venerdì 5 dicembre 2014

2+2=4: coercizione o libertà? Orwell contro Dostoevskij

di Alessandro Palladino (alessandropalladino@alice.it; II di 2)

Il bipensiero è l’aspetto centrale nella tesi che la presente ricerca vuole dimostrare. Conviene, pertanto, tentare di esplicitare il complesso meccanismo logico-psicologico che ne è alla

base:
“Sapere e non sapere; credere fermamente di dire verità sacrosante mentre si pronunciavano le menzogne più artefatte; ritenere contemporaneamente valide due opinioni che si annullavano a vicenda; sapendole contraddittorie fra loro e tuttavia credendo in entrambe, fare uso della logica contro la logica; rinnegare la morale proprio nell’atto di rivendicarla; credere che la democrazia sia impossibile e nello stesso tempo vedere nel Partito l’unico suo garante; dimenticare tutto ciò che era necessario dimenticare ma, all’occorrenza, essere pronti a richiamarlo alla memoria, per poi eventualmente dimenticarlo di nuovo. Soprattutto, saper applicare il medesimo procedimento al processo stesso. Era questa, la sottigliezza estrema: essere pienamente consapevoli nell’indurre l’inconsapevolezza e diventare poi inconsapevoli della pratica ipnotica che avevate appena posto in atto. Anche la sola comprensione della parola “bipensiero” ne implicava l’utilizzazione.”[1]
Questo processo di pensiero appena descritto è di difficile comprensione, ma, come già detto, è centrale allo scopo di dimostrare la tesi conclusiva del presente studio. Il bipensiero non è però pienamente comprensibile se non si fa riferimento ad un altro aspetto del potere totalitario, quello che riguarda l’azione sulla modificabilità del rapporto tra pensiero e linguaggio[2]. A questo proposito Orwell ha espresso in 1984 delle tesi tanto affascinanti quanto preoccupanti. Sono queste le riflessioni che concernono la neolingua:
“Non capisci che lo scopo principale a cui tende la neolingua è quello di restringere al massimo la sfera d’azione del pensiero? Alla fine renderemo lo psicoreato letteralmente impossibile, perché non ci saranno parole con cui poterlo esprimere. Ogni concetto di cui si possa aver bisogno sarà espresso da una sola parola, il cui significato sarà rigidamente definito, priva di tutti i suoi significati ausiliari, che saranno cancellati e dimenticati. Nell’Undicesima Edizione saremo già abbastanza vicini al raggiungimento di questo obiettivo, ma il processo continuerà per lunghi anni, anche dopo la morte tua e mia. A ogni nuovo anno, una diminuzione del numero delle parole e una contrazione ulteriore della coscienza. Anche ora, ovviamente, non esiste nulla che possa spiegare o scusare lo psicoreato. Tutto ciò che si richiede è l’autodisciplina, il controllo della realtà, ma alla fine del processo non ci sarà bisogno neanche di questo. La Rivoluzione trionferà quando la lingua avrà raggiunto la perfezione. Hai mai pensato, Winston, che entro il 2050 al massimo nessun essere umano potrebbe capire una conversazione come quella che stiamo tenendo noi due adesso? [...] Sarà diverso anche tutto ciò che si accompagna all’attività del pensiero. In effetti il pensiero non esisterà più, almeno non come lo intendiamo ora. Ortodossia vuol dire non pensare, non aver bisogno di pensare. Ortodossia e inconsapevolezza sono la stessa cosa.”[3]

Dopo tutte queste riflessioni sul bipensiero e sulla neolingua, Winston ragiona sull’atteggiamento del Partito verso la verità. Questi ragionamenti lo porteranno a scrivere sul diario ciò che in questo studio è analizzato. Pertanto, è indispensabile seguire il ragionamento di Winston:
“Un bel giorno il Partito avrebbe proclamato che due più due fa cinque, e voi avreste dovuto crederci. Era inevitabile che prima o poi succedesse, era nella logica stessa delle premesse su cui si basava il Partito. La visione del mondo che lo informava negava, tacitamente, non solo la validità dell’esperienza, ma l’esistenza stessa della realtà esterna. Il senso comune costituiva l’eresia delle eresie. Ma la cosa terribile non era tanto il fatto che vi avrebbero ucciso se l’aveste pensata diversamente, ma che potevano aver ragione loro. In fin dei conti, come facciamo a sapere che due più due fa quattro? O che la forza di gravità esiste davvero? O che il passato è immutabile? Che cosa succede, se il passato e il mondo esterno esistono solo nella vostra mente e la vostra mente è sotto controllo?”[4]
Dopo aver preso atto di ciò, Winston è spinto a scrivere sul suo diario:
“Le pietre sono dure, l’acqua è bagnata e gli oggetti lasciati senza sostegno cadono verso il centro della Terra. Con l’impressione di rivolgersi a O’Brien e con la convinzione di formulare un importante assioma, scrisse:
Libertà è la libertà di dire due più due fa quattro. Garantito ciò, tutto il resto ne consegue naturalmente.”[5]

