lunedì 29 luglio 2013

Un confronto tra Dostoevskij e Nietzsche a partire da Raskolnikov

di Alessandro Palladino (alessandropalladino@alice.it)

Poiché si tenterà di mostrare come un tema fondamentale del pensiero di Nietzsche sia già anticipato in Dostoevskij, vale la pena ricordare che il romanziere russo non conobbe mai l’opera del filosofo tedesco.
Anzi, fu Nietzsche che conobbe l’opera di Dostoevskij.
Uno stralcio dalle lettere del filosofo ci informa sulla reazione che ne ebbe [1887]:
“Fino ad alcune settimane fa non conoscevo neppure il nome di Dostoevskij, da quell’ignorante che sono, che non legge nessuna rivista! Facendo per caso un salto in libreria mi è capitata sotto gli occhi una sua opera appena tradotta in francese, L’esprit souterrain... l’istinto delle affinità (o come dovrei chiamarlo?) si è fatto subito sentire, la mia gioia è stata straordinaria: devo andare indietro fino alla mia conoscenza con Il rosso e il nero di Stendhal per rammentarmi una simile gioia”[1].
Per avere un ulteriore riferimento, va ricordato che Delitto e castigo viene pubblicato nel 1866, quando Nietzsche ha soltanto 22 anni.
Il confronto che qui si vuole avanzare verterà sul movente dell’omicidio di Raskolnikov e sulla catastrofe che ne seguirà. Seguendo questo filo, si sceglieranno i brani più significativi e ritenuti adatti a questo scopo.
Il primo forte indizio sul perché Raskolnikov compia l’omicidio è fornito in occasione di un dialogo che coinvolge due uomini (uno studente ed un ufficiale) in una taverna, seduti vicino il nostro eroe. I due si chiedono se sia giusto uccidere la vecchia usuraia (la stessa persona che sarà vittima di Raskolnikov), il tutto poco dopo la perlustrazione che il giovane protagonista ha fatto in casa della vecchia con la scusa di portarle un pegno in cambio di soldi.
Il movente che spingerebbe all’omicidio lo studente nella taverna è sintetizzabile con le sue parole: “La si uccida e si faccia poi servire la sua fortuna al bene dell’umanità”[2]. In sostanza si propone di uccidere la vecchia e di usare il suo denaro (che ella per testamento aveva destinato ad un monastero), per risollevare la sorte di migliaia di persone in difficoltà; una vita in cambio di migliaia. Molti spunti interessanti offre questo dialogo, ma nel punto che qui preme è decisiva la domanda che l’ufficiale rivolge allo studente e la risposta che quest’ultimo fornisce:
“ - dimmi solo questo: ucciderai tu la vecchia, si o no?
- No, naturalmente! Io mi schiero qui dal punto di vista della giustizia... Non si tratta di me...
- Ebbene, io penso che se tu non ti decidi ad ucciderla, vuol dire che la cosa non è giusta!”[3].
A noi importa registrare che Dostoevskij ci informa che lo studente non ucciderà la vecchia, perché si pone “dal punto di vista della giustizia” (la uccide per fare del bene agli altri) e, ancor più importante, perché non si tratta di un fatto che lo riguarda personalmente: “non si tratta di me”. Questi due punti ci danno delle notizie fondamentali su quello che sarà, invece, il movente di Raskolnikov.
Il nostro eroe ascolta questa conversazione, che come abbiamo visto dovrebbe riguardarlo molto più che da vicino. Ma con grande sorpresa, riferendosi al protagonista, lo scrittore ci dice:”Quella conversazione non aveva certo in sé nulla che dovesse meravigliarlo”[4].
Il motivo per il quale Raskolnikov non è interessato al dialogo citato, dobbiamo provare ad intuire, è che lui è su un altro piano, per lo meno dal punto di vista ideale, per quanto riguarda l’omicidio della vecchia. Se restassimo sul piano dello studente e dell’ufficiale non potremmo “dialogare” con il giovane assassino e capire quale è, invece, il suo movente.
Per avere risposta a questo quesito dobbiamo proseguire nella fitta tela narrativa del romanzo.
Raskolnikov ha compiuto l’omicidio e in preda al delirio, ad un certo punto, si chiede cosa fare del bottino. E’ in strada, impaurito e disorientato, quando pensa di gettare la refurtiva nel fiume. A questo punto fa una riflessione fondamentale per il percorso che ci siamo prefissi, tanto importante da doverla citare per intero:
“All’improvviso si fermò spaventato, stupito da una questione nuova, del tutto inattesa e pure semplicissima.
