Visualizzazione post con etichetta Interviste. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Interviste. Mostra tutti i post
giovedì 23 gennaio 2014
martedì 21 gennaio 2014
Federico Sollazzo: dall’Italia all’Ungheria, ci incita a “tornare a ragionare”
di Ausilia Gulino (redazione@nuovepagine.it)
La messa in crisi dei vecchi paradigmi non solo filosofici che riguardano l’idea di uomo suscita molta curiosità nella società odierna dove si cerca sempre di trovare risposte finalizzate a sicurezze e autostima. Abbiamo voluto parlarne con Federico Sollazzo che con il suo ultimo libro Totalitarismo, democrazia, etica pubblica. Scritti di Filosofia morale, Filosofia politica, Etica, ha voluto fornire punti di partenza, come nuove opportunità, in un’epoca dove vige il pessimismo.
A cosa è dovuto, secondo lei, il fatto che l’uomo non riesce a trovare se stesso?
Credo che certi argomenti non possano essere affrontati in maniera troppo generale. Per circoscrivere un po’ il campo vorrei citare una frase di Max Scheler: «In quasi diecimila anni di storia, noi siamo la prima epoca in cui l’uomo è diventato completamente e interamente “problematico” per se stesso; in cui egli non sa più cosa è, ma allo stesso tempo sa anche che non lo sa». Ecco, in quest’ultima frase «sa anche che non lo sa» credo sia riassunta la problematica a cui si fa riferimento nella domanda; per dirla con un altro importante antropologo filosofico, Arnold Gehlen: «la perdita degli immobili culturali». A ben vedere, come ha evidenziato Paul Ricœur con la formula “maestri del sospetto”, riferendosi a Karl Marx, Friedrich Nietzsche e Sigmund Freud, la messa in crisi di quelle che erano delle certezze consolidate è la cifra che caratterizza tutta la moderna cultura occidentale (oltre che, direi, qualsiasi tipo d’innovazione), anche se in epoca contemporanea questo processo è amplificato dalla velocità e dalla quantità dei cambiamenti che la tecnologia (pro/im)pone.
Di per sé, la messa in crisi dei vecchi paradigmi, quindi anche della precedente idea di uomo, non è un problema, anzi, come ormai si sente spesso ripetere (talvolta però strumentalmente da politici e economisti, ma questo è un altro discorso), ogni crisi contiene un’opportunità. Tuttavia nell’attuale crisi cultuale e valoriale c’è un problema peculiare. E attenzione, non è quello, come a volte si sente dire, che alla crisi dei vecchi paradigmi non segua la formazione di nuovi, ma, diversamente, proprio il fatto che i nuovi paradigmi ci sono e che la loro natura non sembra affatto incoraggiante. In sintesi, abbiamo costruito un’idea di uomo basata sui principi della razionalità economica e, ancor di più, della razionalità tecnologica, e gli stessi movimenti di critica appaiono spesso come semplici articolazioni ed evoluzioni di questa razionalità; mi viene in mente una delle ultime considerazioni di Pasolini che diceva che si cercano le alternative, ma non l’alterità. Il risultato di questo processo è la creazione di un nuovo tipo di vivente, talmente mutato dal precedente che bisognerebbe forse trovare un altro nome al posto di quello di uomo. Anche di questo mi occupo nella prima parte del libro (e nei miei correnti studi).
lunedì 9 settembre 2013
Francisco Franco e le metamorfosi del potere
di Pietro Piro (sekiso@libero.it)
Lo Bono: Abbiamo il piacere di averti qui con noi e voglio approfittare per farti delle domande ad “ampio raggio”. In questi anni ti sei occupato di temi molto importanti, nelle pubblicazioni, nei seminari, nei dibattiti. Però, mi pare che la questione del potere ti stia particolarmente a cuore, mi sbaglio?
