giovedì 16 gennaio 2014

Se una para-democrazia si fa dogma (Appunti sulla democrazia)

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

Come ho avuto modo di scrivere in un articolo, Appunti sulla democrazia, che ha dato il via ad una serie di articoli, di autori diversi, recanti quella dicitura (destinati a confluire in un e-book), anche la democrazia è oggi sottomessa a logiche economiche di tipo crematistico. Tuttavia, a segnare la corrente crisi dell’idea e della pratica di democrazia, concorre in maniera ancora più determinate un altro fenomeno, che qui chiamerò: “rumore”.
Infatti, se non vogliamo fare della democrazia uno strumento al servizio di interessi specifici e/o un meccanismo dogmatico, un contenitore indifferente al suo contenuto, ma un regime nel quale possa avvenire un arricchente confronto pluralistico tra gli individui, allora non possiamo ignorare il fatto che a dare impulso a un simile regime non è tanto la quantità, bensì la qualità di tale confronto pluralistico. Infatti, a prescindere dall’etichetta politica che si desse, un sistema che, pur abbondando in quantità, difettasse in qualità, sarebbe, appunto, solo rumore. E questa è la situazione in cui versa oggi il mondo occidentale, con una determinante aggiunta: questo rumore non è affatto casuale o neutrale, al contrario, esso è strumento di (ri)produzione e mantenimento di un determinato tipo di controllo sociale, che in parte è direttamente amministrato da specifici interessi politici ed economici, che con esso distolgono l’attenzione da certi temi per portarla su altri e vendono, sotto forma di uno spettacolarizzato intrattenimento, un certo stile di vita, e in parte vive ormai di vita propria, tramite le logiche efficientiste e calcolanti della razionalità strumentale, che la tecnologia estremizza e divulga (per una decifrazione di questa complessa modernità, ritengo possa essere proficua la sovrapposizione delle analisi di Martin Heidegger, sull’essenza della tecnica, della prima Scuola di Francoforte, sul dominio, e di Guy Debord, sulla società dello spettacolo). Dalla rimozione del rumore, ne va quindi della possibilità di un’autentica democrazia (direi anche, dell’autenticità in toto). A scanso di equivoci, con ciò non voglio affermare che siano preferibili scenari quantitativamente poveri, ma che quantità e qualità non sono affatto sinonimi, e che oggi l’incremento della prima è funzionale al decremento della seconda.
Ora, per ragionare attorno a un possibile superamento di questa problematica, credo sia un enorme errore quello di cercare di definire in positivo cosa sia la qualità. Si verrebbe meno, fin da subito, al pluralismo e al confronto: la (presunta) qualità verrebbe ipostatizzata in una definizione univoca, bloccata. Credo invece sia conveniente partire dall’individuazione di ciò che (di) qualità non è, così da poterlo rimuovere dalla, di non farlo pesare sulla scena.      
Impostando un simile ragionamento le prime critiche che puntualmente vengono mosse sono quelle del popperiano “chi controlla i controllori?”, e di come possano individuarsi dei criteri oggettivi (quasi con la pretesa della fisicità della loro oggettività) in base ai quali poterci orientare in tale operazione. A mio parere questo è un modo sbagliato e pericoloso di porre la questione – ma ormai dominante, a causa del millenario processo di reificazione  (e non dico secolarizzazione), che oggi è arrivato a un livello altissimo (e che possiamo ritrovare anche nella fortuna di prospettive come il neorealismo o le neuroscienze), per il quale si può ragionare solo di ciò che è oggettivo, ciò che non lo è va quindi reso tale, e il resto rimane di competenza delle religioni –, perché non è dell'oggettività che si dovrebbe andare in cerca (palliativo della fatica di vivere senza ringhiera) ma dell'argomentazione. Come riconoscerla? Ad esempio dalla capacità di ascoltare l'altro integrandolo (per accettazione o per rifiuto, in tutto o in parte) nel proprio ragionamento. La questione si pone così come quella del riconoscimento: se in un certo contesto viene riconosciuto come argomentazione valida un discorso povero, quello sarà. Il punto allora, ancora una volta, non è quello della ricerca di criteri oggettivi, che sempre inevitabilmente restringono l’orizzonte, ma, al contrario, come espandere i margini che ci consentono di praticare quel riconoscimento. Mentre oggi andiamo proprio nella direzione opposta (tristemente illuminante, su questo, la frase di Pasolini la morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi).
