venerdì 24 giugno 2011

Un "tableau vivant": le maschere dell’inferiorità

di Erwin de Greef (erwindegreef@libero.it)

In Madame Chrysanthème, il narratore descrive, racconta la gente di Nagasaki – e i giapponesi in generale – come fossero curiosità antropologiche, assimilabili alle curiosità zoologiche di un Altrove da osservare con occhio scientifico. Il romanzo di Pierre Loti assomiglia a un tableau vivant di storia naturale sul quale è cicatrizzata l’impronta razzista del Bianco a discapito del destino sociale dell’Altro. Nel leggere questa storia – affascinante sotto molteplici aspetti – ci si rende conto che è cesellata – ornata, avrebbe scritto l’autore – con molte imbarazzanti similitudini, comparazioni, identificazioni, allegorie tra il mondo animale e la gente del luogo. Di conseguenza, come dimostreremo, non si può essere d’accordo con Quella-Villéger quando afferma: 

Il suffit d’ailleurs de rechercher chez Loti sa définition de la “race” pour concevoir qu’elle n’était pas forcément celle de ses contemporains […]. Loti n’a pas le chauvinisme colonial d’un Louis Bertrand qui juge les indigènes algériens supérieurs aux fellahs égyptiens, le tout inférieur aux Blancs bien entendu. Il ne propose pas de hiérarchie structuré, à la rigueur une limite floue entre population traditionnelle, dite primitive ou sauvage, et moderne, sans pour autant mésestimer les civilisations qu’elles ont pu produire. Il ne propose pas de critères raciaux physiques, sa conception du temps le conduisant plutôt vers les générations passées, l’historie, les traditions comme ciment d’un peuple. En revanche, on peut voir chez lui un certain antidarwinisme; il frissonne à l’idée qu’un trait d’union pourrait être trouvé entre l’homme et le singe, mais se lasse séduire par la métempsycose, allant jusqu’à accorder une âme aux animaux.(1)

Già analizzando il personaggio centrale di Kikou-San, abbiamo avuto modo di studiare quanto il disprezzo e l’arroganza del mondo occidentale – quello di Loti – si sia accanito sull’Altro. Accanimento che, per certo, si moltiplica, in una sorta di gioco degli specchi, verso tutti gli altri personaggi, in un modo o nell’altro protagonisti della storia, e anche sullo sfondo umano e sociale del Giappone tardo ottocentesco. Come suggerisce Beryl Rowland, richiamato nello studio di Elio Di Piazza, L’avventura bianca, le raffigurazioni di animali nel romanzo del tardo Ottocento sono espressioni residuali di una tradizione simbolica. Valutazioni estensibili al romanzo d’avventura e, per quel che ci è dato osservare, anche al romanzo esotico o orientalista: 

Le raffigurazioni di animali nel romanzo d’avventura, si dimostravano particolarmente efficaci non soltanto perché mostravano una parte sconosciuta del regno zoologico, ma pure a causa della manifesta allusività dei riferimenti.(2)

Gli animali antropomorfi del romanzo di Loti testimoniano la caducità del confine tra realtà zoologica e sociale. Un’interpretazione anche dal contenuto allegorico, che ha una precisa funzione pedagogica. In altri termini, sul palcoscenico, tanto ben organizzato e raccontato da Loti, il giapponese non è più un essere umano, ma un soggetto esotico, una fantasticheria, da ridurre alla condizione del mondo animale. Come scriveva Gustave Le Bon, le razze non sono tutte uguali, dotate degli stessi diritti. Tutt’altro, i Bianchi sono gli uomini; l’Altro è un animale, un soggetto inferiore, un agnello sacrificale da rappresentare sull’altare delle scienze e della storia come una bestia. Non solo, all’interno di questo meccanismo, c’è anche una sorta di graduatoria in cui il Giapponese non vale – sembra essere questo il termine appropriato – un Turco. È, quello di Loti, un furore che lascia il lettore impressionato. In tal senso, la prima descrizione del Giappone, di Nagasaki, è del tutto significativa: 