Piro: Il tema del potere è una questione fondamentale che riguarda l’intero impianto del mio lavoro critico. Credo che ogni uomo sperimenti sulla sua pelle – per così dire – il problema del potere. Gli psicoanalisti ci hanno insegnato che nel bambino, il potere del genitore che si esprime anche attraverso il semplice sguardo[i], può essere vissuto come una forte violenza. Questo significa che noi entriamo in contatto con il potere sin da piccoli e poi, per tutta la vita, non facciamo altro che oscillare tra il desiderio del potere e la paura del potere[ii]. Il potere esercita una doppia fascinazione: ci attrae e ci spaventa allo stesso tempo[iii]. Però, occuparsi del potere per me significa andare aldilà della fascinazione. Indagare ciò che sta a fondamento del potere.
mercoledì 12 settembre 2012
Totalitarismo, democrazia, etica pubblica. Intervista a Federico Sollazzo
1. Sei nato a Roma nel 1978, hai compiuto studi scientifici prima di laurearti in Filosofia presso l’Università degli Studi di Roma Tre con una Tesi dal titolo La concezione marxiana del lavoro alienato e il libero gioco delle facoltà umane in Marcuse. Hai proseguito conseguendo il Dottorato di Ricerca (PhD) in “Filosofia e Teoria delle Scienze Umane” con la Dissertazione Tra totalitarismo e democrazia: la funzione pubblica dell’etica. Parlaci di te, raccontaci parte del tuo percorso di formazione.
Quella di studiare filosofia direi che più che una scelta è stata una risposta ad un richiamo verso qualcosa che risuonava in me, che mi appariva, e mi appare, come famigliare. Dopo il conseguimento della Laurea sono acceduto, tramite concorso, al Dottorato ma dopo il conseguimento di quest’ultimo ho trovato (almeno fino ad ora) impossibile accedere ad una successiva posizione in Italia, tant’è che ho conseguito il Post-Dottorato, parallelamente all’attività di docenza, presso la Scuola dottorale in Filosofia dell’Università di Szeged in Ungheria (dove tuttora mi trovo). Direi quindi, niente di nuovo da segnalare: una formazione svolta in Italia, a carico di questa, e poi il riversamento all’estero delle competenze acquisite, presso chi beneficia così di studiosi già formati da altri.
mercoledì 5 ottobre 2011
Totalitarismo e democrazia a confronto. Intervista a Federico Sollazzo
di (nota iniziale) Afrodita Carmen Cionchin (info@afroditacionchin.ro) e (domande) Maria Giovanna Farina (mg.farina2@alice.it)
Fenomeno universalmente riconosciuto come epocale, anche le migrazioni si inquadrano in quel più ampio quadro di questioni sociali ed etiche che solo un robusto approccio riflessivo può adeguatamente accostare. «Di fronte al fenomeno delle migrazioni – segnala Federico Sollazzo, ricercatore di Filosofia Morale e Lettore presso l’Università di Szeged (Ungheria) – ci si divide in favorevoli e contrari, con varie sfumature (come chi caritatevolmente professa il motto "aiutarli a casa loro", o chi vorrebbe applicare un filtro per selezionare solo "utili risorse umane"). Dirsi favorevoli o contrari significa però, da un lato, imporre la propria volontà sulle vite altrui, e dall’altro, ragionare nei termini di interessi politico-economici costituiti, che di volta in volta, a seconda delle loro necessità e spesso in conflitto fra loro stessi, incoraggiano, scoraggiano ed applicano griglie discriminanti alle migrazioni. Per uscire da simili problematiche, si deve allora uscire da prospettive giudicanti, favorevoli e contrarie, e lasciare che le migrazioni possano avvenire esclusivamente in base alla volontà dei migranti, rimuovendo quindi quei fenomeni che trasformano una possibile volontà in una stringente necessità, e pretendere che le strutture del mondo in cui viviamo siano calibrate per consentire ciò. Anche la Romania è un Paese, come altri dell'Est Europa, interessato da fenomeni migratori. Le migrazioni però oggi, su scala mondiale, non appaiono più "lineari" come in passato, quando erano divise in Paesi caratterizzati quasi esclusivamente da emigrazioni ed altri quasi esclusivamente da immigrazioni, essendosi oggi prodotto un nuovo fenomeno, quello di Paesi, come l’Italia, caratterizzati allo stesso tempo da un flusso in entrata (nel caso italiano, composto perlopiù da manodopera) ed uno in uscita (nel caso italiano, composto perlopiù da lavoratori intellettuali)».
