mercoledì 7 marzo 2012

Antropologia della creatività: tra genericità e modalità

di Giacomo Pezzano (giacomo.pezzano@binario5.com; III di 3)

3. Im-piegare una regola per piegare la realtà ai propri scopi

Per Aristotele, è noto, la phronesis è decisiva nei casi «intorno ai quali è impossibile che una legge [nomos] sia posta, cosicché c’è bisogno di un decreto [psephisma]» (Aristotele, Etica Nicomachea, V, 10, 1137b 27-29), situazioni nelle quali l’ap-plicazione di una regola è un im-piego che piega la norma aprendola a nuovi usi, secondo il modello del regolo di piombo di Lesbo, che «si adatta alla forma della pietra, non sta rigido» (ivi, 1137b 30-32) ma si flette e si piega per meglio corrispondere all’imperfezione della contingenza, e questo perché «di ciò che è indeterminato [aoristou], è indeterminata [aoristos] anche la regola [kanon]» (ivi, 1137b 29) – per corrispondere a essa però sempre e comunque in maniera ortogonale, essendo la phronesis «disposizione pratica accompagnata da discorso corretto [orthos logos]» (ivi, VI, 5, 1140b 20). La regola dell’azione umana è proprio questa piegatura della regola attraverso l’im-piego, perché non c’è regola in grado di fornire allo stesso tempo tutte le condizioni necessarie e sufficienti per la sussunzione del caso particolare al di sotto di sé (cfr. Kant 1997: 3-67), «noi impariamo a conoscere le nostre forze soltanto col saggiarle [versuchen]» (ivi: 25) e la prassi umana avviene nel dominio di «ciò che può essere diverso da come è [to endechomenon allos echein]» (Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 5, 1140b 27) – è anzi l’apertura di un tale spazio di potenzialità.
Proprio questo spazio rende possibile – richiede – la creatività, proprio nell’atto di im-piego di una regola diventa possibile la sua trasformazione: non solo e non tanto la sua infrazione (l’infrazione della sua regolarità) quanto la sua ri-creazione, la creazione di una regola (la regolarità viene ri-pro-posta proprio tramite l’infrazione, l’eccezione conferma la regola nella sua regolarità, l’esser-regola della regola). Proprio perché l’attività artistica (latu sensu) riprende e imita un qualche kanon è possibile l’istituzione di un nuovo canone, proprio sfruttando lo spazio di indeterminatezza che caratterizza tanto l’agire quanto la norma preposta a guidare l’agire è possibile una modalizzazione della norma stessa che fa perno proprio su di essa e che può giungere persino a una ricreazione e reistituzione (cfr. Virno 2004: 24, 32 s. e 36). La creatività umana è «secondo regole» (Garroni 2010: 67), o perlomeno «sottoposta a una legalità generale» (ibidem): ciò manifesta che la libertà umana (diversamente da quella divina) non è mai as-soluta, sciolta da ogni vincolo e legame – l’uomo è costitutivamente relazionale (non-assoluto).
Pertanto «non è concepibile alcunché di inaspettato e degno di meraviglia, se non a partire da una fitta rete di regole o leggi» (Virno 2010(a): 15 s.), la creatività «non solo esige la presenza di norme, ma si manifesta unicamente nel corso della loro esecuzione» (ivi: 16), durante cui emerge come «nessuna regola dà ragguagli su come la si debba applicare in un singolo frangente» (ibidem): creativo può essere detto «l’attraversamento di quella di nessuno che si estende tra il contenuto di una norma e ciò che si fa o si dice nell’adempierla» (ivi: 17). Una regola «indica un certo ambito di applicazioni possibili e certe modalità di applicazione, ma non anche, sempre o in quanto regola generale, quale applicazione determinata e quale particolare modalità» (Garroni 