Oh! le singulier Japon entrevu ce jour-là, par l’entrebâillement de ces toiles cirées, par-dessous la capote ruisselante de ma petite voiture! Un Japon maussade, crotté, à demi noyé. Tout cela, maisons, bêtes ou gens, que je ne connaissais encore qu’en images; tout cela que j’avais vu peint sur les fonds bien bleus ou bien roses des écrans et des potiches, m’apparaissant dans la réalité sous un ciel noir, en parapluie, en sabots, piteux et troussé.(3) (M. C., p. 57) 

Questo sguardo d’insieme è davvero scioccante per il lettore di oggi. Era invece un motivo di formazione, di educazione, per il lettore contemporaneo a Loti. Alla stregua degli altri autori della letteratura colonialistica ed esotica, Loti con Madame Chrysanthème andava ad arricchire l’archivio – la funzione testuale popolare di cui scrive Edward Said – di figure d’animali riconoscibili come rappresentazione dell’Altro e dell’Altrove. Le descrizioni dell’Oriente, degli animali e delle piante, del clima e di tutto quello che cadeva sotto lo sguardo del narratore rappresentavano la geografia – territoriale e umana – di un continuum sconosciuto e per questo fascinoso e pauroso. In ogni modo, a nostro avviso, il romanzo di Loti va oltre, sfonda, in un certo qual senso, la pagina scritta per porsi sul piano ideologico del confronto tra mondo civile e selvaggio: 

La città periferica presentata nei romanzi d’avventura del secondo Ottocento, aveva le caratteristiche di un luogo selvaggio occupato da un popolo di ibridi; una città abitata da uomini e bestie, che si mescolavano in un corteo indolente di maschere dell’inferiorità. (E. D. P., p. 171) 

Le immagini antropomorfiche di Madame Chrysanthème attingevano a varie fonti. È lo stesso io narrante che costantemente, nella scrittura del testo – con intenzione autoreferenziale, al proprio sistema di relazioni culturali e, di rimando, didattica – si rifà all’esotismo testuale, che (come abbiamo avuto modo di argomentare, in altra sede, con Said) lo è in un duplice livello. Da una parte, abbiamo la letteratura popolare con i suoi romanzi, i racconti, le poesie, che descrivono mondi immaginifici. Dall’altra, c’è la testualità accademica, quella dei tanti Renan, che organizza sul piano epistemologico l’universo dell’Altro e dell’Altrove. C’è di più, nel romanzo di Pierre Loti è costante il riferimento a una letteratura scritta negli oggetti che, già allora e da almeno un paio di decenni, arricchivano e ornavano le case dei francesi. L’esotismo dispiegava la sua arroganza attraverso i parafuochi, le tazze, i dipinti dell’Oriente, le non originali stanze dette alla giapponese. Lo faceva attraverso una comunicazione verbale non iscritta – quel che oggi definiamo, il passa parola – nei codici della scienza e della letteratura: “C’est que je suis moins naïf en japonerie qu’on ne pourrait le croire. Des amis qui reviennent de cet empire m’ont fait la leçon […]”.(4) (M. C., p. 56) 
Per colmare il vuoto inevitabile, in quel momento storico e socio-culturale, di una lettura autentica del mondo Altro, Pierre Loti si rifà continuamente a parallelismi, comparazioni con elementi a lui, e ai suoi lettori, simili. Così lo samisen che la giovane musmé suona con tanta competenza e passione, è detto dall’io narrante una chitarra dal manico lungo, un mandolino. Solo alla fine in un moto di comprensione, di distacco dall’ipocrisia del colonizzatore, lo definirà col suo vero nome, quello originale, intraducibile, ma rappresentabile appunto. Lo stesso vale per i “giovanotti”, che incontra nella casa di appuntamenti (per l’incrocio delle razze), il Giardino dei fiori

