mercoledì 6 maggio 2009

Politica e totalitarismo

di Federico Sollazzo (p.sollazzo@inwind.it)

La violenza e la soppressione vengono promulgate, praticate e difese dai governi democratici e autoritari in ugual misura e la gente sottoposta a questi governi viene istruita a sostenere tali pratiche come necessarie
H. Marcuse, Tolleranza repressiva

Il totalitarismo ha, come qualsiasi altro fenomeno, una sua essenza concettuale, per giungere alla quale è preliminarmente utile muovere da una dimensione, quella politica, che, pur non rappresentandone l’essenza, ne contiene però i più vistosi ed espliciti effetti, attraverso i quali è possibile tendere a quella. I regimi totalitari hanno infatti manipolato la politica, rendendola funzionale al mantenimento del potere da parte loro, hanno, cioè, visto nella politica lo strumento privilegiato per la gestione del potere. Ovviamente, ciò non significa che il totalitarismo non investa anche campi extra- e/o meta-politici, ma che il controllo sulla vita (bios) avviene attraverso un determinato uso della politica; si palesano così i germi della foucaultiana trasformazione della politica in biopolitica, la quale non si accontenta di subordinare la libertà individuale alla Ragion di Stato (come nel machiavelliano Il Principe) né di ridurla a merce cedibile (come nell’hobbesiano Leviatano), ma pretende di far scomparire l’idea stessa di libertà(1).
Ma perché il totalitarismo ha investito così violentemente l’ambito della politica? Per rispondere bisogna ricordare che l’esperienza totalitaria affonda le sue radici nella crisi storica e teoretica della democrazia, quindi, se si vuole comprendere la genesi politica della società totalitaria, si deve chiarire la relazione che essa intrattiene con la democrazia. Infatti, non solo e non tanto dalle ceneri di Weimar, ma soprattutto dalle questioni teoriche e dalle contraddizioni lasciate irrisolte dalla democrazia, ha tratto impulso il totalitarismo.
Con il progredire della burocrazia amministrativa statale, lo Stato appare sempre più come un’entità indipendente ed impersonale, si realizza così il distacco fra questo e la società civile:

Il potere appare come un luogo vuoto, e coloro che lo esercitano appaiono come semplici mortali, che non lo occupano se non temporaneamente, o che non possono collocarvisi se non con la forza o l’astuzia. Nessuna legge che possa più essere stabilita per sempre, i cui enunciati non siano passibili di essere contestati, i cui fondamenti non siano suscettibili di essere rimessi in questione […] La democrazia inaugura l’esperienza di una società inafferrabile, incontrollabile, nella quale il popolo sarà detto sovrano, certo, ma non cesserà di mettere in discussione la propria identità e quest’ultima rimarrà allo stato latente(2)

La modernità ha dunque prodotto una “rivoluzione democratica”, che è stata però rifiutata e rigettata dal corpo sociale che in precedenza l’aveva desiderata, poiché questa aveva creato un vuoto sociale (l’assenza di regole, valori e verità incontestabili) che gli individui, stretti fra l’inaccessibilità alle istituzioni e la deresponsabilizzazione politica, non erano in grado di colmare, se non delegando la risoluzione del problema ad un "potere superiore".
Il totalitarismo, quindi, getta le sue radici in quegli spazi vuoti perché abbandonati dai cittadini a causa di una mancanza di responsabilità politica, indotta e rafforzata dai fenomeni di massificazione e burocratizzazione; il suo a priori consiste, pertanto, in un mancato uso della ragione, anzi, nel completo trionfo dell’antiragione, che solo in un secondo momento genera un vero e proprio male politico, originando delle società barbariche. Uno smarrimento dell’uomo a se stesso sembra, allora, essere l’humus ideale per l’avvento di qualsiasi perversione politica, smarrimento superabile con una sorta di nuovo umanesimo in cui l’uso della ragione non sia solo fonte di responsabilità politica, ma di libertà.

Il totalitarismo infatti rappresenta uno dei massimi paradigmi dell’antiragione all’opera nella storia. Laddove l’antiragione viene scambiata per ragione e la tecnica viene confusa con la scienza, laddove l’esistenza rimane imprigionata nelle maglie dell’esserci e si rompe la comunicazione tra le persone, là il totalitarismo trova il suo terreno più propizio, là il male trova la sua affermazione. Ma ciò non accade fortuitamente, l’antiragione prevale solo se la ragione non è più se stessa, se smarrisce il suo senso di responsabilità(3)

E lo smarrimento di tale senso di responsabilità è un rischio sempre presente, al punto tale che, gli atteggiamenti che, puntualmente, Karl Jaspers descrive come tipici della popolazione tedesca degli anni Trenta, si adattano anche a molti altri contesti socio-politici:

disinteresse per la costituzione, facilità a lasciarsi trascinare dai sentimenti nazionalistici […], incapacità generale a considerare obiettivamente i problemi cruciali, e una certa tendenza a cullarsi nelle illusioni(4)

