martedì 7 maggio 2013

Genealogia della violenza e ideocrazia in Walter Benjamin

di Libero Federici (federici.libero@virgilio.it; II di 3)

L’euristica benjaminiana si caratterizza per la propria tensione verso il nucleo semantico delle cose, per lo sguardo gettato oltre l’immediatezza del riferimento del dato; è come se il suo procedere astraesse forme e significazioni di istituti, rapporti e ordini per evitarne la potenza rappresentativa e vincolante: a quel punto l’intensionale è il referente, la parola si addentra nel fondale della problematicità scorgendovi la relazione tra conoscenza e azione: senso e significato di una genealogia. Considerare l’Ordnung giuridico-positivo come struttura deontica cui è sottesa una tassonomia della necessità stringente insieme destino, colpa e obbligo è genealogia della legge come formalizzazione doxastica, genealogia che vede la cogenza rigenerarsi incessantemente in sintassi di vigenze antimutamento e relativa introiezione: quella vita prodotta dal/nel mito e ri-prodotta dal/nel diritto, quella vita espropriata del proprio conatus dalla “mitica schiavitù della persona”[1] è il blosses Leben: violenza dell’ideocrazia, ideocrazia della violenza.
Proprio sulla correlazione come prosecuzione tra dimensione mitica e dimensione giuridica si sviluppa il discorso di Zur Kritik der Gewalt[2], scritto negli anni 1920-1921.
“Il compito di una critica della violenza si può definire come l’esposizione del suo rapporto col diritto e con la giustizia”[3]. Benjamin non è un filosofo del diritto stricto sensu, come dimostra la presenza a prima vista esorbitante del Mythus nella sua tematizzazione giuridica; tuttavia l’impostazione benjaminiana è di grande interesse in quanto evidenzia e mette a nudo alcune aporie della modernità giuridica.
Sia il diritto naturale sia il giuspositivismo dimostrano un’insufficienza in merito ad una proficua Kritik der Gewalt. Infatti per il primo la violenza è un dato naturale, un quid che si trova nella natura e che gli uomini possono usare purché perseguano scopi giusti; per il secondo, invece, la violenza è un mezzo utilizzabile per garantire i fini del potere che si è costituito storicamente: “Secondo la concezione giusnaturalistica (che servì da base ideologica al terrorismo della Rivoluzione francese) la violenza è un prodotto naturale, per così dire una materia prima, il cui impiego non solleva problemi di sorta, purché non si abusi della violenza a fini ingiusti. Se, nella teoria giusnaturalistica dello Stato, le persone si spogliano di tutta la loro autorità a favore dello Stato, ciò accade in base al presupposto (esplicitamente enunciato da Spinoza nel Trattato teologico-politico) che il singolo come tale, e prima della conclusione di questo contratto razionale, eserciti anche de jure ogni potere che detiene de facto. Forse queste concezioni sono state ravvivate in seguito, dalla biologia darwiniana, che considera, in modo affatto dogmatico, insieme alla selezione naturale, solo la violenza come mezzo originario e solo adeguato a tutti i fini vitali della natura. La filosofia popolare darwinistica ha mostrato spesso come sia facile passare da questo dogma della storia naturale al dogma ancor più grossolano della filosofia del diritto per cui quella violenza che è quasi esclusivamente adeguata a fini naturali, sarebbe per ciò stesso anche giuridicamente legittima. A questa tesi giusnaturalistica della violenza come dato naturale si oppone diametralmente quella del diritto positivo, che vuole il potere storicamente divenuto”[4]. Nella dottrina giusnaturalistica la Gewalt come Naturprodukt non costituisce problema se il suo impiego è riferito a scopi giusti; sostanza disponibile alla potestas umana, ad essa si può ricorrere per la realizzazione di spinte inerenti alla propria natura qualora queste ultime abbiano condizione di giustezza. Diversamente dal Naturrecht il giuspositivismo focalizza la sua attenzione sul potere storicamente divenuto. Ciò che un potere ha temporalmente fondato è un ordine/sistema i cui fini, ritenuti legittimi e giusti, vanno difesi attraverso mezzi ritenuti legali; tutto va ricondotto alla conformità al diritto (Rechtmäßigkeit) coniato da quello stesso potere affermato. Nella misura in cui il giusnaturalismo vede nella violenza un mezzo giusto vòlto a fini naturali, il