“Se, in tutta questa faccenda, hai reagito realmente da uomo intelligente e non da imbecille; se tu avevi uno scopo chiaramente determinato e fermamente seguito, come va dunque che, fino ad ora, non hai neppure guardato ciò che vi era nella borsa? Come avvenne che non sai ancora quello che ti ha fruttato l’atto di cui non hai temuto il pericolo e l’infamia? Non volevi forse gettare nel fiume quella borsa e quei gioielli, ai quali hai dato appena un’occhiata?... Che significa ciò?”[5].
Chiediamoci con Raskolnikov, “che significa ciò?”
Per tentare di rispondere a questa domanda dobbiamo fare un vero e proprio salto all’interno del romanzo. Ciò significherà dover omettere molti degli avvenimenti narrati. Nello specifico dobbiamo ritrovare il nostro eroe mentre si trova al commissariato di polizia e sono presenti l’amico Rasumikin, il giudice istruttore Porfirio e Zametov, impiegato di polizia. Il personaggio centrale qui, oltre a Raskolnikov, è certamente Porfirio. E’ lui che riesce a dialogare con l’idea di cui il giovane è vittima poiché è il primo a comprenderla. In occasione di questo dialogo, infatti, è proprio Porfirio a citare un estratto di un articolo che qualche mese prima Raskolnikov aveva scritto. Questo è il passo fondamentale per cercare di capire le motivazioni al delitto del giovane assassino. Data l’importanza di questi brani conviene citare integralmente le parti fondamentali.
Iniziamo con l’esposizione che Porfirio fa dell’articolo dell’assassino:
“Nell’articolo in questione gli uomini sono divisi in “ordinari” e “straordinari”. I primi devono vivere nell’obbedienza e non hanno diritto di violare le leggi, visto che sono uomini ordinari; i secondi hanno il diritto di commettere tutti i delitti, di trasgredire a tutte le leggi, per la ragione che sono uomini straordinari. Non è così che dicevate? O m’inganno, forse?”[6].
A questa interpretazione del suo articolo, Raskolnikov replica con la propria versione che qui riportiamo per intero:
“Non è proprio così – cominciò egli con tono semplice. Non nego che avete riprodotto esattamente il mio pensiero, ma io non ho detto che la gente straordinaria sia obbligata a commettere sempre ogni specie di delitti. Ecco semplicemente quanto ho enunciato: l’uomo straordinario ha il diritto di autorizzare la sua coscienza ad oltrepassare certi ostacoli nel caso in cui la realizzazione della sua idea lo esiga. Io credo che se le invenzioni di Kepler e di Newton non avessero potuto farsi conoscere che mediante il sacrificio di una, di dieci, di cento e più esistenze le quali fossero state d’ostacolo a queste scoperte, Newton avrebbe avuto il diritto, anzi il dovere di distruggere queste esistenze. Ciò non vuol dire, però, che Newton avesse il diritto di assassinare a suo piacimento. Proseguendo, il mio articolo insiste nell’idea che tutti i legislatori sono stati delinquenti perché, dando nuove leggi, hanno necessariamente trasgredito le antiche. Essi dunque non indietreggiarono davanti allo spargimento di sangue, quando questo poteva essere loro utile. In conseguenza, non solo tutti i grandi uomini, ma anche quelli che di poco si innalzano sopra il livello comune, devono essere più o meno delinquenti. E, se non facessero così, non potrebbe mai uscire di carreggiata. Voi vedete che il mio articolo non contiene che cose dette o stampate molte volte”[7].
A questo punto è Rasumikin a cogliere il vero nocciolo del pensiero dell’amico. Quel nocciolo che, forse, Raskolnikov tenta di nascondere a se stesso e che è stato la causa della sua catastrofe. Ascoltiamo attentamente cosa dice Rasumikin:
“Ebbene, sì, mio caro  disse Rasumikin –, tu hai ragione di dire che questo non è nuovo e rassomiglia a quello che abbiamo udito e letto migliaia di volte; ma ciò che vi è di realmente strano, ciò che è assolutamente tuo, e sono desolato di dirlo, è quel diritto morale di versare il sangue, che accordi e difendi con tanto fanatismo... Ecco, in conseguenza, il pensiero principale del tuo articolo. Questa autorizzazione morale di uccidere è, a parer mio, qualche cosa di più spaventevole che non l’autorizzazione ufficiale, legale”[8].