La verità della formula due 2+2=4 diviene per Winston la prova stessa dell’esistenza della verità oggettiva. In questo senso, tale formula può simboleggiare ciò che si può opporre al Partito totalitario nello scontro per la libertà:
“Voi eravate i morti, ma potevate aver parte in quel futuro se mantenevate in vita la mente così come essi mantenevano in vita il corpo, tramandando quella dottrina segreta secondo cui due più due fa quattro.”[6]

Proprio perché Orwell ne fa un simbolo di speranza, questa formula matematica torna nella parte più drammatica del romanzo, quando Winston è catturato dalla psicopolizia e torturato. In questa sede non è possibile prendere in esame i numerosi spunti offerti dai motivi e dai metodi presenti nel processo di tortura. Ciò che però è importante sottolineare, è che il torturatore, O’Brien, cerca di piegare la mente di Winston facendogli riconoscere che le quattro dita da lui indicate, in realtà possono essere cinque. Dopo diverse torture, c’è un momento nel quale Winston è temporaneamente sconfitto e le quattro dita di O’Brien diventano realmente cinque:
“E per un fuggevole istante, prima che nella sua mente la scena cambiasse, le vide veramente. Vide cinque dita, e la mano non presentava alcuna deformità. Poi tutto ridivenne normale e gli si riaffollarono di nuovo alla mente la paura, l’odio e la stupefazione. Vi era però stato un momento (non ricordava quanto fosse durato: trenta secondi, forse) in cui a ogni nuovo suggerimento di O’Brien un pezzetto di vuoto si era andato riempiendo dentro di lui per diventare realtà assoluta, un momento in cui due più due avrebbe potuto fare tre o cinque, a seconda di quanto era necessario.”
[7]
A questo punto si dispone di elementi sufficienti per confrontare le posizioni di Dostoevskij ed Orwell. Come anticipato, i due autori in esame sembrano usare in maniera opposta lo stesso concetto, ma per la stessa finalità: difendere la libertà umana. Dostoevskij afferma che il 2x2=4 è l’inizio della morte; Orwell, invece, afferma che poter dire che 2+2=4 è la garanzia della libertà. La presente analisi vorrebbe districare questa che sembrerebbe a tutti gli effetti un’impasse di difficile soluzione. Se entrambi difendono la libertà, ma adottano in maniera opposta la stessa formula, può voler dire che uno dei due ha fondato il proprio ragionamento in maniera sbagliata. La presente analisi, tuttavia, vorrebbe dimostrare che entrambi gli autori sono nel giusto. Inoltre, si tenterà di provare come la concezione che i due scrittori hanno in merito ad un particolare aspetto della natura umana, sia sostanzialmente comune.
Questa situazione intricata può essere risolta cercando di contestualizzare ulteriormente le posizioni degli autori. Da questo punto di vista, risulta certamente più agevole precisare la concezione di Orwell. Come detto, lo scrittore inglese ambienta il suo romanzo in un ipotetico regime totalitario (che ha certamente per modello il totalitarismo sovietico). In questo contesto in cui il potere ha libertà assoluta nello stabilire quale sia la verità, poter contrapporre una formula oggettiva e indiscutibile significa poter disporre di una realtà altrettanto solida di quella imposta dal Partito. Questo equivale ad essere liberi, nel senso di Winston. Ma non basta affermare che Orwell adotta in maniera inversa la stessa formula di Dostoevskij, solo perché il suo protagonista combatte contro un regime totalitario. Questo atteggiamento non consentirebbe di cogliere appieno la forza del romanzo di Orwell. La discriminante del perché Winston considera la sua libertà garantita solo dal 2+2=4 risiede nella potenza del bipensiero. A questo proposito bisogna ricordare come Orwell non scrive un libro di fantascienza; piuttosto il suo scritto è un monito per il futuro. Proiettando nel futuro le tendenze che lo scrittore inglese rintraccia nel presente, in qualche modo cerca di avvisare i lettori che il bipensiero potrà essere attuato. Non solo, ma quando ciò avesse luogo, per l’uomo non ci sarebbe più possibilità di scampo. Quanto Orwell sia stato perspicace, lo si può evincere dalle parole di un grande pensatore contemporaneo come Erich Fromm:

“Se io lavoro per una grande azienda, la quale afferma che i suoi prodotti sono migliori di tutti quelli dei suoi concorrenti, la questione se questa affermazione sia o meno giustificata, in termini di realtà accertabile, diventa irrilevante. Quello che conta è che fino a quando io servirò gli interessi di questa particolare azienda, questa affermazione diventerà la “mia” verità, e io rinuncerò a esaminare se si tratti di una verità oggettivamente valida. Infatti, nel momento in cui cambio lavoro e mi trasferisco nell’azienda che era stata fino ad allora la “mia” concorrente, dovrò accettare la nuova verità, ossia che sono tutti i suoi prodotti ad essere migliori, e da un punto di vista soggettivo questa nuova verità sarà vera quanto la precedente. è uno degli sviluppi più caratteristici e più distruttivi della nostra società che l’uomo, riducendosi progressivamente ad uno strumento, trasformi sempre di più la realtà in qualcosa di relativo, a seconda dei suoi interessi e delle sue funzioni [...] Nel descrivere il tipo di pensiero dominante in 1984, Orwell ha coniato una parola che è già diventata parte integrante del vocabolario moderno: bipensiero.”[8]
Ma Fromm offre un ulteriore esempio di come il bipensiero sia già in uso anche nei Paesi occidentali, i quali si definiscono democratici in confronto ad altri:
“un altro esempio attuale di come sostenere simultaneamente due opinioni in contraddizione tra loro, accettandole entrambe, può essere riscontrato nel nostro discorso sugli armamenti. Dedichiamo una considerevole parte dei nostri guadagni e della nostra energia alla costruzione di armi termonucleari, senza fermarci a riflettere sul fatto che potrebbero esplodere e distruggere un terzo o la metà, se non di più, della nostra popolazione (e di quella del nostro nemico). Alcuni si spingono anche oltre; per esempio Herman Kahn, uno degli autori più influenti per quanto riguarda le strategie nucleari al giorno d’oggi, afferma: “[...] in altre parole la guerra è orribile, e questo è fuori discussione, ma lo stesso vale per la pace, ed è adeguato al genere di calcoli che stiamo facendo oggi comparare l’orrore della guerra e l’orrore della pace, e capire quale è peggio.”[9]