positivismo giuridico ne vede un mezzo legale per la tutela di fini giusti[5]: “Come il diritto naturale può giudicare ogni diritto esistente solo nella critica dei suoi fini, così il diritto positivo può giudicare ogni diritto diveniente solo nella critica dei suoi mezzi. Se la giustizia è il criterio dei fini, la legalità è il criterio dei mezzi”[6]. Ma nonostante questa diversità tra le due correnti giusfilosofiche Benjamin non crede alla loro contrapposizione: “Le due scuole s’incontrano nel comune dogma fondamentale: fini giusti possono essere raggiunti con mezzi legittimi, mezzi legittimi possono essere impiegati a fini giusti. Il diritto naturale tende a <<giustificare>> i mezzi con la giustizia dei fini, il diritto positivo a <<garantire>> la giustizia dei fini con la legittimità dei mezzi. L’antinomia si rivelerebbe insolubile ove si dimostrasse che è falso il comune presupposto dogmatico, e che mezzi legittimi da una parte, e fini giusti dall’altra, sono fra loro in contrasto irriducibile”[7]. Secondo Benjamin giusnaturalismo e giuspositivismo sono dicotomici soltanto all’apparenza in quanto stanno entrambi nel Grunddogma della declinazione di una relazione strumentale, già rifiutata nel precedente saggio “Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen”[8].
Per uscire dal circolo di strumentalità in cui il Naturrecht e la positive Rechtstheorie hanno denominatore comune è necessario assumere il criterio che considera il diritto “dal punto di vista della filosofia della storia”[9]. Benjamin sostiene che una vera critica della violenza ha luogo soltanto nella tematizzazione del rapporto tra rechtsetzende Gewalt e rechtserhaltende Gewalt, tra violenza che pone il diritto e violenza che conserva il diritto. Infatti ogni diritto positivo esige e rimanda alla sua origine storica che, a sua volta, implica un potere fondante, una violenza storicamente riconosciuta, una violenza sanzionata. “Poiché il riconoscimento dei poteri giuridici si esprime nel modo più concreto nella sottomissione – in linea di principio – passiva ai loro fini, come criterio ipotetico di suddivisione dei vari tipi di autorità bisogna assumere la presenza o la mancanza di un riconoscimento storico universale dei loro fini. I fini che mancano di questo riconoscimento si chiameranno fini naturali, gli altri, fini giuridici”[10]: originato da una Gewalt che si è storicamente imposta, il diritto è struttura che si specchia nell’identità che l’ha prodotto, determinazione di riconoscimento e di obbedienza di/ad un’autodeterminazione di potere. Il giuridico è spazio entro il quale si assicura il riconoscimento-mantenimento della Gewalt fondante, la norma disciplina le condotte umane nella dedicazione al potere istituente. L’organizzazione che ne deriva è coattiva, stabilisce doveri di comportamento da farsi valere anche con il ricorso alla forza; gli individui stanno in una malia di relazioni giuridiche tali da non consentire il movimento della differenza. “Questi rapporti giuridici sono caratterizzati […] dalla tendenza a non ammettere fini naturali delle persone singole in tutti i casi in cui questi fini potrebbero essere, all’occasione, perseguiti coerentemente con la violenza. Vale a dire che questo ordinamento giuridico tende, in tutti i campi in cui fini di persone singole potrebbero essere perseguiti coerentemente con la violenza, a stabilire fini giuridici che possono essere realizzati in questo modo solo dal potere giuridico. Anzi, esso tende a ridurre, mediante fini giuridici, anche le regioni dove, in linea di massima, i fini naturali vengono consentiti entro ampi limiti, se appena quei fini naturali vengono perseguiti con grado eccessivo di violenza”[11]: la violenza che si soggettivizza in un ordine giuridico, estrinsecazione/struttura allo stesso tempo sostanziale e formale dell’Identità, stabilisce in questo fini correlati al riconoscimento della propria uni-versalità; questi fini sono fini giuridici, tutti gli altri, ossia quelli che non riconoscono il potere storicamente divenuto e i suoi fini, sono fini naturali. Ed è proprio in questa statuizione/attribuzione di legittimità e legalità ai fini della volontà violentemente predominante, in questa distinzione e scissione dalle relative differenze che la violenza fondativa diventa e trapassa nella violenza conservativa.