Dopo che Rasumikin svela l’enigma di Raskolnikov, è Porfirio che con la sagacia propria di un buon giudice istruttore, entra in confidenza con la mente dell’assassino. E’ però da sottolineare come Porfirio badi all’uomo Raskolnikov in tutta la sua interezza e non solo all’idea che lo ha vinto portandolo ad uccidere; tentazione questa che porterebbe immediatamente a semplificare ingiustamente la dialettica dostoevskiana.   
Porfirio è ormai convinto che il giovane studente sia l’assassino. In primis tenta di appellarsi alla coscienza del giovane. Quella coscienza che il nostro eroe vorrebbe rifiutare, ma che come scopriremo egli non è in grado di battere. Infatti, quando Raskolnikov dice che bisogna prendere l’assassino, Porfirio chiede cosa ne sarà di lui. L’assassino si limita a rispondere “peggio per lui”. A questo punto il giudice istruttore replica:
“ - Ma che gli dirà la sua coscienza?
- Che ve ne importa?
- E’ una questione che interessa il sentimento umano. Che colui che ha una coscienza soffra nel riconoscere il proprio errore. E’ il suo castigo, a prescindere dalla galera”[9].
In queste poche parole è concentrato il destino di Raskolnikov, un destino problematico come vedremo.
Porfirio, fermo nelle sue convinzioni sull’autore del delitto, continua ad incalzare lo studente:
“Componendo il vostro articolo, è molto probabile, eh! Eh! Che vi siate considerato da voi stesso come uno di quegli uomini “straordinari” di cui parlavate... Dite, non è così?
- E’ possibilissimo  rispose sdegnosamente Raskolnikov.
Rasumikin fece un gesto.
- Se è così, non sareste forse deciso, sia per togliervi da imbarazzi materiali, sia per far progredire l’umanità, non sareste forse deciso a sormontare l’ostacolo? Cioè, ad uccidere e a rubare?”[10].
Il dialogo si conclude con un nulla di fatto, ma da questo momento tutto cambia per Raskolnikov. Seguendo le vicende del nostro eroe dobbiamo riprendere la narrazione poco dopo, quando in strada un uomo gli si avvicina e lo chiama “assassino”. Quest’uomo è stato istruito da Porfirio, che ormai non mollerà più la presa sull’assassino. Ai fini del nostro discorso importa sapere quali sommovimenti spirituali comporta in Raskolnikov questo evento. Ascoltiamo allora le sue parole in proposito:
““Come mai, conoscendo me stesso, ho osato prendere una scure e uccidere? Dovevo saperlo prima... e lo sapevo del resto...”, mormorò disperatamente. “La vecchia non significa nulla” si diceva a scatti “essa è stata soltanto un accidente... volevo liberarmi al più presto... non ho ucciso una creatura ma un principio, ma non ho saputo innalzarmi al di sopra di esso...”[11].
Arrivati a questo punto disponiamo già di sufficienti elementi per confrontare le convinzioni che animano Raskolnikov con la teoria morale di Nietzsche; almeno in una sua parte. Ma faremmo un torto notevolissimo alla concezione di Dostoevskij se arrestassimo a questo punto la nostra analisi della storia di Delitto e castigo. In effetti ci ritroveremmo con una concezione a metà se non tenessimo conto della fine della vicenda di Raskolnikov; non solo, ma le idee professate fino ad adesso dal nostro eroe non sarebbero comprensibili in tutta la loro portata se non le saggiassimo con il compiersi della “catastrofe” del giovane assassino.
Dobbiamo allora ritrovare il protagonista nel momento in cui decide di confidare il suo delitto a Sonia. In questa occasione, forse, abbiamo l’opportunità di leggere le pagine più alte e commoventi dell’intero romanzo. Purtroppo, per il percorso qui intrapreso, non sarà possibile andare oltre la mera citazione delle parti che interessano solo rispetto al tema esaminato.
Sonia capisce che ha di fronte l’assassino, in un dialogo colmo di tensione. A questo punto la giovane prostituta si inginocchia ai piedi dell’assassino, lo bacia e lo abbraccia. Raskolnikov piange e capisce che Sonia rimarrà per sempre al suo fianco; la ragazza comprende che questo è l’unico modo per salvare l’anima del colpevole.