I due esempi forniti da Fromm sul bipensiero possono essere contestati. In effetti, la generalizzazione di questo concetto operata da Fromm può sollevare dei dubbi. Per ovviare a questo problema si può fare riferimento a quanto afferma il romanziere Thomas Pynchon sul bipensiero di 1984, collegandolo alla più immediata quotidianità:
“il bipensiero è una forma di disciplina mentale il cui scopo, desiderabile e necessario per qualunque membro del Partito, è la capacità di credere contemporaneamente a due verità contraddittorie. Non c’è niente di nuovo in questa disciplina, ovvio. Tutti noi la pratichiamo. In psicologia è nota con il nome di “dissonanza cognitiva
.”[10] Altri preferiscono chiamarla “compartimentalizzazione”. Alcuni, nella fattispecie F. Scott Fitzgerald, l’hanno considerata un segno di genialità. Per Walt Whitman (“mi contraddico? Ebbene mi contraddico”) voleva dire essere abbastanza grandi da contenere moltitudini, per Yogi Berra significava giungere ad un bivio e imboccarlo, per il gatto di Schrodinger corrispondeva al paradosso quantistico di essere a un tempo vivi e morti.”[11]
Le parole di Fromm e Pynchon lasciano intendere come Orwell abbia inteso avvisare per tempo l’Occidente del pericolo che egli già vedeva profilarsi all’orizzonte. Questa osservazione ci consente di cogliere, forse, la sottigliezza che divide Dostoevskij da Orwell. Orwell non si può permettere il lusso di rinunciare nemmeno per un istante alla verità oggettiva, per quanto Dostoevskij ci insegna nelle Memorie che essa possa andare contro l’interesse umano; se assolutizzata. Paradossalmente, Dostoevskij può permettersi questo lusso proprio perché viveva in un mondo in cui la verità oggettiva non era minacciata da una forma di bipensiero applicata in un regime totalitario. Alla lista dei pensatori citati da Pynchon che conoscono il bipensiero, può essere tranquillamente aggiunto Dostoevskij; vero maestro degli opposti[12]. Ma per Dostoevskij questo aspetto è soltanto una caratterizzazione dell’uomo che lo scrittore russo descrive con grande profondità. Dostoevskij non si sognerebbe di affermare che la possibilità nell’uomo di affermare contemporaneamente due affermazioni contraddittorie è un pericolo per la democrazia (di cui per altro non era un tenace sostenitore). Il confronto tra Dostoevskij ed Orwell, allora, deve essere anche un invito a considerare come nel giro di meno di un secolo tra la pubblicazione dei due romanzi analizzati, sia cambiata la condizione umana ed il suo rapporto con la libertà. Ma bisogna anche aggiungere che se l’impianto della presente analisi è corretto, allora le cose sono cambiate in peggio.

Questo legame tra i due scrittori in merito al bipensiero si completa soltanto collegandolo alla visione che entrambi hanno dell’uomo. In particolare, essi condividono un aspetto centrale: l’importanza della relazione con l’altro[13]. Quest’ultimo tema consente di rafforzare l’ipotesi appena espressa: Orwell è in un certo senso costretto ad utilizzare la formula 2+2=4 in maniera opposta a Dostoevskij per la maggiore vulnerabilità della libertà umana nel mondo attuale.
Nelle Memorie Dostoevskij dà una grande importanza al rapporto con l’altro. Non fare riferimento a questo aspetto, equivale ad omettere un concetto indispensabile per comprendere la sua antropologia:
“L’uomo sotterraneo, nel quale molti critici (Sestov, Troyat) ravvisano la chiave di tutta l’opera di Dostoevskij, è solo un aspetto dell’uomo dostoevskiano. L’antropologia di Dostoevskij è più vasta ancora e abbraccia nel suo quadro, oltre la sfera psichica anche la sfera spirituale, il mondo obiettivo dei valori, quel mondo in cui l’uomo invece di rinchiudersi in se stesso, nelle proprie infrastrutture psichiche, si apre generosamente agli altri e partecipa attivamente alla loro sorte, di cui si sente corresponsabile.”[14]
In realtà, come lo stesso Cantoni riconosce, già nelle Memorie il tema del rapporto con l’altro è affrontato. Non solo, ma è uno dei temi fondamentali che finisce per essere necessario nella valutazione di quest’opera:
“Nelle Memorie dal sottosuolo, il tormentato rodimento interiore, i veleni della vita psichica, non sono soltanto analizzati con spietata evidenza, ma, per così dire, l’uomo ipotetico del sottosuolo è fatto vivere nel mondo. Il racconto pare insegnarci quello che avverrebbe se l’uomo del sottosuolo fosse portato a contatto con gli altri uomini, e noi siamo indotti a concludere che il sottosuolo è meglio che rimanga tale, perché esso è, sotto molti aspetti, la negazione del vivere consociato.”[15]
Tutti i grandi romanzi della maturità saranno incentrati anche sulla valenza del rapporto con l’altro. Anzi, è possibile affermare che per Dostoevskij la vita giunge al suo più alto valore soltanto quando si realizza un autentico rapporto d’amore con il prossimo prima, e con Cristo poi:
“Ma per risorgere, per uscire dalla palude della propria coscienza contorta bisogna incamminarsi verso l’accettazione dell’altro, del prossimo, con un atto di amore e di umiltà, e poi verso l’accettazione dell’Altro, del Cristo. Un cammino, una meta di fronte a cui tutti si troveranno, da Raskol’nikov ai fratelli Karamazov.”[16]