Nel suo recente libro Totalitarismo, democrazia, etica pubblica. Scritti di Filosofia morale, Filosofia politica, Etica, recentemente uscito per i tipi della Aracne Editrice di Roma, Sollazzo delinea un più ampio quadro di questioni – totalitarismo e democrazia, il rapporto tra cultura ed etica, il posto dell’etica nella convivenza sociale e la sacralità della vita – brevemente riprese nell’intervista realizzata da Maria Giovanna Farina.
Come scrivi nel primo capitolo del tuo nuovo libro Totalitarismo, democrazia, etica pubblica. Scritti di Filosofia Morale, Filosofia Politica, Etica, Aracne Ed., molti pensatori del ‘900 individuano all’interno della società contemporanea "la degenerazione della capacità di pensare autonomamente". Ci spieghi cosa significa?
Mi riferisco al fatto che nella modernità cambiano le modalità del controllo sociale (il cosiddetto dominio dell’uomo sull’uomo) passando da pratiche che disciplinano la dimensione fisica, esteriore a modelli che amministrano quella coscienziale, interiore; in questi termini l’autonomia e l’autenticità del pensiero vengono meno e si può parlare di transizione dalla società della disciplina a quella del controllo.
Cosa intendi con coscienza falsamente felice?
Quello di coscienza falsamente felice è un concetto marcusiano (a me caro) che sta ad indicare come nella modernità i modelli di dominio siano stati introiettati al punto tale che, non solo non vengono riconosciuti come tali, ma vengono identificati come dei desiderata che producono quelle che il sistema (altro termine marcusiano a me caro, che ritengo però debba essere rielaborato) ci induce a chiamare gratificazioni (che sono altro dalle soddisfazioni); da qui, l’inautenticità di quest’ultime e la conseguente inautenticità, e quindi falsità, di una felicità su di esse basata.
Nel tuo libro parli di Etica, quale posto occupa l’Etica nella convivenza sociale?
Quello di etica è un termine talmente vasto che prima di iniziare dei ragionamenti su di esso basati, bisognerebbe definire con precisione cosa intendiamo quando lo nominiamo. Se, ad esempio e in via approssimativa, la volessimo considerare come l’insieme dei comportamenti finalizzati alla realizzazione del bene, dovremmo allora interrogarci sulla natura del bene, sul modo in cui lo intendiamo, sulle condizioni della sua pensabilità e realizzabilità, su coloro che se ne considerano i rappresentati e depositari, ecc…
Quale filosofo, a tuo avviso, mostra la posizione più originale e proficua a livello concettuale, nel saggio che hai scritto?
Non riesco a rispondere a questo, tutti gli autori che ho citato sono per me, ciascuno a suo modo, determinanti; credo che a un certo livello non vi siano differenziazioni gerarchiche, ma di merito.
Cosa dovrebbe essere la sacralità della vita?
Come ci dice la Arendt, quello della sacralità della vita è un concetto cristiano che si è radicato a tal punto in Occidente da sopravvivere alla secolarizzazione arrivando intatto sino ai giorni nostri. Quello che io mi chiedo è se tale concetto continui ad essere propedeutico al raggiungimento di una soddisfacente esistenza, motivo per il quale il concetto stesso nacque, o se oggi esso sia diventato un ostacolo al raggiungimento di quello stato; in tal caso esso dovrebbe essere, non abbandonato, ma de-assolutizzato, inserito in un orizzonte concettuale nel quale esso non sia il fine ma un mezzo al servizio di uno scopo ulteriore alla sopravvivenza e al quale quest’ultima è subordinata.
Qual è la forza delle emozioni?