Ai fini del tema esaminato è necessario riportare come l’assassino spieghi a Sonia il perché del suo gesto. Sonia pensa dapprima che il giovane abbia ucciso per povertà e per salvare la sua famiglia. Raskolnikov le risponde che se il motivo fosse questo, potrebbe dirsi felice. No, come ora sappiamo, il movente è un altro. Ma lasciamo che sia il giovane stesso a confermarlo nuovamente:
“Allora ho cominciato a pensare e sempre dicevo di me stesso: “giacché tu sai che gli altri sono stupidi, perché non cerchi di essere più intelligente di loro?”. Ora so, Sonia, che quegli solo che possiede una possente intelligenza può essere il loro padrone. Chi osa molto ha ragione. Allora mi sono convinto che il potere è dato a chi osa chinarsi per prenderlo. Dal giorno in cui questa verità mi è apparsa chiara come la luce meridiana, ho voluto osare e ho ucciso... ho voluto essere audace, Sonia; questo è stato il solo movente delle mie azioni”[12].
Quest’ultimo frammento citato è davvero fondamentale, anzi, decisivo. Non solo Raskolnikov espone con incredibile chiarezza il perché abbia ucciso, ma molto di più. Da questo stralcio siamo informati sulle convinzioni del protagonista dopo la confessione. Come ripeterà anche più tardi, il giovane assassino è convinto che le sue idee sono giuste. Ha fatto difetto la sua capacità di compierle; insomma, non sono le idee ad essere errate, ma è Raskolnikov a non essere abbastanza grande per esse.
Per avere conferma dello stato delle convinzioni del protagonista, ovvero per registrare il suo essere ancora saldo nei sui convincimenti, è opportuno riportare cosa egli dice appena dopo l’ultimo brano citato:
“Che lotte interne non ho io subite! Credi tu che vi sia andato come uno stordito, come un pazzo? Niente affatto! Ho agito dopo mature riflessioni, e questo è stato la mia rovina! Credi tu che mi sia illuso? Quando io mi chiedevo se avevo diritto al potere, sentivo benissimo che il mio diritto era nullo, perché osavo farne oggetto di domanda. Quando mi chiedevo se una natura umana fosse o no un verme schifoso, io sentivo benissimo che non lo era per me, ma lo era bensì per l’audace che non se lo sarebbe neppure chiesto, e sarebbe proceduto oltre senza tormentarsene lo spirito...
 - Finalmente, ho rinunciato a cercare scuse; ho voluto uccidere senza causa, uccidere per me stesso, per me solo! Anche in un affare di quell’importanza, ho sdegnato di cavillare con la mia coscienza. Se ho ucciso, non l’ho fatto né per alleviare la miseria di mia madre, né per consacrare al bene dell’umanità la potenza e la ricchezza che, secondo me, questo delitto doveva aiutarmi a conquistare. No, no, tutto questo era ben lontano dal mio pensiero. In quei momenti, senza dubbio, io non mi curavo di sapere se avessi fatto del bene a qualcuno o se fossi stato un parassita sociale durante la mia vita!... Il denaro non è stato il principale movente dell’assassinio, un altro motivo mi ha determinato...
 - Ora lo vedo... Sentimi bene; se dovessi rifarlo, forse non ricomincerei. Ma allora avevo fretta di sapere se ero un essere spregevole come gli altri o un uomo nel vero senso della parola, se possedevo la forza di oltrepassare l’ostacolo, se ero una creatura tremante o se avevo il diritto...
 - Il diritto di uccidere? – esclamò Sonia stupefatta”[13].
Se fino ad adesso si potevano ancora avere dubbi sul movente di Raskolnikov, dopo questo brano saranno sicuramente tutti estinti.
Come già detto, per comprendere appieno la concezione di Dostoevskij, dobbiamo seguire il compiersi del destino del nostro eroe; altro ancora esso ha da rivelarci. Troviamo allora il giovane studente incalzato da Porfirio, che ormai sa che l’assassino è prossimo a cedere. Anzitutto ci permettiamo di sottolineare un passo che, con ogni probabilità, ci informa su come Dostoevskij stesso valuta il delitto. Ricordiamo prima, che il romanziere russo era un attentissimo osservatore della cronaca e che dava un’importanza enorme agli eventi che lo circondavano.