A questa problematica epistemologica se ne sovrappone poi una politico-sociale, che fa sì che i miglioramenti di ieri si trasformino (venendo assorbiti in un sistema di potere impersonale che nega l’autodeterminazione e sulla cui genealogia e decifrazione bisognerebbe meditare di più) nei problemi di oggi, come, appunto, il terribile fenomeno del rumore tramite una proliferazione indiscriminata dei discorsi. E il tutto, paradossalmente, spacciando questa operazione come il massimo della libertà (l'attuale articolazione politica di questo fenomeno è la cosiddetta web-democrazia diretta), al punto tale che chi ne propone una qualsiasi forma di regola(menta)zione, calibrazione viene subito etichettato come un censore oscurantista. Il mondo si trasforma così in rumore, oscurando i discorsi di valore e producendo di fatto una forma di censura (paradossalmente definita come libertà) molto più efficace della precedente, ingenuamente basata sul silenziamento diretto. Viene intaccata la possibilità di riconoscimento della differenza di suono fra un discorso significativo ed uno che non lo è: entrambi appaiono come elementi simili del/nel mare magnum.
Non focalizzare questo significa rimanere vittime della censura di questa para-democrazia e dei suoi miti, come quello del suffragio universale, senza avvedersi che gli uomini dai quali e per i quali certi meccanismi nacquero e il contesto sociale in cui si era chiamati a praticarli, sono molto distanti dagli uomini e dalla società di oggi. Quindi più che dai meccanismi, ancora una volta un qualcosa di statico nella sua oggettività, bisognerebbe partire dai valori, e poi cambiare i meccanismi ogniqualvolta, cambiando le contingenze, quelli di prima non garantiscono più il raggiungimento di ciò che consideriamo valore. Ma cosa consideriamo valore? Qui torniamo alla questione del riconoscimento, e quindi del superamento – benché in una certa misura siano utili per scopi pratici –, in un’”argomentatività” sempre in fieri, della rassicurante fissità dell’oggettività.
Ma attenzione ai facili equivoci, qui non si tratta di delegittimare il valore del discorso, ma il valore del discorso ha a che fare con un discorso che ha valore (e così si ritorna all'inizio).
Sono consapevole che questa argomentazione si presta ad essere strumentalizzata da chi volesse veramente censurare, alla “vecchia maniera”, ma questo è un rischio la cui consapevolezza deve portare a tenere più alta possibile la soglia della critica, e non ad abbandonare tale ragionamento in sé.
Mi sembra infatti che sia giunto il tempo di ragionare senza paura attorno alla costituzione di dispositivi selettivi, direi addirittura elitari, che possano filtrare dalla quantità la qualità, senza per questo abdicare al progetto illuministico del sapere aude. Anzi, proprio perché il sapere, foucaultianamente, giova nel prendere posizione, è necessario contrastare la formazione di scenari non di qualità e incoraggiare la formazione e l'espansione (nel senso della loro apertura al mondo) di quelli di qualità, da differenziarsi in tutto, nei tempi, nei luoghi, nel linguaggio… dal rumore (da ridursi al minimo indispensabile). Solo così il sapere aude nel senso che, mantenendosi essenzialmente e radicalmente distinto dal rumore, contribuisce a prendere posizioni di qualità.
Se non altro, si inizierebbe a mettere in crisi un sistema che si basa sulla strumentalizzazione del mito  – autoritario come tutti i miti –  del potere dal basso (come se a rendere un qualcosa di valore fosse la sua provenienza), della para-democrazia (che l’uso che facciamo della tecnologia contribuisce a far esplodere) come diritto/dovere di partecipazione, senza sapere a cosa.

(Federico Sollazzo, PhD in Filosofia e Teoria delle Scienze Umane presso l’Università Roma Tre, è attualmente Ricercatore e Docente di Moral Philosophy e Political Philosophy presso l’Università di Szeged; tra le sue recenti pubblicazioni il volume Totalitarismo, democrazia, etica pubblica; è ideatore e curatore di CriticaMente  www.costruttiva-mente.blogspot.com )

(«Critica liberale», 17/06/2013)

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