In questa direzione, Benjamin ha incorporato irrevocabilmente la violenza nel diritto[12]. Il sistema giuridico è Gewalt: “Ogni violenza è, come mezzo (als Mittel), potere che pone o che conserva il diritto. Se non pretende a nessuno di questi due attributi, rinuncia da sé ad ogni validità. Ma ne consegue che ogni violenza come mezzo partecipa, anche nel caso più favorevole, alla problematicità del diritto in generale”[13]. In quanto als Mittel la violenza è connessa al diritto, l’ordinamento giuridico e i suoi istituti costituiscono quel nodo in cui le due dimensioni della violenza hanno, specularmente, lo stesso peso specifico: “La funzione della violenza nella creazione giuridica è, infatti, duplice nel senso che la creazione giuridica, mentre persegue ciò che viene instaurato come diritto, come scopo con la violenza come mezzo, pure – nell’atto di insediare come diritto lo scopo perseguito – non depone affatto la violenza, ma ne fa solo ora in senso stretto, e cioè immediatamente, violenza creatrice di diritto, in quanto insedia come diritto (als Recht), col nome di potere, non già uno scopo immune e indipendente dalla violenza, ma intimamente e necessariamente legato ad essa. Creazione di diritto è creazione di potere (Rechtsetzung ist Machtsetzung), e intanto un atto di immediata manifestazione di violenza”[14]. La Gewalt che riesce a dispiegarsi maggiormente fino alla propria affermazione, nell’istante in cui pone un ordine, infonde in quello stesso ordine la sua indelebile matrice violenta; il reale giuridico che viene costituito, lungi dal rompere i legami con l’immediatezza della sua derivazione, è realmente violento, vigenza intrinsecamente violenta in quanto violenza immediatamente prevalente. Rechtsetzung ist Machtsetzung: il creazionismo giuridico è visto da Benjamin come definizione di un continuum di Gewalt, affermazione dell’autodeterminazione della violenza che facendosi diritto determina se stessa e la propria salvaguardia come potere/forza. Le Rechtsformen sono sostanziate di Gewalt, il complesso legislativo è manifestazione di violenza così come la violenza ha nel potere la sua legge. La genealogia benjaminiana indica che ogni ordinamento giuridico presenta violenza: in primis in quanto fondato da un atto violento e in secundis in quanto sistema che legittima e legalizza la violenza necessaria alla propria conservazione, l’identità del diritto è il diritto d’Identità nel suo effetto erga omnes.


[1] Cfr. W. BENJAMIN, Schicksal und Character, cit., p. 38.
[2] Il termine Gewalt non significa soltanto “violenza” ma anche “autorità” e “potere”. Leggendo Benjamin è opportuno ricordare questa rosa di significati nonché la contiguità e la compenetrazione degli stessi. Su ciò si veda F. JESI, Esoterismo e linguaggio mitologico. Studi su Rainer Maria Rilke, Macerata 2002, p. 29, per il quale Gewalt va tradotto allineando “violenza”, “autorità”, “potere”, come se tali parole fossero pronunciate tutte d’un fiato.
[3] W. BENJAMIN, Zur Kritik der Gewalt, cit., p. 5.
[4] Ivi, p. 6.
[5] Cfr. M. TOMBA, La “vera politica”. Kant e Benjamin: la possibilità della giustizia, Macerata, 2006, pp. 214-216.
[6] W. BENJAMIN, Zur Kritik der Gewalt, cit., p. 6.
[7] Ivi, pp. 6-7.