Ora, tale ragionamento di Jaspers sul concetto di responsabilità può sicuramente interagire con la arendtiana crisi della capacità di giudizio, da cui scaturisce ogni male, tanto più radicale quanto più banale(5).
Tornando ora ai meccanismi totalitari di controllo del potere, si è già rilevato come essi designino l’insorgere della biopolitica, intesa come il potere di gestione della vita, che si manifesta sia come cura della vita biologica che come ricerca della felicità:

Il nazismo, dopotutto, non è altro che lo sviluppo parossistico dei nuovi meccanismi di potere instaurati a partire dal XVIII secolo […] Potere disciplinare, bio-potere: tutto ciò ha attraversato e sostenuto materialmente fino all’estremo la società nazista (presa in carico e gestione del biologico, della procreazione, dell’ereditarietà, così come della malattia, degli incidenti e via di seguito). Nessuna società è stata più disciplinare e al contempo più assicurativa di quella instaurata, o in ogni caso progettata, dai nazisti. Il controllo dei rischi specifici dei processi biologici era infatti uno degli obiettivi immediati del regime(6)

Il biopotere è, però, un tratto inscritto nel funzionamento di tutti gli Stati moderni, che i totalitarismi non hanno fatto altro che inaugurare, prima, ed estremizzare, poi:

Mi sembra che uno dei fenomeni fondamentali del XIX secolo sia stato ciò che si potrebbe chiamare la presa in carico della vita da parte del potere. Si tratta, per così dire, di una presa di potere sull’uomo in quanto essere vivente, di una sorta di statalizzazione del biologico […] di una tecnologia di potere che ha come oggetto e come obiettivo la vita(7)

La biopolitica è, pertanto, l’eredità del totalitarismo dalla quale gli Stati di oggi non si sono ancora affrancati. Tuttora, infatti, il potere politico si presenta innanzi tutto come garante della sicurezza, della salute e della prosperità di un intero popolo, imponendosi, per tali vie, come una forma di controllo totale e capillare, invadendo l’esistenza di tutti e tutta l’esistenza. Così, sia negli Stati totalitari che nei moderni regimi democratici, è presente la configurazione del potere sottoforma di biopotere, con tutte le conseguenze antropologiche ed ontologiche che ne derivano, ovvero la ridefinizione dell’umano(8).
Ora, l’alternativa a questa forma di dominio sociale non consiste certo nella rinuncia, da parte della politica, alla progettazione di forme di convivenza umana fondate sulla giustizia, intesa come la difesa delle esigenze e la maturazione delle facoltà biologiche ed emozionali dell’uomo. Tuttavia, ed è questo il punto discriminante, tutto ciò deve avvenire all’insegna di una correlazione tra etica e politica, mettendo la seconda al servizio della prima, ovvero, conferendo alla pratica politica un contenuto etico. E l’etica che a tale fine servirebbe deve di necessità essere un’etica "umana", fatta dagli uomini per loro stessi, che, pur consapevole dei propri limiti e della propria finitudine, rifiuta di avvalersi di un qualsiasi potere superiore, sia esso naturalistico, storico o metafisico(9), il ricorso al quale riproporrebbe fatalmente la problematica della deresponsabilizzazione etico-politica.
Inoltre, il soggetto di una auspicabile accettazione della responsabilità etico-politica deve essere non l’individuo, ma la "persona": uno Stato che voglia tentare d’esprimere valori etici deve avere a suo fondamento teoretico non il concetto di individuo, bensì quello di persona. Difatti l’idea di persona, rimandando alla rete di interazioni con il prossimo, consente lo sviluppo della vita associata come un tutto unitario. Al contrario, la nozione di individuo disgrega la “tensione emotiva” che regge una comunità politica, sostituendo la società con una massa, in cui gli individui risultano uniti non “interiormente”, ma per una mera contiguità spaziale; ne consegue un’ampia manipolabilità dell’ individuo-massa, condizione fondamentale di ogni totalitarismo(10).
Correntemente, la necessità di comprendere e combattere ogni forma di totalitarismo si è fatta sempre più pressante giacché le potenzialità distruttive in mano all’uomo si sono enormemente incrementate, a seguito dello sviluppo tecnologico, raggiungendo la possibilità della totale soppressione della vita su scala globale. Insomma, non è del tutto improbabile che un odierno regime totalitario, a partire da un abuso del potere tecnologico, possa causare una catastrofe planetaria(11).
L’uomo si trova oggi in una situazione nuova e particolare, potendo potenzialmente annientare non solo la propria vita ma anche quella di tutti gli altri esseri. Sembra allora indispensabile mettere dei limiti alla figura di quel «Prometeo definitivamente scatenato»(12) che nutre una fiducia acritica nelle potenzialità scientifico-tecniche, applicate anche all’edificazione della convivenza umana, coltivando il sogno di una società perfetta come una teoria scientifica o una macchina tecnologica, e sostituendo scienza e tecnica all’etica nel compito di dare un fondamento all’azione politica.
Ancora una volta l’origine del male politico risiede nella dismissione dell’impegno del pensiero che, in questo caso, rimette le proprie responsabilità ad una ratio ipertrofica.
Non è un caso che due importanti pensatori del Novecento abbiano ripetutamente insistito sulla centralità della responsabilità personale nell’ambito delle dinamiche sociali:

Il punto decisivo è questo: non esiste una legge di natura né una legge storica che determina l’andamento delle cose nel loro complesso. L’avvenire dipende dalla responsabilità delle decisioni e azioni di uomini e infine di ogni singolo tra i miliardi di individui che formano l’umanità. Tutto dipende da ogni singolo. Col suo tenore di vita, con le sue piccole azioni quotidiane, con le sue grandi decisioni egli attesta a se stesso ciò che è possibile. Con questa sua presente realtà egli collabora impercettibilmente all’avvenire

Le grandi decisioni, per il bene e per il male, avvengono […] sul piano politico. Ma noi tutti possiamo preparare in modo invisibile il terreno cominciando da noi stessi. L’inizio, come tutto ciò che è buono e giusto, è ora e qui(13)

Insomma, che si tratti di forze trascendenti (come la religione) o di forze secolari, immanenti (come la natura, la storia, l’estremizzazione della ratio tecnico-scientifica o, più prosaicamente, l’autorità delle istituzioni), delegare ad esse le decisioni etico-politiche dell’uomo, significa aprire le porte a dinamiche deresponsabilizzanti che determinano la rinuncia alla partecipazione alla costruzione della società, lasciando tale compito a quei sedicenti poteri superiori. Non a caso, il totalitarismo arendtiano si può definire come la distruzione dell’idea di spazio pubblico, ereditata dalle pòleis greche, delle quali infatti, l’aspetto che l’autrice maggiormente rimpiange è quello della partecipazione ampia e diretta dei membri della comunità ai processi decisionali. Per la Arendt, infatti, la pòlis è tutt’altro che un mero fenomeno storico-politico, essa rappresenta il paradigma di una forma di comunità basata sull’«organizzazione delle persone così come scaturisce dal loro agire e parlare insieme»(14), ed è proprio l’eclissi di questo spazio pubblico che priva gli uomini della possibilità di un confronto dialogico sui principi normativi della vita pubblica.

1) Cfr. D. Scalzo, Vita ufficiale e male amministrato, in E. Donaggio – D. Scalzo (cura), Sul male, Meltemi, Roma 2003, e C. Galli, Potere, in P. P. Portinaro (cura), I concetti del male, Einaudi, Torino 2002.
2) C. Lefort, L’immagine del corpo e il totalitarismo, in S. Forti (cura), La filosofia di fronte all’estremo, Einaudi, Torino 2004, pp. 120-121.
3) F.Miano, Esistenza e responsabilità, in R. Gatti (cura), Il male politico, Città Nuova, Roma 2000, pp. 44-45.
4) K. Jaspers, Totalitarismo e cultura, Comunità, Milano 1957, p. 309; nello stesso saggio si ricorda l’importanza delle Università e dei mezzi d’informazione come luoghi di ricerca dell’uomo sull’uomo e, quindi, di autoeducazione.
5) Cfr. H. Arendt – K. Jaspers, Carteggio, Feltrinelli, Milano 1989, e H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano 1999; per il dibattito filosofico, in particolare di matrice ebraica, intorno al concetto di male cfr. F. Rella (cura), Il male, Pendragon, Bologna 2001.
6) M. Foucault, Bio-potere e totalitarismo, in S Forti (cura), La filosofia di fronte all’estremo, Einaudi, Torino 2004, pp. 100-101, saggio già stampato come ultima parte di M. Foucault, «Bisogna difendere la società», Feltrinelli, Milano 1998, corrispondente all’ultima parte del corso da Foucault tenuto nel 1976 al Collège de France.
7) M. Foucault, Bio-potere e totalitarismo, in S Forti (cura), La filosofia di fronte all’estremo, Einaudi, Torino 2004, pp. 77 e 95.
8) Cfr. S. Forti, Biopolitica delle anime, in «Filosofia politica», n. 3, 2003.
9) Già nel 1944, dalle pagine di «La France Libre», Raymond Aron definisce i totalitarismi, distinguendoli dai regimi tirannici, quali religioni secolari; essi infatti offrono un progetto ideologico internamente coerente che, come nel caso delle dottrine religiose, si pone come orizzonte salvifico, facendo apparire il movimento, prima, e il partito, poi, come anticipatori della futura umanità redenta. Cfr. R. Aron, L’avvenire delle religioni secolari, in S Forti (cura), La filosofia di fronte all’estremo, Einaudi, Torino 2004.
10) Cfr. E. Stein, Una ricerca sullo Stato, Città Nuova, Roma 1993.
11) Tale pericolo è ovviamente presente in tutti i tipi di governo che dispongono della tecnologia a ciò sufficiente.
12) H. Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 2002, p. 233.
13) K. Jaspers, Autobiografia filosofica, Morano, Napoli 1969, p. 121, e H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica, Einaudi, Torino 1997, p. 54.
14) H. Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1991, p. 145.

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1 commento:

  1. Ho trovato una pittura contemporanea sul tema “totalitarismo” :
    http://www.flickr.com/photos/26915283@N07/3896400202

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