Oh! le spectacle singulier: évidemment de jeunes élégants de Nagasaki en train de faire la grande fête clandestine! Dans un appartement aussi nu que le mien, ils sont là une douzaine assis en rond par terre; longues robes en cotton bleu à manches pagodes, longs cheveux gras et plats surmontés d’un chapeau européen de forme melon; figures niaises, jaunes, épuisées, exsangues. A terre, une quantité de petits réchauds, de petites pipes, de petits plateaux de laque, de petites théières, de petites tasses; – tous les accessoires et tous les restes d’une orgie japonaise ressemblant à une dinette d’enfants.(5) (M. C., p. 62) 

Fin qui è tutto riconoscibile per Loti, si tratta di giovani giapponesi, che, come tra breve farà lui stesso, si abbandonano a un’orgia esotica. Poi, il suo sguardo si posa sulle tre geishe che danzano per i loro ospiti. Le descrive con minuzia da scienziato. La sua libido è già in esaltazione, una di quelle donne potrebbe essere la sua amante di Nagasaki. Poi, una di loro si volta e l’io narrante ne è sconvolto. Ancora una volta, nello scoprire l’Oriente non narrato dall’Occidente, il suo animo, la sua mente, si esaltano. Questa volta, Loti si spaventa – è davvero davanti a qualcosa di nuovo che richiede del tempo per essere compreso, codificato, imparato, trasformato e rappresentato – per riaversi subito dopo perché comincia a capire: 

Oh! quelle épouvante quand elle se retourne! Elle porte sur la figure le masque horrible, contracté, blême, d’un spectre ou d’un vampire… Le masque se détache et tombe… Elle est un amour de petite fée, pouvant bien avoir douze ou quinze ans, svelte, dejà moquette, dejà femme – vêtue d’une longue robe de crépon bleu nuit, ombré, avec une broderie représentant des chauves-souris grises, des chauves-souris noires, des chauves-souris d’or… (6).  (M. C., p. 63) 

Lo sforzo ermeneutico dell’io narrante è evidente – anche attraverso un’iterazione di segni grafici esclamativi e vere e proprie esclamazioni, che segnano l’inizio della narrazione di un qualcosa di nuovo, stupefacente. In quelle parole, in quelle descrizioni, si avverte lo stridere della punta della penna sulla carta. Non c’è niente di automatico, di saputo, di conosciuto, di assimilato in quelle descrizioni. Gli uomini stanno lì a gongolare per lo spettacolo che stanno pagando. A loro volta, le donne poco più che bambine, le geishe, cantano, danzano, sono vestite di maschere. Sono donne estremamente interessanti. Ma chi sono? La risposta non può che arrivare da M. Kangourou (ma sono degne di attenzione anche la risposta e la conseguente riflessione del protagonista): 

– Non, Missieu, non! Ce sont des Guéchas, Missieu, – des Guéchas
– Eh bien, mais, pourquoi donc pas des Guéchas? Qu’est-ce que cela peut me faire, à moi, qu’elles soient des Guéchas? – Plus tard, quand je serai mieux au courant des choses japonaises, peut-être apprécierai-je moi-même l’énormité de ma demande: on dirait vraiment que j’ai parlé d’épouser le diable…(7) (M. C., p. 67) 