Sentiamo da Porfirio la valutazione del delitto:
“Siamo in presenza di un affare tetro e fantastico; questo delitto porta la marca contemporanea, caratterizza un’epoca che fa consistere tutta la vita nella ricerca del benessere.
- L’assassino è un teoretico, una vittima del libro; in questa prova egli ha spiegato un’audacia di genere speciale”[14].
Queste poche frasi meriterebbero un dibattito a sé, qui ci limitiamo a sottolineare che sono le parole di un personaggio che molto ha capito di Raskolnikov e, quindi, anche del delitto. Più da vicino ci interessano le parole che Porfirio riferisce in maniera più diretta all’assassino:
“- Volete sapere che penso di voi? Penso che siete uno di quegli uomini che si lascerebbe strappare le viscere, sorridendo ai loro carnefici, pur di aver trovato una fede o un Dio. Ebbene, trovate questa fede, e vivrete. Prima di tutto, è molto tempo che avete bisogno di cambiare aria. Poi, la sofferenza è una buona cosa. Soffrite. Mikolka ha forse ragione di voler soffrire. So che siete scettico, ma abbandonatevi, senza ragionare, alla corrente della vita. Vi porterà a qualche luogo. Dove? Non ve ne curate, giungerete sempre ad una riva. Quale? Lo ignoro; io credo solo che avrete lunghi anni da vivere. Voi pensate forse che io rappresenti ora la mia parte di giudice istruttore, ma verrà il tempo in cui penserete alle mie parole e ne trarrete profitto; ecco perché vi parlo così. Meno male che avete ucciso soltanto una vecchia donna cattiva. Con un’altra teoria, avreste commesso un’azione assai peggiore. Potete ancora ringraziare Iddio: chissà? Egli aveva forse dei disegni su di voi. Abbiate coraggio e non retrocedete, per pusillanimità, innanzi a quanto esige la giustizia. So che non mi credete, ma col tempo amerete ancora la vita”[15].
Come si evince da queste parole, e come chiariremo ancor meglio, la guarigione del colpevole è tutta da compiersi.
Quanto l’assassino sia ancora preda della sua idea, lo conferma una volta di più il dialogo con la sorella, Dunia.  Raskolnikov ha ormai deciso che andrà a costituirsi, ma le motivazioni della sua volontà di costituirsi ci informano di quanto ancora l’assassino sia prigioniero e vittima della sua folle monomania:
“Il mio delitto? Quale delitto? E’ forse un delitto l’avere ucciso un verme malefico, un vampiro che succhiava il sangue dei poveri? Ora che ho deciso di affrontare gratuitamente il disonore, ora soltanto mi appare chiarissima l’assurdità della mia vile decisione. E’ solo per viltà e impotenza che mi decido a questo passo, a meno che non sia per interesse, come mi diceva quel... Porfirio.
- Oh! Fratello che dici mai? Ma tu hai versato del sangue! – replicò Dunia costernata.
- Ebbene? Tutti ne versano e quelli che lo spandono come champagne salgono al potere e sono proclamati benefattori dell’umanità... Io volevo soltanto crearmi una posizione indipendente, assicurarmi i primi passi nella vita, poi avrei preso lo slancio... Ma ho fallito e questo fiasco fa di me un miserabile”[16].
Raskolnikov confessa il suo delitto e dovrà scontare la pena di otto anni in Siberia. Passano diciotto mesi e le sue idee non cambiano. Non si riconosce colpevole né peccatore. Intanto Sonia lo ha seguito e, ancora una volta, sarà lei a salvarlo. La scena che segna l’inizio della salvezza dell’assassino per mano di Sonia vale la pena di essere citata per intero; per la sua bellezza e per la sua intensità:
“Improvvisamente, e senza che il prigioniero sapesse il perché, una forza invincibile lo gettò ai piedi della giovinetta. Egli pianse e le abbracciò le ginocchia. Nel primo momento essa ne fu spaventata, e il suo viso divenne livido. Si alzò improvvisamente e, tutta tremante, guardò Raskolnikov. Ma quello sguardo bastò per farle capire ogni cosa. Un’immensa felicità brillò nei suoi occhi raggianti: nessun dubbio più che egli l’amasse e d’infinito amore; quel momento era giunto finalmente...
Vollero parlare e non poterono.