Questa prospettiva la traggo dalla Nussbaum, che attribuisce alle emozioni (ovvero all’ambito dell’emozionalità e non a quello dell’emotività) una valenza etica normativa, saldando così la dimensione delle emozioni (ciò che si prova) con quella della razionalità (pensieri e atti derivanti da ciò che si prova) ed evitando il pericolo del solipsismo (ogni emozione è fondamentalmente una compassione, un patire con-, il ché ricorda le considerazioni arendtiane sul pensare a partire dal punto di vista del prossimo).
Che rapporto esiste tra cultura ed etica?
Anche in questo caso ci riferiamo a termini talmente vasti che occorrerebbe fare una preliminare taratura linguistico-concettuale. Propedeuticamente si potrebbe dire che la cultura rappresenti l’insieme dei valori di una certa società, e l’etica l’insieme dei comportamenti legittimati da quei valori.
Che cos’è il biopotere?
E’ uno dei concetti più preziosi lasciatici in eredità da Foucault, che sta ad indicare come, in maniera del tutto innovativa rispetto al passato, nella modernità il potere attui una presa in carico della vita, del biologico, del bios, sintetizzata nella celebre frase foucaultiana secondo cui: «Si potrebbe dire che al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte». Personalmente ritengo che questa prospettiva, unitamente al marcusiano concetto di sistema ed alle visioni di Pasolini sul potere, produca una sorta di articolato unicum indispensabile alla decifrazione della modernità.
Il totalitarismo come ha condizionato l’uomo?
Come scrivo nel libro, vorrei distinguere tra un’accezione di totalitarismo come evento politico-sociale ed una come categoria concettuale. Nel primo caso i condizionamenti riguardano l’esteriorità, tramite l’inserimento dei comportamenti in determinate pratiche disciplinatorie (che però non è affatto detto, come nel caso del fascismo italiano, che producano un’introiezione di tali modelli disciplinatori). Nel secondo caso il condizionamento consiste nell’indurre le persone ad indossare una sorta di identità preconfezionata, quindi inautentica, divenendo così dei personaggi, dei gehleniani "titolari di funzioni", dei marcusiani "uomini ad una dimensione", dei foucaultiani "normalizzati".
Come si può realizzare una società giusta e che non "distrugga" la persona?
Per rispondere bisognerebbe preliminarmente definire dei criteri di giustizia, a loro volta, basati su una certa idea di persona. Se, semplificando, definissimo l’uomo come un insieme di potenzialità, facoltà e bisogni psico-fisici, potremmo dire che una società giusta sia quella che permette la soddisfazione di tali bisogni e l’espansione di tali facoltà.
Alla luce dei tuoi studi, pensi che la democrazia sia davvero la miglior forma di governo? O esiste un’alternativa più consona?
A mio parere, questa è una delle questioni più urgenti da affrontare, a partire da una chiarificazione linguistco-concettuale del termine democrazia, sempre più citato a sproposito, abusato e strumentalizzato. Credo, e su questo vorrei lavorare prossimamente, che le istituzioni e i meccanismi politici siano sempre storici, e che derivino gravi problemi dal confondere un mezzo, gli automatismi politici, con il fine, la tensione alla giustizia (o meglio, alla giustezza), in quest’ottica credo che i meccanismi politici occidentali di oggi necessitino di essere profondamente ripensati e radicalmente riconfigurati (è evidente, ad esempio, come essi non assicurino nessun filtro qualitativo – essendo basati sulla falsa sinonimia tra quantità e qualità – e come riproducano quei privilegi per combattere i quali nacquero), in direzione della comprensione in essi di criteri qualitativi (che non degradino in gerarchizzazioni despotizzanti); ma per far questo, è necessario partire da una preliminare riflessione antropologica.
