mercoledì 21 dicembre 2011

La scoperta del "Trono della Grazia" di Vrancke van der Stockt

di Francesco Barresi (ruutura@hotmail.it)


L’opera d’arte finisce lì dove iniziano le nostre domande. Ogni buon critico, dilettante o professionista, lo sa: l’opera d’arte senza l’ausilio delle parole dice poco o nulla. Restano solo le immagini e loro, assise nel loro universo, restano mute alle nostre domande. Chi non ha mai desiderato che un quadro o una scultura parlasse, che rispondesse a tutte le nostre domande insolute? Solo la forza della ricerca può compiere questo cammino, beninteso. Tutte le forze argomentative della ragione e dell’intuito dovranno prestarsi a questo compito.
L’analisi è solo un punto di partenza e la critica il processo che si sviluppa nel dubbio metodico: ciò che conta è un’analisi storica, comparata e scientifica dell’opera.
Tale metodo ha visto impegnati due grandi personalità della città di Caltagirone: il prof. Giacomo Pace e l’architetto Belvedere. Un quadro, anzi, i suoi enigmi hanno permesso di fare incontrare queste due personalità nella comune ricerca di possibili vie di interpretazione ma, soprattutto, di aggiornamento, di svecchiamento, di presa di coscienza dell’antico per scardinarlo nella luce del nuovo e del più vero sentire. Per restituire nuovi dubbi e nuove verità.
L’opera inquisita è la Trinità di Rogier Van der Weyden (1399-1464) della chiesa di S. Giorgio(1). In questa ricerca ha avuto un peso decisivo la "Società calatina di Storia Patria e Cultura" di Caltagirone(2). Il quadro, secondo la consueta didascalia:
“rappresenta il mistero della Trinità sospesa sull'universo. L'opera apparteneva alla nobile famiglia Interlandi di Caltagirone e fu poi donata alla parrocchia di San Giorgio dalla baronessa Agata Interlandi. Si tratta della tavola più preziosa custodita nelle chiese calatine”(3).
I nostri studiosi mettono in discussione fin da principio il titolo. Perché Trinità? E poi chi fu a donarlo? Chi lo portò a Caltagirone? È veramente di Rogier van der Weyden? Queste le domande principali che hanno animato l’interesse dei ricercatori.
Sappiamo che l’opera venne donata dalla baronessa Agata Interlandi della Favarotta nel 1783, la quale ordinò che fosse esposta nella chiesa di S. Giorgio con l’ordine di nobilitarla con cornici, di farla pulire e di dotarla di un cristallo per la pubblica esposizione. I dubbi interessano il titolo,  il motivo iconografico e la sua fortuna, perché in molti altri artisti rinascimentali come Campin(4) (maestro di van der Weyden) e Quentin Metsys notiamo che lo stesso motivo è variamente ripetuto. I personaggi rappresentati sono Dio Padre, Gesù, Lo Spirito Santo, i due Arcangeli Gabriele e Michelangelo (uno con il giglio, l’altro con la spada), la Maddalena Maria e S. Giovanni. Ma arriviamo al punto cruciale. Hulin De Loo fu un esperto critico dell’arte fiamminga e credette che alcune opere di Weyden fossero state confuse con quelle di Vrancke van der Stockt (1420-1495). Quando visitò la Chiesa di S. Giorgio di Caltagirone trovò confermata la sua ipotesi. Il critico Giovanni Carandente nel 1968 pubblica un volume sul Serpotta e la pittura fiamminga del Quattrocento in Sicilia, quotando appieno l’ipotesi di Hulin de Loo ed esaminando le opere di van der Stockt. Conclusione: non può essere di van der Weyden, è sicuramente di van der Stockt. L’aspetto inquietante della vicenda è il seguente: le interpretazioni di Carandente e Hulin de Loo erano bastate a fugare ogni dubbio ma nel loro girovagare silenzioso nella città della ceramica gli studiosi non avevano avuto modo di informare le autorità competenti delle loro mirabili intuizioni. Pertanto oggi tutto il mondo degli studiosi d’arte, fiamminga in particolare, sa che l’opera è sicuramente di Vrancke van der Stockt ma comunemente la si attribuisce ancora a Rogier van der Weyden! A conferma che la paternità dell’opera sia di van der Stocke vi sono anche altri importanti indizi. Ad esempio, il dipinto misura 68,1 x 99,7 cm. Un’opera piccola tutto sommato, ma se verifichiamo il loro rapporto vediamo che si basa su un numero: 1,618, il famoso numero aureo. Questo è un indizio chiarissimo: l’opera è strutturata secondo principi e figure geometrici, quindi porta avanti un’idea di perfezione e simmetria che non era data prima di van der Stockt.
Questo e altro ancora nel lavoro pubblicato dal professore Pace e l’architetto Belvedere. Attraverso un’interessante indagine storica (che passerà dal nome della famiglia Interlandi alla famiglia Santapau di Licodia) fino alla ricostruzione microanalitica del quadro (ricercando le più intime contraddizioni e somiglianze con altre opere), i nostri critici sono riusciti non solo a presentare l’opera sotto un aspetto inedito ma a porre continui interrogativi, lasciando in sospeso tutte le certezze, al vaglio della critica.
La ricerca della verità non è mai compiuta ma è sempre approssimativa e sfuggente. Ma più che angosciarci dovremmo rallegrarci di tutto ciò, perché proprio questa imperfezione è garanzia di salvezza. La ricerca è solo un punto fermo di una lunga catena che ancora dovrà e potrà continuare con l’ausilio, il tempo, la voglia, la passione di chi indaga gli angoli bui di tutte le domande che ogni quadro ci dà. 

1) Oggi l’opera è stata traslata nel Museo Diocesano di Caltagirone.
2) Il prof. Pace e l’architetto Belvedere sono infatti due dirigenti della stessa.
3) Vedi comunicato stampa del Comune di Caltagirone del giornalista Messineo in data 26 Ottobre 2011.
4) Vedi Throne of Grace, from Flemalle Altarpiece, 1430-4, 15c N.Renaissance.

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