Gli occhi erano pregni di lacrime. Tutti e due erano pallidi e macilenti, ma sui loro visi malaticci brillava già l’aurora di una nuova rigenerazione, di una risurrezione completa. L’amore li rigenerava: il cuore dell’uno rinchiudeva un’inestinguibile sorgente di vita per il cuore dell’altra.
Risolsero di aspettare, di aver pazienza. Avevano ancore sette anni di Siberia: quali intollerabili sofferenze, quale infinita felicità, quello spazio di tempo doveva racchiudere per loro! Ma Raskolnikov era risorto, lo capiva, lo sentiva in tutto l’essere suo, e Sonia viveva soltanto della vita di Raskolnikov[17].
Qui comincia la rigenerazione del nostro eroe, una rigenerazione nel segno dell’amore di Sonia, l’unica cosa capace di vincere lo smisurato orgoglio dell’assassino. Ma, come Dostoevskij ci dice nel finale del libro, questa è una storia che non può essere raccontata, almeno per il momento.
Più di uno studioso rintraccia nel finale del romanzo un punto debole. Come spesso accade in Dostoevskij, ogni problematica che sorge dai suoi scritti si espone ad essere risolta dai suoi studiosi secondo soluzioni diametralmente opposte l’una dall’altra. Si comprende allora come questa problematica meriti una analisi a sé stante. Ci limitiamo a sottolineare come un giudizio sul finale di Delitto e castigo non può non tenere conto della maturazione artistica e ideale di Dostoevskij, così come essa si manifesta nei suoi successivi romanzi.
Conclusa la vicenda di Raskolnikov bisogna ora vedere quali sono i possibili contatti che il suo ideale ha con la teoria morale di Nietzsche.
Prima di cominciare è bene chiarire che non si vuole dare un giudizio definitivo in merito al confronto tra questi due massimi pensatori. Il tentativo che qui si vuole compiere è soltanto di avanzare l’ipotesi, attraverso brani estrapolati da alcune opere del filosofo tedesco, che Dostoevskij sia riuscito a vedere prima di Nietzsche alcuni temi fondamentali del loro tempo. Come abbiamo detto ci limitiamo alla figura di Raskolnikov. Già questo pone dei seri problemi in merito al confronto tra il filosofo tedesco e il romanziere russo, poiché molto più del protagonista di Delitto e castigo, sono Kirillov e Ivan Karamazov a meritare un’attenta analisi nel confronto con Nietzsche. Ciò non toglie che anche il protagonista di Delitto e castigo offra spunti molto interessanti.
Un ulteriore problema è quello relativo alle citazioni. Per la verità come bene ha avvertito tra gli altri uno studioso acuto come Jasper[18], ciò vale moltissimo in Nietzsche. Estrapolare una frase o un aforisma dalle opere del filosofo espone al rischio di trovarsi con un corpo morto tra le mani.
Fatte queste dovute precisazioni, è possibile procedere con l’ipotesi interpretativa.
Anzitutto è singolare notare come un brano da La volontà di potenza sembra richiamare da molto vicino l’articolo di giornale scritto da Raskolnikov, almeno nella versione riferitaci da Porfirio:
“Io insegno che ci sono uomini superiori e inferiori e che, in certe circostanze, un individuo solo può giustificare l’esistenza di interi millenni: intendo parlare di un uomo più completo, più ricco, più intero di fronte a innumerevoli uomini incompleti e frammentari”[19].
Subito dopo scrive Nietzsche:
“Io credo di avere indovinato qualcosa dell’anima dell’uomo superiore; forse, chiunque lo indovina perisce; ma chi lo ha visto deve necessariamente adoperarsi per renderlo possibile. Pensiero fondamentale: dobbiamo assumere l’avvenire come criterio di ogni nostra valutazione – e non cercare dietro di noi le leggi del nostro agire!”[20]; e nel frammento successivo: “Lo scopo non è la “umanità”, ma il superuomo[21].
Dobbiamo confessarci che il linguaggio e i contenuti di Raskolnikov non sono poi così lontani dal ragionare di Nietzsche.
Un ulteriore spunto, nella stessa opera, è nel frammento 1041:
“ [...] Così indovinai quanto diversamente una più forte razza di uomini debba figurarsi l’elevazione e la promozione umana: deve figurarsi esseri superiori, al di là del bene e del male, di là da quei valori di cui è innegabile la derivazione dalla sfera della sofferenza, del gregge e della maggioranza; io cercai nella storia i princìpi di questa formazione ideale capovolta (riscoprii e stabilii i concetti di “pagano”, “classico”, “aristocratico”)”[22].
