mercoledì 14 ottobre 2009

Antropologia

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

M. T. Pansera (cura), Il paradigma antropologico di Arnold Gehlen, Mimesis, Milano 2005

Quella di Arnold Gehlen è un’antropologia “immanente” (che rifiuta l’idea di una “scintilla divina” nell’uomo e quindi di un “gancio metafisico” che lo leghi ad un qualcosa di trascendentale); per lui l’uomo è un “progetto particolare” della natura, pertanto, per studiarlo, è necessario avvalersi di contributi provenienti dalle scienze naturali. A partire da tali premesse, la conclusione cui giunge Gehlen è che l’uomo sia un “essere carente”, sprovvisto cioè, al contrario degli altri animali, di organi “specializzati” che lo possano inserire adeguatamente in un determinato ambiente naturale. Per compensare tali carenze fisiologiche l’uomo è quindi costretto a crearsi un ambiente artificiale, tramite la tecnica. Nasce così un mondo artificiale che produce delle particolari conseguenze psicologiche e sociali nello stesso uomo che lo ha creato.
Il pensiero di Gehlen si sviluppa quindi in un iter che va dalle scienze naturali a quelle psicologiche e sociali, ed i testi presenti in questo volume si propongono di ricostruire questo percorso di riflessione.
Nel volume:
Andrea Borsari, Totemismo e raffigurazione imitativa
Michele Farisco, Antropologia negativa e identità relazionale: l’uomo precario di Gehlen
Mario Marino, Sul significato di una dottrina del linguaggio per l’antropologia di Gehlen
Vallori Rasini, Arnold Gehlen: natura umana e azione
Karl-Siegbert Rehberg, Motivi esistenziali nell’opera di Arnold Gehlen
Amedeo Vigorelli, Arnold Gehlen e la rinascita di Schopenhauer
Ubaldo Fadini, Arte e natura. Su alcuni propositi di Arnold Gehlen
Maria Teresa Pansera, Prospettive etiche dell’antropologia gehleniana
Federico Sollazzo, Il ruolo della tecnica nell’antropologia gehleniana

(«B@belonline.net», n. 6, 2004)

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6 commenti:

  1. gullace girolamo mario15 ottobre 2009 alle ore 06:15

    In contrapposizione alle tesi di Gehlen che vede una carenza nella mancanza di specializzizioni nell'uomo quelli che invece quella mancanza la definiscono una ricchezza. Tra tutti gli organismi di natura l'uomo si caratterizza per la sua infinita possibilità di adattamento, di essere in rapporto a quello che l'ambiente è, oppure di modificarlo in base a sue esigenze economiche o esistenziali. La più grande tecnica di cui è depositario è la capacità illimitata di creare dei simboli e il massimo oggetto che ha simbolizzato è se stesso. Una conseguenza di questo è la sua alienazione, il suo distacco dalle altre cose esistenti in natura. Oscillando tra la paura della soltudine e l'autocelebrazione della sua intelligenza porterà il fuoco di Prometeo fino alla dissoluzione.

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  2. Ciao Federico,
    interessante la tesi sviluppata. Bisognerebbe, comunque, leggere i dieci testi che argomentano intorno agli studi di Arnold Gehlen e alla sua antropologia “immanente”.