Per ordinare il libro: http://www.aracneeditrice.it/aracneweb/index.php/pubblicazione.html?item=9788854840515
(come Intervista a Federico Sollazzo, in «L'accento di Socrate», n. 14, 2011, e come Totalitarismo e democrazia a confronto. In dialogo con Federico Sollazzo, con nuova nota iniziale non titolata, in «Orizzonti culturali italo-romeni», VIII, 2011)
Questa opera di CriticaMente è concessa in licenza sotto la Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported.
venerdì 3 settembre 2010
“La poesia? Sogno incarnato, sostanza immateriale … indispensabile”
di Grazia Calanna (graziacalanna@lestroverso.it)
Intervista al poeta Luigi Carotenuto
Note trafugate alla vita con l’arditezza di un equilibrista che avanza sull’impalpabile filamento del tempo. Intime corrispondenze, liriche d’emotività singolare. “Piove a dirotto sulla via di casa”, il senso di smarrimento si attorciglia alla percezione di inadeguatezza e lo spasimo, al quale stoltamente “sbarriamo le porte come se la luce servisse a nascondere la notte”, spadroneggia, “nell’identico modo di sempre”. L’amico di famiglia di Luigi Carotenuto, edito da Prova d’Autore, scandaglia gli assunti classici della versificazione i quali, questa è la peculiarità della silloge, per mezzo dell’impulsiva genialità del poeta, rifioriscono. Così, in un cosmo distinto dalla tenacia di una “precarietà” versatile, muta l’accezione del dolore, or ora, viatico d’appagamento, oltreché individuale, unanime. Agili fluiscono versi canzonatori, pragmatici. Nondimeno, rivolti all’esistenza con gli “occhi danzanti” di chi, osservando “farfalle” che “volano e si amano in due giorni”, placidamente, scioglie dubbi ancestrali.
“La poesia - sottolinea Carotenuto - è sogno incarnato, trasposizione di emozioni cristallizzate. Nasce e muore con l'uomo, resterà sempre attuale anche se deprezzata come, particolarmente è, in questo momento storico. L'attuale poesia, a parte le dovute eccezioni sempre più rare, è più un atteggiamento, una posa, un costume rozzo e ignorante che fa passare la prosa più becera e mediocre (credo che molte liste della spesa siano più poetiche) per aulico versificare. Il quotidiano inutile viene declamato a voce muta e uno pseudo ermetismo dietro il nume protettore dell'oscurità del poetare nasconde incompetenza, mancanza di idee e sentimento; non ultimo e forse il più dilettantistico e diffuso degli atteggiamenti è quello del sentimentalismo vuoto, banale, privo di senso di realtà e incantamento rivelatore (doti della vera poesia a mio parere), dove tramonti, gabbiani, solitudini, amori e gioie sono combinati insieme alla maniera della catena di montaggio e, delittuosamente, le parole vengono costrette a un “senso” unico, privo di qualunque traccia permanente”.
G. C. Sovvengono le parole di John Keats: “Se la poesia non nasce con la stessa naturalezza delle foglie sugli alberi, è meglio che non nasca neppure” …
L. C. “La poesia è, tra le altre cose, “memoria della vita offesa”, come aveva detto Adorno a proposito dell'arte, e in tal senso fa ed è storia ma soprattutto interpretazione della storia, è politica senza mai politicizzarsi, l'unico atteggiamento “politico” nel senso originario e più alto; ha a che fare con l'aria, essendo parente stretta della musica, è insieme canto e pensiero, apre varchi di luce, di tenebre e verità. Sgorga a getto improvviso e incontrollabile e, anche se tante volte necessita di labor limae, nasce da una rivelazione, da un accostamento di parole inedito, inconsueto, nuovo potremmo dire; allo stesso tempo, una volta nata, la poesia sembra che non poteva non trovarsi che lì, come le foglie sugli alberi di cui parla Keats”.
G. C. Pensando ai poeti italiani contemporanei, quali preferisci e per quale precipuo motivo?
L. C. “Tra i poeti contemporanei per così dire “ufficiali”, termine che spesso è soltanto sinonimo di autori dalla casa editrice più influente e nei concorsi letterari e nel tam tam pubblicitario-organizzativo, l'unica vera eccezione in Italia ritengo sia rappresentata da Andrea Zanzotto, innovatore e sperimentatore del linguaggio poetico che ha saputo e sa mantenere nei propri versi il lirismo alto della poesia classica”.