Se c’è una formula con la quale, forse, si possa sintetizzare efficacemente il tentativo di Raskolnikov, è quello di porsi “al di là del bene e del male”. Peraltro questa efficacissima formula è anche il titolo di un’importante opera di Nietzsche.
Un aforisma ci sembra possa mostrare, nella formula stringata propria di questo genere letterario, quanto il filosofo tedesco sia un fratello spirituale del protagonista di Delitto e castigo:
“Quando l’uomo non si ritiene più cattivo, cessa di esserlo”[23].
Sempre in Aurora, frammento 436, troviamo un’altra possibile similitudine con la vicenda raccontata in Delitto e castigo:
“C’è una maligna alternativa, alla quale non di tutti è pari la fortezza d’animo e il carattere: scoprire, come passeggeri di una nave, che il capitano e il timoniere fanno pericolosi errori e che si è superiori ad essi in perizia nautica – e domandarsi allora: “Che fare? Se tu provocassi un ammutinamento e li facessi imprigionare tutti e due? Non è la tua superiorità a fartene obbligo? E d’altro canto, non hanno costoro il diritto di metterti ai ferri se sovverti l’obbedienza?”. E’ questa una similitudine per situazioni più importanti e peggiori: nelle quali resta pur sempre il problema di quali siano le garanzie della nostra superiorità, della nostra fede in noi stessi, in tali circostanze. Il successo? Ma in questo caso si deve appunto già fare la cosa che comporta tutti i pericoli – e non soltanto pericoli per noi, bensì per la nave”[24].
Bisogna ricordare che nei passi in cui il filosofo tedesco cita i suoi autori prediletti, Dostoevskij non compare. Ma è altrettanto vero che in più di un passo Nietzsche cita il romanziere russo come il più grande psicologo che abbia mai letto e che possa insegnargli qualcosa in merito.
Nella Genealogia della morale ci sembra di trovare un passo che, in un certo senso, ci fa conoscere un Nietzsche che ragiona come il romanziere russo:
“I rei di malefatte, raggiunti dalla pena, hanno per millenni avvertito il loro “fallo” in maniera non diversa da Spinoza: “Inaspettatamente, a questo punto, qualcosa è andato storto”, non già: “Questo non avrei dovuto farlo” –; costoro si sono assoggettati alla pena come ci si assoggetta a una malattia o a una disgrazia o alla morte, con quell’impavido fatalismo senza ribellione grazie al quale, per esempio, ancor oggi i russi sono in vantaggio su noi occidentali nel trattare la vita”[25].
Se in questo piccolo frammento possiamo avvertire una certa vicinanza con Raskolnikov, il prosieguo del frammento non lascia dubbi su quanto, invece, questi due grandissimi pensatori abbiano uno sguardo diverso sulla vita:
“Ciò che con la pena può complessivamente essere raggiunto nell’uomo e nell’animale è l’aumento della paura, l’aguzzarsi dell’accortezza, il dominio dei desideri: in tal modo la pena ammansisce l’uomo, senza farlo tuttavia “migliore” – si potrebbe, a maggior diritto, affermare il contrario”[26].
Insomma, Raskolnikov, secondo il giudizio di Nietzsche, pur avendo osato rimane un decadent.
Resta allora da domandarsi: è possibile superare Raskolnikov? Ovvero, Nietzsche è riuscito ad andare oltre Raskolnikov?

[1] G. Pacini, Nietzsche lettore dei grandi russi, Armando editore, 2001, p. 13.
[2] F. Dostoevskij, Delitto e castigo, Rusconi editore, 2005, p. 51.
[3] F. Dostoevskij, op. cit., p. 52.
[4] Ibidem.
[5] F. Dostoevskij, op. cit., pp. 90-91.
[6] F. Dostoevskij, op. cit., p. 204.
[7] F. Dostoevskij, op. cit., p. 205.
[8] Ibidem.
[9] F. Dostoevskij, op. cit., p. 206.
[10] F. Dostoevskij, op. cit., pp.206-207
[11] F. Dostoevskij, op. cit., p. 213.
[12] F. Dostoevskij, op. cit., p. 301.