    Erwin

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  3. Le carenze organiche dell'uomo, in contrapposizione alle specializzazioni organiche degli altri animali, lo costringono a creare, tramite la tecnica, un mondo artificiale, poiché in quello naturale non sopravvivrebbe: gli animali si adattano al mondo, l'uomo adatta il mondo a se stesso: «(...) cosicché accanto alle tecniche di "integrazione", che rimpiazzano le capacità non concesse ai nostri organi, compaiono le tecniche di "intensificazione", che producono effetti superiori a quelli raggiungibili con le solo forze naturali (...) Infine vi sono le tecniche di "agevolazione", volte ad alleggerire la fatica dell'organismo e quindi in generale a permettere un risparmio di lavoro» [A. Gehlen, "L'uomo nell'era della tecnica", Armando, Roma 2003, pp. 32-33].
    Quanto alle conseguenze che questo processo (ovvero la tecnica) produce, vi sono molteplici interpretazioni. In sintesi, lo stesso Gehlen, che ritiene che l'uomo debba ancora abituarsi ad avere a che fare con la propria stessa tecnica («Dall'universo della tecnica (...) non si può e non si deve uscire. Del resto esso costituisce un "mondo culturale", quello stesso che l'uomo, "essere incompiuto", si è costruito, si costruisce, proprio per compiersi. Non si può e non si deve uscire dalla propria casa, abbandonare il proprio "posto nel mondo"» [A. Negri, "A. Gehlen: antropologia elementare e psicologia sociale", in A Gehlen, "L'uomo nell'era della tecnica", SugarCo, Milano 1984, p. XXVIII]); il pensiero "naturalista" di Hans Jonas, che ritiene che il "Prometeo scatenato" lo si possa fermare mettendo la tecnica al servizio della natura (su questo tema scriverò a breve); la prima Scuola di Francoforte (e per assonanza di certi temi direi anche Pier Paolo Pasolini), che evidenzia gli effetti disumanizzanti che la razionalità strumentale, di cui la tecnica è portatrice, produce sull'uomo; Martin Heidegger, che propone il sentiero (a mio modesto parere il più meditato e il più ragionevole) di non privarsi della tecnica (cosa che, seppure volesse fare, sarebbe per l'uomo impossibile), ma di usarla a partire dalla consapevolezza delle inevitabili conseguenze che essa produce sulla forma mentis dell'uomo: «Possiamo far uso dei prodotti della tecnica e nello stesso tempo, in qualsiasi utilizzo che ne facciamo, possiamo mantenercene liberi, così da potere in ogni momento farne a meno. Possiamo far uso dei prodotti della tecnica conformarci al loro modo di impiego, ma possiamo allo stesso tempo abbandonarli a loro stessi, considerarli qualcosa che non ci tocca intimamente e autenticamente. Possiamo dire di sì all'uso inevitabile dei prodotti della tecnica e nello stesso tempo possiamo dire loro di no, impedire che prendano il sopravvento su di noi, che deformino, confondano, devastino il nostro essere» [M. Heidegger, "L'abbandono", Il Melangolo, Genova 1983, pp. 37-38].

    Federico Sollazzo

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  4. l'etologia ci insegna come la matrice istintiva dell'uomo non sia così diversa da quella animale e che la tecnica diventa sempre mezzo affinchè l'uomo adatti la natura al suo essere, a differenza del mondo animale. La più grande capacità dell'uomo è la mente che grazie alla sua reattività e proattività reagisce agli stimoli assimilandoli e inviandoli proprio verso quel mondo artefatto che crea per soddisfare le sue esigenze primarie e secondarie.

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  5. L' uomo è un essere vivente in grado di modificare la natura per meglio adattarla a sè stesso.
    A mio modestissimo parere questo è negativo, per la natura in prima battuta e conseguentemente anche per l' uomo.
    Occorre tuttavia ricordare che non tutte le popolazioni umane vivono secondo questo principio, mi vengono in mente i popoli che vivono nella foresta amazzonica, gli aborigeni australiani e i nativi americani, fulgido esempio di società che amavano la terra e non le prendevano più di quanto ella potesse dare...

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  6. Quello di Gehlen non è un giudizio di merito, ma un'analisi di una situazione di fatto.
    Le popolazioni primitive modificano la natura in maniera meno significativa rispetto a quelle evolute, tuttavia la modificano.
    Questo preme evidenziare a Gehlen: l'uomo (per la sua stessa struttura antrpologica, quindi indipendentemente da qualsiasi contingenza storica e/o geografica) per sopravvivere non si adatta alla natura, ma adatta la natura a se stesso.

    Federico Sollazzo

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