[8] In Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen (1916-1917) Benjamin sostiene che ogni essere, evento, cosa animata o inanimata ha un proprio contenuto spirituale che viene comunicato nella lingua: “Che cosa comunica la lingua? Essa comunica l’essenza spirituale che le corrisponde. È fondamentale sapere che questa essenza spirituale si comunica nella lingua, e non attraverso la lingua. Non c’è, quindi, un parlante delle lingue, se con ciò s’intende che si comunica attraverso queste lingue. L’essere spirituale si comunica in e non attraverso una lingua – vale a dire che non è esteriormente identico all’essere linguistico. L’essere spirituale s’identifica con quello linguistico solo in quanto è comunicabile. Ciò che in un essere spirituale è comunicabile è il suo essere linguistico. La lingua comunica quindi, di volta in volta, l’essere linguistico delle cose, ma il loro essere spirituale solo in quanto è direttamente racchiuso in quello linguistico, solo in quanto è comunicabile”, W. BENJAMIN,  Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in GS, II, 1, tr. it., Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in ID., Angelus Novus, cit., pp. 54-55. Quello che l’essere spirituale ha da comunicare è il suo essere linguistico, nella lingua – e non mediante essa – si comunica l’essere linguistico dell’essere spirituale, l’essenza spirituale comunica tutta la sua comunicabilità nella lingua senza degradarsi in apparenza o declassarsi in una formalizzazione altra. In realtà la lingua comunica se stessa: “La lingua di un essere spirituale è immediatamente ciò che in esso è comunicabile. Ciò che in un essere spirituale è comunicabile è ciò in cui esso si comunica; vale a dire: ogni lingua comunica se stessa. O più esattamente: ogni lingua si comunica in se stessa, essa è – nel senso più puro – il << medio >> della comunicazione. Il mediale, cioè l’immediatezza di ogni comunicazione spirituale, è il problema fondamentale della teoria linguistica”, ivi, p.55. L’accostamento di immediatezza e Mediale indica che ciò che l’essere spirituale ha da esprimere è l’essere linguistico, ciò che l’essere spirituale esprime e comunica immediatamente è la lingua come mediale: pertanto la lingua è enérgheia e fluido dal senso intensivo. Ma Benjamin si spinge oltre: “Se l’essenza spirituale è identica a quella linguistica, la cosa è, nella sua essenza spirituale, medio della comunicazione, e ciò che in essa si comunica è – conforme al rapporto mediale – questo stesso medio (la lingua). La lingua è allora l’essenza spirituale delle cose. L’essenza spirituale è quindi posta a priori come comunicabile, o posta piuttosto nella comunicabilità stessa”, ivi, p. 58. L’identità tra essere spirituale ed essere linguistico estende la valenza della lingua portando il linguistico ad essere un a priori, o meglio l’identità delle due essenze costituisce un a priori come comunicabile; tutta l’attenzione va posta sulla comunicabilità, “non c’è contenuto della lingua; come comunicazione la lingua comunica un essere spirituale, e cioè una comunicabilità pura e semplice”, ivi, p. 59. Con tale mossa, secondo cui nella Sprache si comunica soltanto il puro comunicabile e che vede l’essere spirituale come comunicabilità stessa, Benjamin rifiuta e si pone agli antipodi di una concezione strumentale della lingua che la consideri mero artificio di un’intenzione soggettiva. A proposito della questione della lingua in Benjamin si vedano: R. WOLIN, Walter Benjamin. An Aesthetic of Redemption, New York 1982, pp. 31-48; G. AGAMBEN, Lingua e storia. Categorie linguistiche e categorie storiche nel pensiero di Benjamin e H. SCHWEPPENHÄUSER, Nome / Logos / Espressione. Elementi della teoria benjaminiana della lingua, entrambi in L. BELLOI – L. LOTTI (a cura di), Walter Benjamin. Tempo storia linguaggio, Roma 1983; B. MORONCINI, La lingua muta e altri saggi benjaminiani, Napoli 2000, pp. 11-34.
[9] W. BENJAMIN, Zur Kritik der Gewalt, cit., p. 8. Su questo punto si veda E. CASTRUCCI, Violenza, diritto e linguaggio in Benjamin<<Prassi e teoria>>, n. 1, 1979, pp. 249-250.
[10] Ibidem.
[11] Ivi, pp. 8-9.
[12] Cfr. tutto il saggio di U. FADINI, Il linguaggio del conflitto in Walter Benjamin<<Problemi della transizione>>, n. 7, 1981, che articola il discorso su una logica della contraddizione insita nell’istituzione giuridica.
[13] W. BENJAMIN, Zur Kritik der Gewalt, cit., p. 16.
[14] Ivi, p. 24.

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