Ma il tema del rapporto con l’altro torna anche in 1984 di Orwell. Si tenterà ora di dimostrare, brevemente, come il modo in cui lo scrittore inglese tratta questa tematica, è coerente con l’impianto della presente analisi. Per Orwell il rapporto d’amore tra Winston e Julia, è la dimensione della vita più autentica e, soprattutto, inattaccabile dal potere totalitario. In un dialogo tra i due amanti questo aspetto viene esplicitato in maniera evidente:
“«Una volta che ci avranno presi non ci sarà nulla, letteralmente, che l’uno potrà fare per l’altro. Se confesso ti spareranno, e se mi rifiuto di confessare ti uccideranno lo stesso. Nulla che io possa fare o dire o astenermi dal dire varrà a rinviare anche di soli cinque minuti la tua morte. Nessuno di noi due saprà mai se l’altro è vivo o morto. Non potremo fare nulla. E comunque, anche se nemmeno questo cambierebbe alcunché, l’unica cosa che conta è che nessuno di noi tradisca l’altro».
«Quanto al confessare» disse Julia «confesseremo certamente. Lo fanno tutti. è impossibile fare altrimenti: ti torturano».
«Non intendo questo. Confessare non è tradire. Non importa quello che dici o non dici, ciò che conta sono i sentimenti. Se riuscissero a fare in modo che io non ti ami più... quello sarebbe tradire».
Julia restò per qualche attimo a riflettere. «Non lo possono fare» disse infine. «è l’unica cosa che non possono fare. Possono farti dire tutto, tutto, ma non possono obbligarti a crederci. Non possono entrare dentro di te».”[17]
In realtà Winston e Julia si sbagliano. Dopo che vengono scoperti e torturati, conosceranno entrambi come il potere può penetrare fin nei recessi più remoti della coscienza. Sotto tortura entrambi tradiranno l’altro, ma nel senso profondo che entrambi credevano impossibile. Le amare parole di Julia, quando i due si rincontrano casualmente per le strade di Londra da “riabilitati”, non lasciano dubbi:
“«A volte» disse Julia «minacciano di farti certe cose... cose a cui non puoi resistere, cose che non vuoi neanche immaginare, e allora dici: «Non fatelo a me, fatelo a qualcun altro, fategli questo e quello» E dopo puoi anche pensare che il tuo era solo un trucco per farli smettere, che fingevi, ma non è vero. Quando succede, fai sul serio, pensi che se vuoi salvarti non c’è altro da fare e sei prontissima ad ottenere in questo modo il tuo scopo. Desideri veramente che lo facciano all’altro. Te ne infischi della sua sofferenza. Badi solo a te stessa».
«Badi solo a te stesso» fece eco Winston.
«Dopo i tuoi sentimenti verso quell’altra persona non sono più gli stessi».
«No» rispose lui, «non sono più gli stessi».”[18]
Se è vero che quest’opera di Orwell è un monito per il futuro, allora lo scrittore inglese ci mette in guardia sul fatto che un giorno anche una delle cose più preziose nella vita di un uomo, la relazione con l’altro, può essere annientata da un potere totalitario[19]. Quel rapporto con l’altro attraverso cui, come ci insegna Dostoevskij, passa l’unica possibilità di realizzare appieno la nostra vita.