G. C. Infine, un pensiero, quello di Virginia Woolf, “è proprio vero che la poesia è deliziosa, infatti la prosa migliore è piena di poesia”, per chiederti, oltreché un parere, se ti piacerebbe dedicarti alla “prosa poetica”.
L. C. “La prosa poetica, programma ambizioso... ma la scrittura non può programmarsi più di tanto se si ha intenzione di scrivere con una certa onestà, di sicuro idealmente vorrei che la mia prosa contenesse lirismo, anzi, senza l'elemento lirico non immagino nemmeno un buon romanzo; mi piace poco questo proliferare di autori noir e giallisti, scorgo in questa passione per tali letture, tutta la miseria del genere umano, il lato voyeuristico legato al pettegolezzo e al gossip, frugare senza rispetto nelle vite (e soprattutto nelle morti) degli altri. E perché non si pensa a questa morte in vita dell'uomo? Mi appare molto più interessante indagare sul senso del nostro tempo, sul senso dell'uomo, invece che raccogliere una serie di eventi, sbattere “mostri” in prima pagina. La tragedia non è nella cronaca, ma nei motivi ontologici che spingono l'essere umano a questo tipo di cronaca, e questa serie di scrittori sono responsabili del degrado intellettuale perché non forniscono e, molte volte non hanno, elementi concettuali sui quali far meditare i lettori”.
Intervista al poeta Luigi Carotenuto
Note trafugate alla vita con l’arditezza di un equilibrista che avanza sull’impalpabile filamento del tempo. Intime corrispondenze, liriche d’emotività singolare. “Piove a dirotto sulla via di casa”, il senso di smarrimento si attorciglia alla percezione di inadeguatezza e lo spasimo, al quale stoltamente “sbarriamo le porte come se la luce servisse a nascondere la notte”, spadroneggia, “nell’identico modo di sempre”. L’amico di famiglia di Luigi Carotenuto, edito da Prova d’Autore, scandaglia gli assunti classici della versificazione i quali, questa è la peculiarità della silloge, per mezzo dell’impulsiva genialità del poeta, rifioriscono. Così, in un cosmo distinto dalla tenacia di una “precarietà” versatile, muta l’accezione del dolore, or ora, viatico d’appagamento, oltreché individuale, unanime. Agili fluiscono versi canzonatori, pragmatici. Nondimeno, rivolti all’esistenza con gli “occhi danzanti” di chi, osservando “farfalle” che “volano e si amano in due giorni”, placidamente, scioglie dubbi ancestrali.
“La poesia - sottolinea Carotenuto - è sogno incarnato, trasposizione di emozioni cristallizzate. Nasce e muore con l'uomo, resterà sempre attuale anche se deprezzata come, particolarmente è, in questo momento storico. L'attuale poesia, a parte le dovute eccezioni sempre più rare, è più un atteggiamento, una posa, un costume rozzo e ignorante che fa passare la prosa più becera e mediocre (credo che molte liste della spesa siano più poetiche) per aulico versificare. Il quotidiano inutile viene declamato a voce muta e uno pseudo ermetismo dietro il nume protettore dell'oscurità del poetare nasconde incompetenza, mancanza di idee e sentimento; non ultimo e forse il più dilettantistico e diffuso degli atteggiamenti è quello del sentimentalismo vuoto, banale, privo di senso di realtà e incantamento rivelatore (doti della vera poesia a mio parere), dove tramonti, gabbiani, solitudini, amori e gioie sono combinati insieme alla maniera della catena di montaggio e, delittuosamente, le parole vengono costrette a un “senso” unico, privo di qualunque traccia permanente”.
