venerdì 19 giugno 2009

Il modello democratico delle "pòleis" in Hannah Arendt



di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

La democrazia è la risposta che, sia sul piano concettuale che fattuale, il mondo occidentale ha dato per superare i vari mali della politica, dal dispotismo al totalitarismo, inteso in tutte le sue possibili accezioni e varianti teorico-pratiche. Eppure, nella cultura occidentale, sono presenti anche delle critiche nei confronti dell’idea e/o della messa in pratica della democrazia: da Platone, che la considera una forma di degenerazione dello Stato, al pari della timocrazia, dell’oligarchia e della tirannide, a chi, come ad esempio Alexis de Tocqueville, ne denuncia l’insito pericolo "dispotico", ovvero quello di una tirannia della maggioranza(1). Il limite della democrazia appare allora quello della possibile cristallizzazione di determinate regole e procedure, rischio però evitabile mantenendo una costante rivedibilità delle norme, alla cui (ri)definizione possa partecipare chiunque, avendo i requisiti necessari(2), desideri farlo.
Significativo, a questo proposito, è il soffermarsi di Hannah Arendt sulla definizione aristotelica di uomo come
zōon politikon, in essa è infatti presente la concezione greca della politica, intesa come bios politikos, come un vivere politico che non rappresenta una semplice dilatazione della vita privata (come nel caso della phratria e della philē), ma un nuovo ordine d’esistenza (inaugurato dalle pòleis) fondato su ciò che, a parte le necessità biologiche, accomuna gli uomini: praxis (l’azione) e lexis (il discorso). Fra questi due elementi costitutivi delle pòleis, il secondo ha preso gradualmente il sopravvento sul primo (distinguendosi peraltro in retorica, l’arte del discorso pubblico, e dialettica, l’arte del discorso filosofico), portando così Aristotele ad una seconda definizione di uomo, quella di zōon logon ekhon (essere vivente capace di discorso/ragionamento; il termine logos racchiude entrambi i significati). Così, per la Arendt, le pòleis hanno infine adottato la parola e la persuasione come strumento decisionale, considerando la violenza ed il potere incontrastato di uno o pochi uomini, delle forme relazionali prepolitiche, tipiche della vita domestica o degli imperi asiatici, per questo considerati barbarici; in politica, insomma, non esiste alcun pater familias. Per questo la Arendt critica le traduzioni, riconducibili a Tommaso d’Aquino, di zōon politikon come essere sociale, e di zōon logon ekhon come essere razionale; in entrambe queste traduzioni infatti, si perde la concezione originale greca della politica: nel primo caso si confonde il bios politikos con una generica societas, nel secondo si commette l’errore di supporre che, per i greci, il logos sia una facoltà propria di tutti gli uomini, anziché comprendere come esso rappresenti un modus vivendi tipico solo di chi vive nel bios politikos. A causa di queste scorrette traduzioni, il cui errore di fondo sta nell’avere voluto adattare al pensiero romano-cristiano espressioni provenienti da un altro mondo culturale, quello greco antico, la sfera politica è stata gradualmente sostituita da quella sociale.
Nelle
pòleis la sfera della politica è la sfera della libertà, e in quanto tale si oppone alla sfera delle necessità, cioè alla sfera domestica. In quest’ultima gli uomini si uniscono spinti dai loro bisogni e dalle loro necessità, e l’uso della forza e della violenza è giustificato poiché rappresenta il solo modo per avere ragione della necessità; nella sfera domestica vige una rigida disuguaglianza che consente il dominio del pater familias(3). La sfera politica, al contrario, si basa sulla libertà e sull’eguaglianza di tutti i suoi membri, infatti, essere liberi significa essere liberi dalle urgenze della vita e dalla disuguaglianza gerarchica relativa ad ogni forma di dominio. La sovrapposizione della sfera domestica su quella politica genera la società, la cui caratteristica di fondo consiste pertanto nel significato pubblico assunto dalle necessità private, in primo luogo quelle biologiche (non a caso prima dell’avvento della sfera sociale la schiavitù viene considerata un male peggiore della morte e gli schiavi vengono considerati dei codardi per non preferire la morte alla condizione servile, opinione questa incompatibile con la sacralizzazione della vita successivamente operata dal cristianesimo). Quindi, nella sensibilità antica, vivere nella sfera domestica è tutt’altra cosa che vivere nella sfera pubblica, nella prima infatti l’uomo è privato della possibilità di mostrare ed esprimere le sue facoltà più alte, e dunque non è considerato propriamente umano.