2010: 106): più si fa ampia, «più deve essere “bravo” […], o appunto creativo, costruttivo, capace di adattamento, colui che è chiamato ad applicarla» (ivi: 153), ossia capace – ap-plicando(si) – di specificare e di modalizzare per particolarizzare e determinare la genericità di partenza. Per l’uomo sono sempre possibili «modi alternativi, possibili» (ivi: 108), è sempre possibile s-viare e di-vergere per innovare: la dimensione «tropica» dell’esistenza è proprio questo suo essere creativamente aperta, consegnata al possibile, all’alternativa, al virtuale, al nuovo e all’imprevedibile, alla de-vianza rispetto alla norma e alla via della consuetudine, che può però es-plicarsi solo tramite la ripetizione che batte la stessa via (ap-plicazione).
Non v’è per l’uomo «gesetzlose Willkür» (ivi: 109), ma sempre soltanto «interdipendenza tra creatività e legalità» (cfr. ivi: 133-138) – senza legalità la creatività è cieca, senza creatività la legalità è vuota: «se e solo se esiste (si può parlare di) legalità, esiste (ha senso parlare di) creatività e, naturalmente, viceversa» (ivi: 133). La legalità cui è consegnato l’uomo è sin ab origine genericamente connotata, stante il fatto che la dotazione genetica dell’uomo non solo richiede «una capacità di specificarla, di applicarla e di adattarla ai vari casi concreti» (ivi: 148), perché piuttosto tale capacità è addirittura «parte integrante» (ibidem) di tale dotazione, le conferisce senso e la rende utilizzabile. Solo a queste condizioni è possibile un comportamento non «unidimensionale» (ivi: 178), l’apertura di «uno sconfinato territorio di sperimentazione operativa» (ivi: 179).
Emerge un vero e proprio paradosso della regola, secondo cui «una regola non può determinare alcun modo d’agire, poiché qualsiasi modo di agire può essere messo d’accordo con la regola»[1] (RF: I, 201): «l’applicazione della regola al caso particolare dovrai farla tu, senza alcuna guida» (RF: I, 292), una regola vige «soltanto nell’applicazione che l’essere vivente ne fa» (RF: I, 454). La regola per l’uomo ha una struttura paradossale, non essendo univocamente determinata proprio in ragione della sua rigida struttura normativa ed essendo normativa proprio per la sua capacità di non valere sempre e per sempre una volta per tutte in ogni caso. Inoltre, l’ap-plicazione modale di una regola mette in mostra, esibisce, la regola in se stessa, la regolarità in quanto tale, persino nel caso in cui dovesse seguirla violandola, eccependola o sospendendola, come avviene letteralmente «tipicamente» nel caso dell’esempio paradigmatico, caso in grado di fungere da esempio del proprio accadere tramite la messa tra parentesi e la sospensione del proprio stesso ac-cadimento ac-cidentale (cfr. Agamben 2008: 11-34). L’applicazione di una parola «non è limitata dovunque da regole» (RF: I, 84), «tra una norma e la sua effettiva realizzazione sussiste uno iato duraturo, anzi una vera e propria incommensurabilità» (Virno 2004: 25 – un abisso: cfr. RF: I, 431 e 433), corrispondenti allo iato biologico della libertà (cfr. Gehlen 2010) e al carattere «diagonale» costitutivamente finito, potenziale, aperto e imprevedibile dell’esistenza (cfr. Chiurazzi 2011(b): 69; 2009: 223-322), caratteri che aprono all’esposizione etero-referenziale, all’apertura relazionale all’esterno, alla contaminazione con l’alterità (ecco perché se «‘seguire la regola’ è una prassi», allora non si può farlo «‘privatim’: altrimenti credere di seguire una regola sarebbe la stessa cosa che seguire la regola»: RF: I, 202)[2]. Per questo, Wittgenstein poteva scrivere:

una regola sta lì, come un indicatore stradale. – Non lascia adito ad alcun dubbio circa la strada che devo prendere? Mi dice in quale direzione devo procedere quando l’ho oltrepassato? Se devo proseguire per la strada, o prendere per il viottolo, o andare attraverso i campi? Ma dove sta scritto in quale senso devo seguire quel segnale? Se devo andare nella direzione indicata dal dito o non piuttosto (per es.) nella direzione opposta? – E se invece di un indicatore stradale ci fosse una fitta successione di indicatori o di segni di gesso sulla superficie stradale, ci sarebbe per essi una sola interpretazione? (RF: I, 85).

Se anche venissero moltiplicate le regole per rendere possibile un’applicazione univoca (ossia, in senso stretto, per non richiedere nessuna applicazione), resterebbe comunque aperta la questione su «come può una regola insegnarmi che cosa devo fare a questo punto?» (RF: I, 198), ossia circa il modus applicandi della regola, perché paradossalmente «le mie azioni» sembrano non avere nulla «da spartire con l’espressione della regola» (ibidem). Infatti, da un lato «seguire una regola è analogo a: obbedire a un comando» (RF: I, 206), ma dall’altro lato «si viene addestrati a ubbidire a un comando e si reagisce a esso in una maniera determinata. Ma che dire se uno reagisce al comando e all’addestramento in un modo, e un altro in un altro modo? Chi ha ragione?» (ibidem). Generalmente, si può seguire e si segue «il modo di comportarsi comune agli uomini e il sistema di riferimento» (ibidem) più intuitivo e immediato (ossia agendo quasi «ciecamente» e «per istinto» – cfr. RF: I, 219), che altro non è a ben vedere che il fatto stesso dell’esistenza di una regola, quella regolarità insita in ogni regola che fa sì che si segua una regola proprio soprattutto quando non si sa bene il modo in cui comportarsi.
Sempre Wittgenstein, poteva descrivere l’uomo, coerentemente con quanto sin qui detto, come «animale cerimoniale» (cfr. Wittgenstein 1975), come animale «rituale», animale che ripete, il cui «fare» ha la forma del «rifare» e la cui «presa» sul mondo ha la forma della «ripresa» (cfr. Mazzeo 2006), ossia – generalizzando – la cui azione ha la forma della reazione che ripete e ri-pro-pone per porre aprendo al futuro, per pro-porre. Perciò, «lungi dal collocarsi al di sopra o al di fuori delle norme, la creatività umana è addirittura subnormativa: si manifesta, cioè, nei sentieri laterali e impropri che ci capita di inaugurare mentre ci sforziamo di attenerci a una norma determinata» (Virno 2004: 13 s.). Come a dire che l’anormalità si manifesta attraverso la normalità, esibendo la normatività intrinseca a qualsiasi norma, tanto che «in ogni applicazione di una regola è incuneato un frammento dello stato di eccezione» (ivi: 32) rispetto alla regola stessa, vale a dire che «vi è sempre un momento, nella realizzazione concreta di una norma, in cui si regredisce al di qua della norma» (ibidem). Proprio in quel momento è aperto lo spazio della creatività, che nell’uomo dunque non si limita «a prescindere da un’eventuale norma» (Cimatti 2004: 41), anzi pretende «di istituirla, secondo l’etimo del termine “autonomia”» (ibidem). Creare significa così prima di tutto non tanto attenersi meglio di altri alle regole ubbidendovi, quanto dettare delle nuove regole, dar vita a un nuovo paradigma, che però a sua volta – in quanto umano – istituisce insieme al condizionamento anche la possibilità di avere un punto di appoggio verso un nuovo slancio e un ulteriore superamento, sempre perché «una regola non dà ragguagli di sorta sul modo in cui deve essere applicata in un caso particolare» (Virno 2010(b): 49). Come già visto, dunque, tra la norma e la sua effettiva realizzazione si inserisce «uno iato incolmabile, una terra di nessuno il cui attraversamento, non di rado gravato dall’incertezza, è sempre soggetto a deviazioni impreviste» (ibidem), così che «a partire dal medesimo contenuto normativo sono possibili, in linea di principio, azioni assai dissimili, talvolta addirittura opposte» (ibidem).
Tutto ciò significa anche che l’intelligenza creativa umana (cfr. Dewey 2009: 82) è in grado di riconoscere persino delle situazioni «emergenziali» in cui «il modo giusto di applicare la regola è non applicarla» (De Carolis 2004: 107 s.): non perché l’uomo sarebbe stato «addestrato» a tale riconoscimento, ma proprio in ragione dell’assenza di qualsiasi forma di addestramento rigoroso (cfr. ivi: 108). Il rapporto che l’uomo intrattiene con la regola è dialettico e perciò aperto alla creatività: l’uomo nei confronti della regola può compiere e in certa misura compie sempre un’Aufhebung, che «conserva» ed «eleva» non solo e non tanto il contenuto della regola, quanto la sua forma, la sua regolarità, aprendo così al «superamento» e al «levamento» del contenuto stesso, che rendono possibile la creazione di un contenuto nuovo, di una nuova regola. Quella «sintonia intuitiva» (ivi: 123) che permette all’uomo di far fronte all’eccezione non va dunque interpretata come il «possesso di un sapere enciclopedico sul mondo, visto che spesso ciò che dà senso, nel profondo, al nostro agire ci è del tutto ignoto» (ibidem), quanto piuttosto come ciò che dipende «dal modo d’essere della persona interessata, da uno stile di vita ovvero un modo generale di rapportarsi al mondo, che forse si svela per la prima volta in questa emergenza inattesa, sorprendendo anche il diretto interessato» (ibidem). L’uomo è così in grado di rendere produttiva la mancanza, di tradurre cioè quell’incompletezza e quella limitatezza che connotano la sua apertura al mondo in «spinta che può far emergere un ordine nuovo» (ivi: 109), sfruttando quello «scarto tra esecuzione e competenza» (ivi: 110) che è paradossalmente la condizione per la «comprensione di una regola» (ibidem), cioè per la presa di distanza da essa al momento della sua applicazione (per l’afferramento del suo Als).