G. C. Sovvengono le parole di John Keats: “Se la poesia non nasce con la stessa naturalezza delle foglie sugli alberi, è meglio che non nasca neppure” …
L. C. “La poesia è, tra le altre cose, “memoria della vita offesa”, come aveva detto Adorno a proposito dell'arte, e in tal senso fa ed è storia ma soprattutto interpretazione della storia, è politica senza mai politicizzarsi, l'unico atteggiamento “politico” nel senso originario e più alto; ha a che fare con l'aria, essendo parente stretta della musica, è insieme canto e pensiero, apre varchi di luce, di tenebre e verità. Sgorga a getto improvviso e incontrollabile e, anche se tante volte necessita di labor limae, nasce da una rivelazione, da un accostamento di parole inedito, inconsueto, nuovo potremmo dire; allo stesso tempo, una volta nata, la poesia sembra che non poteva non trovarsi che lì, come le foglie sugli alberi di cui parla Keats”.
G. C. Pensando ai poeti italiani contemporanei, quali preferisci e per quale precipuo motivo?
L. C. “Tra i poeti contemporanei per così dire “ufficiali”, termine che spesso è soltanto sinonimo di autori dalla casa editrice più influente e nei concorsi letterari e nel tam tam pubblicitario-organizzativo, l'unica vera eccezione in Italia ritengo sia rappresentata da Andrea Zanzotto, innovatore e sperimentatore del linguaggio poetico che ha saputo e sa mantenere nei propri versi il lirismo alto della poesia classica”.
G. C. Infine, un pensiero, quello di Virginia Woolf, “è proprio vero che la poesia è deliziosa, infatti la prosa migliore è piena di poesia”, per chiederti, oltreché un parere, se ti piacerebbe dedicarti alla “prosa poetica”.
L. C. “La prosa poetica, programma ambizioso... ma la scrittura non può programmarsi più di tanto se si ha intenzione di scrivere con una certa onestà, di sicuro idealmente vorrei che la mia prosa contenesse lirismo, anzi, senza l'elemento lirico non immagino nemmeno un buon romanzo; mi piace poco questo proliferare di autori noir e giallisti, scorgo in questa passione per tali letture, tutta la miseria del genere umano, il lato voyeuristico legato al pettegolezzo e al gossip, frugare senza rispetto nelle vite (e soprattutto nelle morti) degli altri. E perché non si pensa a questa morte in vita dell'uomo? Mi appare molto più interessante indagare sul senso del nostro tempo, sul senso dell'uomo, invece che raccogliere una serie di eventi, sbattere “mostri” in prima pagina. La tragedia non è nella cronaca, ma nei motivi ontologici che spingono l'essere umano a questo tipo di cronaca, e questa serie di scrittori sono responsabili del degrado intellettuale perché non forniscono e, molte volte non hanno, elementi concettuali sui quali far meditare i lettori”.
Questa opera è pubblicata sotto una Licenza Creative Commons.
martedì 10 agosto 2010
Lyotard e la condizione postmoderna

Si riporta, di seguito, un estratto dell'intervista, Il postmoderno e la nozione di "resistenza", che Jean-François Lyotard rilasciò nel 1994 presso l'Istituto Italiano di Cultura di Parigi.
Il termine "postmoderno" designa uno sviluppo tecnologico e scientifico che ha delle ricadute immediate sulla vita quotidiana e sulla politica. La questione decisiva, per me, é questa: per quanto riguarda la scrittura, la pittura, il buon cinema - insomma gli oggetti della nostra creatività -, si può dire che è il sistema che li produce? Le automobili si vede bene che le produce il "sistema", che ci sono uomini che si mettono al servizio della produttività, in modo da conseguire una perfezione sempre maggiore. La stessa cosa si può dire per i missili interstellari o per gli aereoplani. Ma quando si scrive, quando si dipinge, quando si fa musica: si può dire che è il sistema a produrre tutto ciò? C'è una azione del sistema, sia pure inconsapevole e invisibile?
Di fatto il carattere invasivo dello sviluppo e della logica della produzione penetra addirittura nei laboratori, nelle redazioni, persino nella camera dove lo scrittore lavora per ottenere, alla fine, il prodotto che il sistema saprà smerciare e far circolare.