Una delle caratteristiche della vita privata […] era che l’uomo esisteva in questa sfera non come un vero essere umano ma solo come un caso della specie animale del genere-umano. Questa, precisamente, fu la ragione ultima dello straordinario disprezzo concepito per essa dall’antichità
(4)

Ora, l’avvento del sociale non solo sposta nella politica temi considerati nell’antichità pre- o addirittura anti-politici, come ad esempio il mantenimento della vita biologica, ma determina anche una "gerarchizzazione della vita pubblica". Infatti, la disuguaglianza tipica della sfera domestica investe la società, si passa così dalla gerarchia dei membri di una famiglia, alla gerarchia dei gruppi di una società. Tuttavia, a differenza dell’ordine familiare, nell’ordine sociale non è identificabile il soggetto detenente il potere, il quale diviene così impersonale, cioè burocratico, ma non per questo privo di forza, anzi, la sua forza risiede nell’affidare a ciascun membro della società un genere di comportamento, così da "normalizzarne" la condotta, escludendo in lui la possibilità di azioni spontanee, impreviste o eccezionali. Se l’azione è tipica della sfera politica antica, il comportamento lo è della società moderna: l’azione è una modalità di relazione tra gli uomini, grazie alla quale potersi distinguere dagli altri, tramite gesta e imprese fuori dal comune, ovvero eccellendo; il comportamento descrive fatti tipici di interi gruppi sociali nei quali i gesti del singolo, non solo sono irrilevanti, ma se si discostano troppo dai modelli sociali dominanti, dal conformismo che essi impongono, determinano la asocialità o la anormalità di quel singolo, per questo i comportamenti vengono descritti con le leggi della statistica. Così, la società uniforma gli uomini permettendo un solo interesse ed una sola opinione, in altri termini, non è tollerata alcuna forma di differenza rispetto al "comportamento sociale". Queste problematiche sono, per la Arendt, inevitabilmente legate al venire meno della sfera pubblica, in altre parole, non è possibile allontanarsi dal paradigma politico antico, senza incorrere nei suddetti problemi poiché la dimensione pubblica antica costituisce l’unico spazio adeguato al raggiungimento dell’eccellenza umana in una qualsiasi attività, eccellenza che risulta, nella modernità, priva di una sede in cui potersi manifestare. Inoltre, è corresponsabile della perdita dello spazio pubblico così come era inteso nelle pòleis, qualsiasi pensiero che si basi sull’assunto che il mondo non durerà: per tal via si inibisce ulteriormente il desiderio di eccellere, poiché esso è legato alla volontà di determinare anche nel futuro, oltre che nel presente, una traccia duratura della propria esistenza, ricercando così l’immortalità, ovvero il ricordo da parte delle future generazioni:


Alla base dell’antica stima riservata alla politica è la convinzione che l’uomo in quanto uomo, ogni individuo nella sua irripetibile unicità, appare e conquista la sua identità nel discorso e nell’azione, e che queste attività, malgrado la loro futilità da un punto di vista materiale, posseggono una qualità durevole perché provocano il ricordo di sé(5)


Ciò non sta ad indicare la presenza, negli antichi greci, di una sorta di egoismo individualistico, ma il fatto che, per essi, si potesse avere un’identità personale solo avendo una "storia" da condividere con gli altri uomini e da lasciare in eredità, sottoforma di "fama immortale", alle future generazioni. Da questa prospettiva, la
pòlis rappresenta lo scenario ideale nel quale poter acquisire, tramite la condivisione di parole e atti, tale fama immortale. La pòlis è, quindi, memoria delle gesta del passato e "palcoscenico" per quelle del presente, finalizzate all’essere ricordati nel futuro. Pertanto le pòleis non si debbono considerare solo come delle Città-Stato fisicamente situate in un territorio, ma come una specifica organizzazione umana scaturente dall’agire e dal parlare insieme all’interno di un determinato spazio comune in cui poter apparire; insomma per la Arendt, la pòlis è l’esatto opposto di ciò che è il totalitarismo: essa rappresenta non un determinato evento storico-politico, ma una vera e propria categoria concettuale, indipendente dalle coordinate spazio-temporali di realizzazione:

"Ovunque andrete, voi sarete una polis": queste parole famose non solo furono la parola d’ordine della colonizzazione greca, ma esprimevano la convinzione che l’azione e il discorso creano uno spazio tra i partecipanti che può trovare la propria collocazione pressoché in ogni tempo e in ogni luogo(6)

Tuttavia, da ciò non si deve erroneamente evincere che la Arendt aneli all’


esclusione o (al)la negazione della sfera sociale, che non avrebbe senso in una moderna concezione dell’agire, ma (al)la sua necessaria sottomissione alla sfera della politeia. In altri termini, per poter agire in pubblico, con gli altri, un essere umano deve radicarsi necessariamente nel privato – deve esistere come creatura, grata delle sue origini e sola dinanzi alle domande poste dal mero fatto di esistere – ma, a partire da tale solitudine e privatezza, egli può fondare con gli altri uno spazio comune, in cui le differenze originarie non contano più. L’isonomia, tipo ideale della forma politica in Hannah Arendt, è infatti la conquista dell’uguaglianza, davanti alla legge comune, di esseri che restano essenzialmente diversi(7)


Ma diversamente, e ben distante, dai desideri della Arendt, ciò che si manifesta nella moderna dimensione sociale, non è più l’
aretē o la virtus, bensì sono le passioni e le emozioni soggettive che, uscendo dall’ambito dell’intimità ed invadendo la dimensione dell’essere in comune, causano il rischio di una deriva solipsistica, che mette in dubbio la certezza della realtà del mondo e degli altri uomini. Ciò accade perché nella moderna società di massa le relazioni fra gli uomini sono più rare e difficoltose che nel mondo antico. In esso infatti la condivisione della sfera pubblica offre agli uomini la possibilità di relazionarsi tra loro, mentre, nella società di massa non esiste alcun mondo comune (poiché lo spazio sociale è disgregato in una serie di proiezioni dell’intimità individuale) che possa mettere in relazione fra loro gli uomini. Ma, quando la Arendt si lamenta dell’assenza di un mondo comune, non si deve fraintendere ciò, supponendo che essa desideri l’esistenza di un’unica prospettiva dalla quale osservare la realtà (cadendo così nella sua stessa critica al concetto di ideologia), quello che rimpiange è invece l’esistenza di uno spazio comune all’interno del quale poter confrontare prospettive diverse: la distruzione di un mondo comune

può avvenire in condizioni di radicale isolamento […] Ma può anche accadere nelle condizioni di una società di massa o di isterismo di massa, in cui vediamo tutti comportarsi improvvisamente come se fossero membri di una sola famiglia, moltiplicando e prolungando ciascuno la prospettiva del suo vicino. In entrambi i casi gli uomini sono divenuti totalmente privati, cioè sono stati privati della facoltà di vedere e di udire gli altri, dell’essere visti e dell’essere uditi da loro. Sono tutti imprigionati nella soggettività della loro singola esperienza, che non cessa di essere singolare anche se la stessa esperienza viene moltiplicata innumerevoli volte
(8)

Quindi, se il termine "privato" nel suo uso originario indica la privazione della vita politica, esso indica invece oggi la privazione di una qualsiasi forma di relazione con gli altri, al punto tale che qualunque cosa un uomo faccia nella sua
privacy, rimane senza significato e senza importanza per gli altri. Non a caso la Arendt individua nella solitudine il fenomeno di massa par excellence dell’attuale società(9). La tendenza a rinchiudersi nella privacy si trova in nuce nel cristianesimo, per il quale la politica costituisce un peso che qualcuno deve assumersi per il bene di chi, libero da tale fardello, possa occuparsi della gestione della propria casa e della salvezza della propria anima; il radicarsi di tale prospettiva nell’odierna società conferisce talmente tanta importanza alla privacy, da esaltare tutto ciò che è in essa contenuto, in primo luogo la proprietà privata e la ricchezza. Significativo a questo proposito è il fatto che nel mondo antico il peculium, il possesso privato di uno schiavo, potesse ammontare a somme considerevoli, testimoniando dunque come la ricchezza non fosse tenuta in gran considerazione, in quanto ininfluente ai fini della vita politica; nell’antichità le ricchezze sono ininfluenti ai fini dell’ammissione alla vita pubblica, per accedere alla quale i requisiti richiesti sono quelli della libertà e dell’appartenenza alla comunità. Risulta in tal modo ancora più chiaro come la transizione dal mondo culturale antico a quello moderno consista essenzialmente nella trasformazione della cura privata dei beni privati (nei quali rientra sia la vita biologica che la ricchezza privata) in una preoccupazione pubblica(10). Per la Arendt, quindi, lo spazio privato priva gli uomini di una "esistenza autentica", raggiungibile solo in uno spazio pubblico nel quale l’uomo possa realizzare appieno la sua natura di "essere politico". Quello politico è, essenzialmente, un atto creativo, per potersi dedicare al quale la conditio sine qua non è la libertà dalle necessità naturali.
A mio avviso, questo però non significa che, come da alcuni interpreti dell’opera arendtiana è stato detto, l’azione sia, essenzialmente, contro natura, come se, nelle loro funzioni più alte, le pòleis rappresentassero una negazione della natura:

Esistenza contro natura. Contro natura è la cultura, la storia, epperciò anche (forse soprattutto) il senso che talvolta l’esistenza riesce a conferire alle cose del mondo e alle relazioni fra gli uomini(11)

Diversamente, ritengo che l’azione non sia, per la Arendt, una forma di opposizione alla natura, bensì una forma di trascendimento della natura, un andare oltre la natura, emancipandosi da essa il più possibile (tendendo, cioè, al balzo dal regno delle necessità a quello della libertà), senza per questo negarla: senza la vita biologica, l’esistenza politica non potrebbe avere luogo. Semmai, da tale prospettiva, la natura può rappresentare una negazione della cultura (in quanto una vita spesa unicamente nella dimensione biologica, come accade all’animal laborans, è del tutto impolitica), ma se la cultura distruggesse la natura, distruggerebbe le sue stesse fondamenta, collassando. La cultura non è contro natura, è oltre la natura.

1) Cfr. Platone, Repubblica, in Tutti gli scritti, Rusconi, Milano 1991, e A. de Tocqueville, La democrazia in America, in Scritti politici, UTET, Torino 1968-1969, 2 voll.
2) Ritengo infatti che l’accesso alla vita politica debba essere filtrato dal conseguimento di requisiti “tecnici” (conoscenza del funzionamento delle istituzioni) e culturali, che possano essere potenzialmente conseguiti da chiunque.
3) Per la Arendt, ciò è massimamente evidente nella legislazione ateniese di Solone, che limita il potere paterno solo nel caso in cui esso confligga con l’interesse della pòlis, inoltre, i diritti connessi alla domestica patria potestas rendono comprensibili fenomeni quali l’esposizione e la vendita dei lattanti: «il potere paterno era limitato solo quando veniva in conflitto con l’interesse della polis, e mai a vantaggio del singolo membro della famiglia», H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1991, p. 246, nota 16 al Cap. II.
4) Ibidem, p. 34.
5) Ibidem, p. 153, corsivo mio; anche la riflessione filosofica solitaria e la pratica della bontà cristiana contribuiscono alla distruzione dello spazio pubblico: la prima si basa su un dialogo solitario tra “sé e se stesso” (fondamentale come momento preliminare all’accesso alla sfera pubblica, deleterio per quest’ultima se fine a se stesso), la seconda si fonda sull’assunto che le buone azioni, per essere tali, non debbano essere né viste, né udite, né ricordate e, dunque, assenti da un mondo comune; cfr. La posizione delle attività umane, in Ibidem.
6) Ibidem, p. 145, corsivo mio.
7) A. Dal Lago, Introduzione, in H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 43-44, parentesi mie.
8) H. Arendt, Vita activa, cit., p. 43.
9) Sulla solitudine e l’isolamento come fenomeni della moderna società, cfr. D. Riesman, La folla solitaria, Il Mulino, Bologna 1956.
10) Esemplificativo di ciò è il fatto che, nella modernità, i soggetti benestanti non usano le proprie ricchezze come un fondo esonerante dal lavoro che consenta loro di accedere alla sfera pubblica, ma per l’accumulazione di ulteriore ricchezza, utilizzando il potere politico unicamente come protezione di questa.
11) P. Flores d’Arcais, L’esistenzialismo libertario di Hannah Arendt, in H Arendt, Politica e menzogna, SugarCo, Milano 1985, p. 17, cfr., dello stesso autore, Hannah Arendt: esistenza e libertà, autenticità e politica, Fazi, Roma 2006.

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