È interessante, importante, continuare a spulciare il testo di Loti per andare alla ricerca del suo universo esotico, da archiviare e collezionare nel museo privato di Rochefort. Da subito, non appena stabilito il contatto con l’Altro e l’Altrove, il narratore è vinto da una curiosità incontenibile, una sorta di febbre delirante che lo spinge ad abbattere ogni possibile barriera. In Madame Chrysanthème: “ogni venditore s’accoccolava come una scimmia” (capitolo II), “una decina d’esseri strani […] – specie d’istrici umani, ognuna delle quali trascina una cosa grande e nera […]” (capitolo III), la geisha è “una falena” e “una farfalla” con occhi “di gattina timida” (capitolo III), Jasmin “è troppo bianca” il protagonista desidera “una gialla” (capitolo IV), le donne che accompagnano Pierre e Yves sono “i nostri cagnolini ammaestrati” (capitolo XII), la casa dei signori Zucchero e Pruno ha “un odore intimo di Giappone, di razza gialla” (capitolo XXV), gli operai che lavorano indefessi alla Trionphante hanno “un’aria miserabile, furtiva e frettolosa che fa pensare ai topi” (capitolo XXXI), gli uomini con i cappelli a bombetta hanno “bruttezze allegre di scimmie ammaestrate” (capitolo XXXIV), ci sono “vecchie donne molto scimmiesche” (capitolo XL), le musmé “sbucano dai loro rifugi, come sorci” (capitolo XLVIII). Per concludere, nel capitolo LIII, Pierre Loti, volendo lasciare una sintesi del popolo giapponese scrive, (a futura memoria), un epitaffio che se, da una parte, come sostiene Quella-Villéger, può farci capire quanto l’autore sia stato un antidarwiniano perché l’Uomo, il Bianco, non può discendere dalle scimmie, dall’altra, ci rende consapevoli di quanto sia stato un socialdarwiniano perché l’Orientale può discendere dalle scimmie perché non è un Uomo: 

A l’instant du départ, je ne puis trouver en moi-même qu’un sourire de moquerie légère pour le grouillement de ce petit peuple à reverences, laborieux, industrieux, avide au gain, entaché de mièvrerie constitutionnelle, de pacotille héréditaire et d’incurable singerie…(8) (M. C., p. 229) 

Non è finita qua, Loti riesce a sacrificare sull’altare del suo esotismo anche i bambini. D’altronde nel saggio “Some Japanese Bogie-books”, Andrew Lang aveva scritto che, nelle nursery inglesi (e per estensione in quelle di tutti gli europei) si recitava questo ritornello: “I thank my stars that I was a little British child”(9). L’io narrante non ha difficoltà ad ammettere di ammirarli. Certi sono anche adorabili, ma purtroppo (per loro) crescendo perdono quella grazia: “[…] pour devenir la grimace vieillotte, la laideur sfuriante, l’air singe?...”(10). (M. C., p. 155) E ancora oltre, siamo nel capitolo XXXVIII, facendo riferimento alla sua musmé, in un momento d’intimità, pensa: 

Une Japonaise, dépourvue de sa longue robe et de sa large cinture aux coques apprêtées, n’est plus qu’un être minuscule et jaune, aux jambes torses, à la gorge grêle et piriforme; n’a plus rien de son petit charme artificiel, qui s’en est allé complètement avec le costume.(11) (M. C., p. 166) 

Il popolo tutto del Giappone, passato al setaccio, dai più piccini agli anziani, dalle donne agli uomini, non riusciva a togliersi di dosso le vesti dell’animale, dell’essere inferiore, dell’essere di nessun conto. Il popolo dell’Oriente finiva per rimanere incastrato nel bestiario coloniale di matrice occidentale. Ogni singolo capitolo di Madame Chrysanthème restituiva e restituisce al lettore le immagini di vita quotidiana. Come per il Kipling de The Jungle Books, nelle descrizioni degli animali, Loti segue due strade: 

[…] quella del confronto col presente e quella archetipica. Nel primo caso l’animale veniva rappresentato nella propria alterità, incarnazione dell’Altro; nel secondo, come emblema del comportamento umano, prova ontologica di una tesi morale. (E. D. P., p. 191) 

