. La scena si fa viva e il paesaggio, i personaggi, i dialoghi prendono anima e corpo. Noi tutti abbiamo finito per confrontarci con questo pirata, potente, anche se maligno. Ne abbiamo subito il fascino come il giovane eroe della storia.
La capacità del narratore, secondo il pensiero di Stevenson, è quella di spingere il lettore verso questa soluzione, data dalla capacità di realizzare una scena completa dal punto di vista della sua musicalità e pittoricità. Qua come in altre infinite scene altrettanto potenti presenti nella scrittura di Stevenson – dagli esordi fino al Weir of Hermiston, l’ultima opera dettata alla figlia adottiva Belle Osbourne, rimasta incompiuta per la sua scomparsa prematura – siamo di fronte a una costruzione perfetta in ogni sua espressione.
Nonostante la narrativa possa raggiungere risultati indiscutibili in termini di valore e affascinare più della vita stessa, Stevenson sa bene che l’arte non può competere con la realtà. La letteratura imita il “discorso”. L’arte – sostiene il romanziere scozzese nel saggio A Humble Remostrance del 1884 – ha il compito di rendere le storie tipiche, non vere. Il suo obiettivo è di organizzare tutti gli elementi della narrazione verso uno scopo preciso e non di riprodurne in modo ineccepibile i dettagli.
Quel che entra in gioco nella narrativa non è dunque la vita in quanto tale, ma il repertorio inesauribile di eventi che diventano il tema della storia. Un argomento centrale in un racconto sarà marginale in un altro. Un aspetto, una caratterizzazione prevalente in un personaggio, sarà del tutto inconsistente per un altro. Una qualità per un eroe, sarà un difetto per un altro. In più, ogni trama sarà imbastita in modo differente secondo l’uso che ne fa l’autore e l’opportunità di quel che vuole comunicare.
La scrittura intesa in questi termini può essere organizzata in tre classi distinte di romanzi, che si differenziano per contenuto e forma, ma non certo per il loro valore gerarchico. Abbiamo così: “… il romanzo d’avventura, che si rivolge a certe tendenze illogiche dell’uomo, che si potrebbero dire sensuali; poi il romanzo psicologico, che si rivolge alla nostra comprensione intellettuale delle debolezze, dell’inconsistenza, della confusione dell’uomo; e infine il romanzo drammatico, costruito dalla stessa sostanza di cui è fatto il teatro più serio; quest’ultimo – afferma l’autore, qua in veste di critico – farà appello alle nostre emozioni e alla nostra capacità di giudizio morale”.
In qualsivoglia genere ci cimentiamo in qualità di lettori, a scuoterci non è mai il carattere del personaggio bensì la situazione o l’incidente che ci fa uscire dal nostro distacco. Allora, saremo nella strana posizione di voler vivere le vicende di cui stiamo leggendo. I vari personaggi, l’eroe e l’antieroe, scompariranno di fronte al nostro bisogno di sostituirci a loro; a quel punto vogliamo essere noi i protagonisti perché abbiamo sempre sognato di trovarci in quei frangenti.
È sufficiente un solo particolare per liberare la fantasia del lettore e le prospettive secondarie della vicenda si accendono di luce nuova, proprio come un dettaglio nella vita reale. Il lettore sarà protagonista. Cambiano l’atmosfera, l’approccio e la dinamica, ma quando la lettura si accorda perfettamente con la fantasia del lettore, egli partecipa con tutto il cuore, godendone ogni momento e, anche più tardi, nel ricordarla si sentirà felice di avere condiviso i meravigliosi marchingegni messigli a disposizione.
Se le sue storie lo fecero viaggiare con la fantasia, le malattie lo portarono in giro per il mondo dall’Europa fino ai Mari del Sud, passando per l’America dei pionieri e degli immigrati, come racconta nei resoconti giovanili dei viaggi e nei romanzi dell’ultimo periodo. Nel 1888 a bordo dell’imbarcazione Casco, in compagnia della madre, della compagna Fanny e dei figli di lei – avuti durante il primo matrimonio – affrontò l’ultimo viaggio verso Oriente alla ricerca di un posto salubre che gli permettesse di curare – o quanto meno di tenere a bada – la tubercolosi e le numerose malattie respiratorie che lo affliggevano fino allo sfinimento.
Narratore di fiabe, racconti avventurosi, saggi e poesie, già in vita e per molti anni ancora fu una leggenda, per poi, come capita spesso, cadere nell’oblio. Negli anni che seguirono la sua morte, numerosi scrittori – tra cui Jack London e Marcel Schwob – vollero seguire le sue orme per vivere la sua stessa avventura e per rendergli omaggio. Il suo carisma fu tale che gli indigeni di Upolu nelle Isole Samoa, lo chiamarono Tusitala, il "narratore di storie". Lo stesso Stevenson parlando di se stesso affermò: “I am not but my art”; un grido del cuore che ha dovuto fare proprio chi, come me, ha avuto modo di accompagnarsi con i suoi personaggi infinitamente ricchi e appassionanti.

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2 commenti:

  1. Io più che conse"que"nziale avrei detto conseguenziale... Ma si sà... pronuncia gravat quam littera!
    Bello, sognante, Effimeri spazi riservati soltanto a chi può fermarsi per respirare aria - vecchia o nuova, a chi importa... - Mi riporta alle letture di qualche lustro fà... (Non precisiamo quanti...) Salgari non si mosse mai dalla sua seggiola eppure quale finezza nel descrivere un mondo "altro".
    Essere è fondamentale per colui il quale voglia comunicare.
    Commento notevole che spinge ad approfondire e... a cercare.
    Laura

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  2. ..."nel momento della lettura, dobbiamo vivere dentro l’avventura"...
    ed è avventura la parola che si respira, narrante - dell’uomo - il viaggio.

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