Conclusione. Una creatività generica per una natura generica: il logos simbolico

La tesi conclusiva che propongo è che stante la più volte ricordata base generica della creatività umana e stante il fatto che parlare di creatività significa parlare di imprevedibilità e di pluridimensionalità, essa va a sua volta intesa in termini generici. Spesso infatti, in filosofia si è accentuata soprattutto la dimensione «artistica» in senso stretto della creatività (del genio pittorico, scultoreo, musicale e poetico in particolare), o anche – in particolare nel secolo scorso – quella «linguistica», ma non si è prestata adeguata attenzione al fatto che se è vero che parlare di creatività significa parlare di natura umana (di umanità), allora non ha senso privilegiare una modalità di specificazione e di determinazione di tale natura: non c’è un atto creativo di per sé privilegiato o privilegiabile tra tutti quelli che esprimono e declinano la generica creatività dell’uomo.
Occorre, cioè, passare a una concezione manieristica della creatività: si è creativi in diversi modi e in svariate maniere, la creatività coincide proprio con questa capacità di innovare in svariate modalità e seguendo strade imprevedibili. Heidegger, che, com’è noto, ha dato particolare risalto all’opera d’arte e al sagen poetico, riconobbe che «la verità si storicizza in poche maniere essenziali» (Heidegger 1968: 40) di modo che «l’esser opera dell’opera» (ibidem) è solo «una delle maniere in cui la verità appare» (ibidem) e che «la bellezza è una delle maniere in cui è-presente la verità» (ivi: 41), «eine Weise» in cui un mondo si apre facendosi al contempo terra (ossia: la generica e potenziale Weltoffenheit prende una forma determinata e specifica, si struttura in una nicchia che non è però mai definitiva)[3]: laddove c’è verità e c’è storia (cioè, anche per Heidegger, laddove c’è Dasein) c’è pluralità di modi, esuberanza manieristica, una sorta di promiscuità ontologica, quasi un barocchismo dell’essere (cfr. Deleuze 2004). Possono così esservi, accanto alla spesso celebrata creatività «artistico-estetica», creatività tecnica (cfr. p. e. Arthur 2011), artigianale (cfr. p. e. Sennett 2008), economica (cfr. p. e. Schumpeter 2001; 2002), politica, identitario-soggettiva[4], religioso-rituale, ludica, scientifica (cfr. p. e. Cesa Bianchi-Cristini-Giusti 2009), matematica (cfr. p. e. Cellucci 1995; 2000; 2003; 2005), dell’inconscio (cfr. p. e. Ansermet-Magistretti 2008; Deleuze-Guattari 1975), filosofica (cfr. p. e. Casati 2011; Deleuze-Guattari 2002), ecc. Tutte sempre forme di creatio non ex nihilo.
La creatività, concludendo, è qualcosa di «trasversale» (per esempio, un gesto artistico può essere anche politico): creatività forse significa proprio «mescolare» e «ibridare» campi ed esigenze diverse per generare qualcosa di nuovo, qualcosa che mette a contatto ambiti differenti elevandoli per superarli e superandoli per elevarli. L’emblema della creatività così intesa può forse essere trovato, ancora una volta, in quel logos che sin dagli albori della riflessione filosofica viene associato alla physis umana: il logos, infatti, non è soltanto ontologico («ragione oggettiva» delle cose), epistemologico («ragione umana» che conosce la verità delle cose), matematico («rapporto» e «proporzione numerica») o discorsivo («linguaggio» e «dialogo»), ma anche politico («relazione» che connette per dar vita a «ordine comune»), sociale («equità», «reciprocità» e «misura» che consentono «uguaglianza» e «giustizia») e artistico («armonia», «simmetria» ed «equilibrio» di ordine e bellezza cosmici). Anzi, logos è forse proprio punto di incontro tra tutte queste dimensioni, è parola che sim-bolicamente con-tiene il loro reciproco movimento di origine-divaricazione tramite relazione: che l’uomo sia animale creativo, infine, significa – nuovamente – che è zoon logon echon, ma anche – seguendo Heidegger e l’orizzonte antropologico qui prospettato – che è il logos stesso (come kinesis della physis) a «dotarsi» dell’anthropos[5].

[1] Da Wittgenstein 1974 (d’ora in poi RF, parte, paragrafo); cfr. anche De Carolis 2006.
[2] Cfr. anche RF: I, 203-311.
[3] Cfr. De Carolis 2008.
[4] Cfr. p. e. Deleuze 2000: 123-135 e 151-158; 2002: 125-162; Di Stefano 2010; Foucault 2003; Sloterdijk 2010.
[5] Accostando visibile e physis e parlando del linguaggio come di ciò che possiede l’uomo, Merleau-Ponty nota che «si deve descrivere il visibile come qualcosa che si realizza attraverso l’uomo, ma che non è affatto antropologia […] la Natura come l’altro lato dell’uomo […] il Logos come realizzantesi anch’esso nell’uomo, ma non come sua proprietà» (Merleau-Ponty 2009: 285).

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