Nell’universo basso mimetico di Pierre Loti, ogni personaggio, o gruppo di personaggi, era l’espressione di un determinato momento – mi si passi il termine, considerata l’esposizione per “quadri” dell’opera – della società giapponese. I piccoli commercianti di cianfrusaglie erano l’anima mercantile del Giappone. Gli operai che lavoravano sulla Trionphante erano i fautori di un futuro economico sempre più importante. Le geishe erano la sintesi di una tradizione in declino, o quantomeno concretamente minacciata dall’apertura al progresso dell’Imperatore Meiji. Il signor Kangourou era il filtro per penetrare nei misteriosi e fascinosi meandri del sollazzo indigeno. I poliziotti del distretto erano i controllori attenti e burocratici del sistema sociale. La moltitudine delle persone per le strade erano lo specchio proteiforme della società. Il povero “415”, specchio rovesciato del giovane Loti, era la persona da ammirare perché erano tali tutti quelli che lottavano per conquistare un futuro migliore. “415” è sotto questo aspetto il Loti giapponese (certo, senza avere la schiena dell’istrice): 

Pauvre cousin 415, j’avais bien raison de l’avoir en estime: il est le meilleur et le plus désintéressé de ma famille japonaise. […] C’est à lui, la seule poignée de main que je donne vraiment de bon cœur, sans un arrière-sourire, en quittant ce Japon. 
Sans doute, dans ce pays comme dans bien d’autres, il y a plus de dévouement et moins de laideur chez les êtres simples, adonnés à des metiers physiques.(12) (M. C., p. 229). 

Nel suo testo, Pierre Loti racconta l’organizzazione sociale di un popolo non progredito e, con la forza delle scienze, subordinato al Bianco, dentro uno spettro di vita zoologica, in grande fermento perché caotico. Lo spazio della colonia non è cancellato ma reso inferiore, suggerisce Di Piazza. Era, si trattava, di uno svolgimento di cui i giapponesi come i colonizzati sperimentavano l’effetto paralizzante. Come mette bene in evidenza Franz Fanon: 

L’imposizione del regime coloniale non comporta di per sé la morte della cultura autoctona. Anzi, da un esame storico emerge che l’obiettivo voluto non è tanto la sparizione totale della cultura preesistente quanto la sua agonia prolungata. Questa cultura che una volta era viva e passibile di sviluppi, si chiude, atrofizzata nello statuto coloniale, stretta nella morsa dell’oppressione. Il suo persistere in forma mummificata costituisce una testimonianza contro i colonizzati, li qualifica irrevocabilmente. La mummificazione della cultura produce quella del pensiero individuale. (cit. in E. D. P., p. 208) 