[1] G. Orwell, 1984, Mondadori, Milano 2013.
[2] Nel romanzo c’è una parte dedicata alle tesi del dissidente Goldstein, all’interno della quale è chiarito in modo maggiore il funzionamento del bipensiero e la sua relazione con il passato. Pertanto conviene riportare un frammento relativo a questi stessi argomenti: “Applicata a un membro del Partito, indica la sincera volontà di affermare che il nero è bianco quando a richiederlo sia la disciplina di partito. Indica, però, anche la capacità di credere veramente che il nero sia bianco e, più ancora, di sapere che il nero è bianco, dimenticando di aver mai pensato il contrario. Tutto ciò impone una continua alterazione del passato, resa possibile da quel sistema di pensiero che effettivamente abbraccia dentro di sé tutto il resto e che è noto in neolingua come bipensiero. L’alterazione del passato è necessaria per due motivi, uno dei quali è integrativo e, per così dire, precauzionale. Il motivo precauzionale consiste nel fatto che il membro del Partito, così come il proletario, sopporta le sue condizioni attuali perché non dispone di termini di confronto. è indispensabile escluderlo da ogni rapporto col passato e con i paesi stranieri, affinché sia convinto che le sue condizioni di vita siano migliori rispetto a quelle dei suoi avi e che il benessere materiale sia in costante ascesa. La manipolazione del passato ha però uno scopo di gran lunga più importante: salvaguardare l’infallibilità del partito.” (Ibidem, p. 292).
[3] Ibidem, pp. 87-88.
[4] Ibidem, p. 124.
[5] Ibidem, p. 125.
[6] Ibidem, p. 302.
[7] Ibidem, p. 352.
[8] Aa.Vv., MILLE NOVECENTO OTTANTO QUATTRO, minimum fax, Roma 2005, cit.. pp. 18-19.
[9] Ibidem, p. 20.
[10] La dissonanza cognitiva è una teoria elaborata da Leon Festinger: Teoria della dissonanza cognitiva, F. Angeli, Milano 1997.
[11] Aa.Vv., MILLE NOVECENTO OTTANTO QUATTRO, op. cit., pp. 98-99.
[12] Anche nelle Memorie è possibile rintracciare un esempio di come il funzionamento del bipensiero sia chiaro anche a Dostoevskij (almeno nella versione di Winston): “In fin dei conti, signori: è meglio non fare niente! è meglio una cosciente inerzia! Cosicché, evviva il sottosuolo! E sebbene abbia detto di invidiare l’uomo normale fino al travaso di bile, ma nelle condizioni in cui lo vedo, non vorrei essere in lui (seppure comunque non cesserò di invidiarlo. No, no. Il sottosuolo, in ogni caso è più vantaggioso!). Lì, almeno si può...Eh! Ma ecco che mento di nuovo! Mento perché so da me, come due per due fa quattro, che non è affatto il sottosuolo ad essere migliore, ma qualcosa di diverso, del tutto diverso, al quale anelo, ma che non troverò mai! Al diavolo il sottosuolo! Anzi, ecco cosa sarebbe meglio in questo caso: se io credessi almeno a qualcosa di quello che ho scritto ora. Vi giuro, signori, che non credo a una sola, nemmeno alla più piccola parola di quello che ho buttato giù ora! Cioè, magari ci credo, ma al tempo stesso, non si sa perché, sento e sospetto di mentire come un calzolaio.” (F. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, op. cit., pp. 47-48).
[13] Questa visione comune si rispecchia anche nella struttura narrativa delle due opere qui analizzate. Sia nelle Memorie che in 1984, il protagonista conosce nel rapporto con una donna un’esperienza rivelatrice di sé. Sia l’uomo del sottosuolo che Winston vivono in un’estrema solitudine che, rispettivamente, solo Liza e Julia riescono a spezzare.
[14] R. Cantoni, op. cit., pp. 83-84.
[15] Ibidem, pp. 82-83.
[16] F. Malcovati, op. cit., p. 52.
[17] G. Orwell, op. cit., p. 238.
[18] Ibidem, p. 396.
[19] Dall’analisi di Simona Forti si evince quanto la visione di Orwell, seppur in chiave politica e non certamente religiosa, è vicina a quella di Dostoevskij in merito all’importanza ultima del rapporto con l’altro: “Anche se il potere totalitario aveva compromesso fino all’assurdo la percepibilità del mondo, a Winston restavano pur sempre il corpo e lo sguardo di Julia a confermargli che quel mondo che vedeva e sentiva esisteva. Tradire Julia è perdere per sempre la possibilità di condividere un mondo, finito e mortale e per questo, per lui, reale. Allora forse per Orwell, finire il suo romanzo con il tradimento di Julia da parte di Winston, è equivalso ad ammettere – con buona pace dei suoi molti interpreti liberali – che non esiste una natura umana al di là delle relazioni che la strutturano. E che forse la condizione dell’umano, così come noi l’abbiamo pensata per secoli, legata alla terra, alla nascita e alla morte, stava per assumere, ad opera della produttività del potere, una fisionomia irriconoscibile ai suoi occhi. Forse è per questo che l’aggettivo umano era stato inserito nella lista intitolata «parole senza senso».” (AaVv., George Orwell. Antistalinismo e critica del totalitarismo, Leo S. Olschki, Firenze 2007, cit. p. 159).

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