[13] F. Dostoevskij, op. cit., pp. 301-302.
[14] F. Dostoevskij, op. cit., p. 321.
[15] F. Dostoevskij, op. cit., p. 325.
[16] F. Dostoevskij, op. cit., p. 357.
[17] F. Dostoevskij, op. cit., p. 375.
[18] K. Jaspers, Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Mursia editore, 1996. In particolare si vedano le pp. 28-32 (introduzione). Afferma, ad esempio Jaspers: “In Nietzsche è quasi sempre possibile trovare un giudizio ed anche il giudizio opposto. Sembra che egli abbia su tutto due opinioni. Ne consegue che, dai testi di Nietzsche, è dunque possibile estrapolare le più diverse citazioni, scelte arbitrariamente, a seconda di ciò che si vuole ottenere” (p. 29). Quanto lo stesso Jaspers riesca ad essere immune dai rischi che egli stesso rileva, è un problema spinoso che meriterebbe uno spazio a parte.
[19] F. Nietzsche, La volontà di potenza, Bompiani editore, 1994, p. 530.
[20] F. Nietzsche, op. cit., p. 530-531.
[21] F. Nietzsche, op. cit., p. 531.
[22] F. Nietzsche, op. cit., p. 549.
[23] F. Nietzsche, Aurora, Adelphi editore, 2010, p. 115.
[24] F. Nietzsche, op. cit., p. 218.
[25] F. Nietzsche, Genealogia della morale, Fabbri editori, 2001, p. 72.
[26] F. Nietzsche, op. cit., p. 73.

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3 commenti:

  1. L'articolo è molto bello e, anche se abbastanza lungo per quanto siamo abituati a leggere su internet, l'argomento meriterebbe ancora più pagine. Ti dirò che ciò che tu fai notare, la vicinanza fra la figura psicologica di Raskolnikov, le sue parole e il suo pensiero, e la filosofia di Nietzsche, è qualcosa che mi balzò agli occhi quando lessi Delitto e Castigo. Un grande merito il tuo, per aver trascritto meravigliosamente, in questo breve saggio, un confronto tra le due figure. Sarebbe bello poter leggere sempre articoli come questo. Davvero complimenti, raramente mi entusiasmo per ciò che leggo online. Pensare che sono capitato per caso su questo blog. Ciao. Luigi T.

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  2. Gent.mo Luigi, ti ringrazio per le tue belle parole. Come forse saprai gli studiosi ancora non giungono a determinare con certezza se Nietzsche abbia letto Delitto e castigo. Al di là dei miei convincimenti personali, ho preferito non affrontare tale spinosa questione. Mi sono limitato a ricostruire con più dovizia di particolari di quanto generalmente viene fatto, il personaggio di Raskolnikov per avere poi una solida base per confrontarlo con la filosofia di Nietzsche. Colgo le tue parole come un incoraggiamento a proseguire tale itinerario, che ha in Raskolnikov soltanto un punto di vista tra i diversi possibili. Cordialmente, Alessandro Palladino

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    1. Buongiorno, io trovo una fortissima correlazione tra il passaggio in cui Raskolnikov analizza la sua decisione di gettare via i preziosi rubati e il tema della "vergogna della propria demenza" che coglie il criminale dopo il crimine oggetto del pronto discorso dello Zarathustra di Nietzsche intitolato "Del pallido delinquente". È impressionante come senza sapere l'uno dell'altro sia Dostoevskij che Nietzsche abbiano colto le stesse cose!
      Dopo il delitto la coscienza risveglia nel criminale la consapevolezza della gravità della propria azione. Nietzsche definisce questa consapevolezza e l'inevitabile peso che si prova per la propria azione come la "demenza dopo l'azione". Ecco allora che l'autore del delitto si deve "creare" uno scopo che giustifichi ai suoi occhi razionalmente l'azione compiuta, ed ecco allora che ruba. Ma Raskolnikov non è veramente interessato a ciò che ha rubato, perché ciò è solo una maschera che si è creato per risolvere razionalmente il proprio peso e per non "vergognarsi" di quel peso e di quella "demenza". Nel bellissimo passaggio dello Zarathustra si legge:"...Ed egli ascoltò la propria ragione: un peso di piombo fu il suo discorso per lui, - e così rapinò quando uccise. Non voleva vergognarsi della sua demenza."

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