Credo che la crisi delle cosiddette "avanguardie" derivi dal fatto che il sistema impone questo ordine: "ne abbiamo abbastanza di pittori inguardabili, di scrittori illeggibili, e così via. Dateci dei prodotti decifrabili e spendibili!". Non dimenticherò mai un editore che un giorno mi disse: "senta, noi la pubblichiamo, però ci dia qualcosa di leggibile!". Che cosa voleva dire? Esigeva una merce che potesse essere messa in circolazione sul mercato culturale. Qui subentra la nozione di "industria culturale": il sistema penetra fin nella testa del pittore, del cineasta o dello scrittore per fargli fare ciò di cui il sistema ha bisogno, perché la cultura continui a circolare.
Immaginate Van Gogh davanti alla scelta del giallo o del rosso. Si vede bene che qui c'è un lavoro sul colore, che non è richiesto da nessuno se non dallo stesso Vincent. Ma da dove sorge l'esigenza che ci fa perseverare nello sforzo di pensare, di scrivere o di fare della musica o della pittura o di produrre immagini?
Secondo me noi siamo abitati, senza saperlo, da quella che Lacan chiamava la "cosa", che non è mai soddisfatta. Siamo abitati, nelle produzioni simboliche, dal mercato culturale, dal sistema, da ciò che esige comunicazione e circolazione. Il sistema non è mai soddisfatto dei nostri scambi comunicativi con gli altri: probabilmente non ci domanda niente, ma verso di esso ci sentiamo in debito.
In realtà dovremmo tentare, non direi di esprimere, ma almeno di dare forma a ciò che esso rifiuta. E' un atto di resistenza, e solo questo atto può essere all'origine delle opere culturali, comprese le opere inutili.
Questa opera è pubblicata sotto una Licenza Creative Commons.
giovedì 16 aprile 2009
Intervista a Michele Santoro
di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)
Si pubblica qui un breve passaggio dell'intervista che Santoro rilasciò amichevolmente al periodico della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università Roma Tre - "Tabula Rasa" - nel 2003, ritenendolo ancora d'attualità.
Domanda (Federico Sollazzo e Roberta Cocchioni): "Che ne pensa dell'attuale rapporto fra democrazia e informazione televisiva in Italia?"
Risposta (Michele Santoro): "La televisione è ammalata di monopolio. Manca la competizione. Berlusconi può controllare il sistema politicamente ed economicamente. Ciò incide in maniera derminante sullo stato della democrazia. In primo luogo perché la televisione resta lo strumento principale di formazione dell'opinione pubblica. Credo che si possa tranquillamente affermare che una tale concentrazione di potere nelle mani di un solo uomo violi la nostra Costituzione per lo meno in tre punti. Viene violato il principo di libera concorrenza. Viene violato il principio che pone alla base di una democrazia la separazione fra i poteri. Viene violato il principio che ci considera eguali nella determinazione del destino politico del nostro Paese: chi può competere in condizioni di parità con Berlusconi?"
(«Tabula Rasa», n. 0, 2003)
Si pubblica qui un breve passaggio dell'intervista che Santoro rilasciò amichevolmente al periodico della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università Roma Tre - "Tabula Rasa" - nel 2003, ritenendolo ancora d'attualità.
Domanda (Federico Sollazzo e Roberta Cocchioni): "Che ne pensa dell'attuale rapporto fra democrazia e informazione televisiva in Italia?"
Risposta (Michele Santoro): "La televisione è ammalata di monopolio. Manca la competizione. Berlusconi può controllare il sistema politicamente ed economicamente. Ciò incide in maniera derminante sullo stato della democrazia. In primo luogo perché la televisione resta lo strumento principale di formazione dell'opinione pubblica. Credo che si possa tranquillamente affermare che una tale concentrazione di potere nelle mani di un solo uomo violi la nostra Costituzione per lo meno in tre punti. Viene violato il principo di libera concorrenza. Viene violato il principio che pone alla base di una democrazia la separazione fra i poteri. Viene violato il principio che ci considera eguali nella determinazione del destino politico del nostro Paese: chi può competere in condizioni di parità con Berlusconi?"
(«Tabula Rasa», n. 0, 2003)
Questa opera è pubblicata sotto una Licenza Creative Commons.
Iscriviti a:
Post (Atom)