1) Quella-Villégar A., Pierre Loti, le pèlerin de la planete, Édition Aubèron, 2005, p. 296. 
«È sufficiente d’altronde ricercare in Loti la sua definizione della “razza” per capire che essa non era per forza quella dei suoi contemporanei […] Loti non possiede lo sciovinismo coloniale di un Louis Bertrand che giudica gli indigeni algerini superiori ai fellah egiziani, tutti inferiori ai Bianchi ben inteso. Egli non propone delle gerarchie strutturate, un rigoroso limite tra popolazione tradizionale, detta primitiva o selvaggia, e moderna, per quanto senza disistimare le civilizzazioni che esse hanno potuto produrre. Egli non propone dei criteri razziali fisici, dato che la sua concezione del tempo lo conduce piuttosto verso le generazioni passate, la storia, le tradizioni come cemento di un popolo. Di contro, possiamo vedere in lui un certo antidarwinismo; egli rabbrividisce all’idea che un legame potrebbe essere trovato tra l’uomo e la scimmia, ma si lascia sedurre dalla metempsicosi, arrivando ad accordare un’anima agli animali». 
2) Di Piazza E., L’avventura bianca, Adriatica Editrice, Bari, 1999, p. 169. 
3) «Oh! che Giappone singolare intravidi quel giorno, dallo spiraglio di quelle tele cerate, oltre il mantice della mia carrozzella! Un Giappone arcigno, infangato, mezzo annegato. Tutto case, bestie e persone, mi era noto soltanto per le immagini che ne avevo viste, dipinte sui fondi intensamente turchini o rosei dei parafuochi o dei vasi, e tutto mi appariva nella realtà sotto un cielo nero, con dei parapioggia, con degli zoccoli, in uno stato compassionevole», (S. C., pp. 12-12). 
4) «In realtà, in fatto di cose giapponesi, io sono meno ignaro di quanto si potrebbe supporre. Degli amici reduci da questo paese mi hanno istruito […]», (S. C., p. 12). 
5) «Oh! che spettacolo singolare! Evidentemente, si tratta di giovanotti eleganti di Nagasaki, che s’abbandonano a una baldoria clandestina! In una stanza nuda come la mia, sono dieci o dodici, seduti a terra in circolo. Lunghe vesti di cotone turchino colle maniche a pagoda; lunghi capelli [grassi e lisci] europei, a bombetta; facce grulle, esauste, esangui. A terra, una quantità di fornellini, di piccole pipe, di piccoli vassoi di lacca, di piccole teiere, di tazze minuscole; tutti gli accessori e gli avanzi di un’orgia giapponese, simile a una merenda di bimbi», (S. C., pp. 17-18). 
6) «Oh! che spavento, quando ella si volta! Ha sul volto la maschera orribile, contratta, livida, di uno spettro o di un vampiro… La maschera si stacca e cade… La donna è una piccola fata deliziosa, che ha forse appena dodici o quindici anni, snella, già civetta, già donna – con una veste lunga di crespo turchino cupo, ombrato, su cui sono ricamati pipistrelli grigi, pipistrelli neri, pipistrelli d’oro…», (S. C., p. 18). 
7) «– No, Missiù, no! Sono geishe, Missiù; sono geishe
– Ebbene? Perché no? Che importa, a me, che siano delle geishe
Più tardi, quando sarò istruito di cose giapponesi forse capirò quanto sia stolta la mia domanda: pare, veramente, ch’io abbia parlato di sposare il diavolo!...», (S. C., p. 22). 
8) «Mentre sto per partire, non so trovare in me stesso che un sorriso leggermente beffardo per il brulichio di questo popolo dalle molte riverenze, laborioso, industrioso, avido di guadagno, malato di leziosaggine costituzionale, di paccottiglia ereditaria, e di carattere scimmiesco incurabile…», (S. C., p. 141). 
9) Il saggio è citato da D. J. McAdam.
10) «[…] per divenire una smorfia un po’ senile, una sorridente bruttezza, un aspetto scimmiesco?...», (S. C., p. 83). 
11) «Una giapponese priva della sua lunga veste e della sua cintura dalla gala pomposa, non è più altro che un essere minuscolo e giallo, dalle gambe storte, dal seno piccolo e piriforme; non ha più nulla della sua grazia artificiale, che se n’è andata completamente, insieme coll’abito…», (S. C., p. 91). 
12) «Povero cugino 415! Avevo ragione di stimarlo molto: è il migliore e il più disinteressato di tutti i membri della mia famiglia giapponese. […] È per lui, la mia unica stretta di mano veramente cordiale, data senza nessun sorriso interno, nel lasciare questo paese… 
Certo, nel Giappone come in tanti altri luoghi, c’è maggior bontà e meno laidezza negli esseri semplici, che esercitano mestieri fisici», (S. C., p. 142). 

Bibliografia 

· Di Piazza E., L’avventura bianca, Adriatica Editrice, Bari, 1999. 
· Loti P., Madame Chrysanthème, Flammarion, Paris, 1990. 
· Quella-Villégar A., Pierre Loti, le pèlerin de la planete, Édition Aubèron, 2005. 
· Said E. W., Orientalismo, Feltrinelli, UE, Saggi, Milano, 2001. 


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